Vedere l’impero. L’Istituto Luce e il colonialismo fascista | Gianmarco Mancosu
Nel corso degli ultimi anni la storia del colonialismo ha riscosso un particolare interesse all’interno della comunità scientifica, essendo oggi evidente il suo protagonismo nell’ambito della storiografia nazionale ed internazionale. L’esperienza coloniale è stata oggetto di una profonda riflessione in tutto il continente europeo, approdando anche in Italia grazie agli studi, fra gli altri, di Angelo del Boca1. In tempi più recenti, oltre a ricostruire modalità, processi e sviluppi del colonialismo italiano all’interno del continente africano – spesso frammentando questo studio in base al luogo specifico di occupazione – è sorta anche la necessità di riscoprire aspetti poco o per nulla conosciuti dell’esperienza italiana, favorendo in questo modo una riflessione che accomuni tutti i territori coloniali: dalla Cirenaica e Tripolitania fino al Corno d’Africa e all’oltre Giuba. Il lavoro che ci propone Gianmarco Mancosu, assegnista di ricerca in Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Cagliari2, si sviluppa seguendo proprio questo paradigma: l’analisi delle pratiche culturali e gli aspetti più o meno conosciuti della politica espansionistica italiana attraverso l’occhio della cinepresa – e cioè dell’Istituto Luce – quale interlocutore privilegiato nella travagliata storia coloniale italiana3.
Il volume, composto da nove capitoli, segue un’impostazione cronologica di fondo, anche se l’autore non basa il suo lavoro unicamente su di essa: vi sono infatti precise indicazioni sull’entrata della cinematografia nell’ambito coloniale, quali i suoi usi finalizzati all’educazione e alla propaganda (iniziata ben prima dell’arrivo del fascismo al potere), ma anche le funzioni pedagogiche e informative rivolte alla formazione di un consenso popolare. Il risultato è quindi una sintesi dedicata alla cinematografia coloniale e a come essa fu determinante per la creazione (prima) e consolidamento (poi) dell’impero.
Se facciamo un breve passo indietro, proprio all’inizio dell’avventura coloniale, Gaetano Salvemini aveva infatti affermato che la conquista della Libia doveva intendersi come l’acquisizione di un inutile “scatolone di sabbia”, motivo per il quale il governo di Giovanni Giolitti non si oppose all’uso delle moderne tecniche cinematografiche proprio per ribaltare queste opinioni. Con l’obiettivo di rafforzare lo slancio colonialista in cui si era gettata l’Italia, il Minerva (primo ente cinematografico italiano) fu posto al servizio dello Stato dando quindi inizio alla visione mediatica delle imprese in terra africana.
Con l’avvento del fascismo e l’interesse in primis dello stesso Mussolini (celebre fu il motto “la cinematografia è l’arma più forte”), venne creato l’Istituto Luce proprio per accentuare quel connubio tra propaganda ed estetica fascista, così da esaltare le imprese italiane nel continente africano. Al riguardo, Mancosu approfondisce con precisione quasi millimetrica le fasi che portarono alla creazione di un vero e proprio apparato iconografico coloniale, così come – a partire dal 1935 a causa dell’inizio della guerra d’Etiopia – di una sezione ad hoc del Luce in Africa: il “Reparto foto-cinematografico per l’Africa orientale”. Nell’analisi, non mancano ovviamente, in linea con il colonialismo europeo di inizio Novecento, anche alcuni esempi di viaggi esplorativi con risvolto scientifico proprio in quei luoghi (Eritrea, Somalia ed Etiopia) che marcarono fin da subito le intenzioni espansionistiche italiane. Anche il viaggio di Mussolini in Tripolitania (1926) favorì un rilancio delle iniziative coloniali che portarono, a partire dagli anni Trenta, alla realizzazione del grande sogno imperiale fascista: l’Africa Orientale Italiana. Dietro a tutte queste presenze italiane sul territorio, la rappresentazione stereotipata di una colonizzazione culturale, moderna e attenta anche alle opportunità economiche, ci fu sempre la cinepresa. Tutto ciò che poteva assecondare la visione civilizzatrice dell’Italia (e quindi sottolineare la barbarie o l’arretratezza delle popolazioni locali), venne usato per mettere in scena – secondo la propaganda fascista – gli enormi potenziali di quel continente, così come rafforzare il consenso verso il regime ed un atteggiamento aggressivo verso la comunità internazionale accusata di ostacolare l’espansione. L’autore non per nulla insiste su questa rappresentazione visiva, che portò poi – proprio attraverso il consenso – alla drammatica conquista dell’Etiopia a suon di bombe, gas vietati dalla convenzione di Ginevra e brutali massacri. Fu – utilizzando proprio le parole di Mancosu – anche una “guerra di celluloide” che esaltava il guerriero italico, elogiava la sua missione civilizzatrice ed entusiasmava le folle consolidando l’intesa tra il Duce conquistatore ed il suo popolo, eclissando però tutto il resto4.
Tra gli ultimi capitoli del libro troviamo una lunga riflessione che si lascia alle spalle la presenza militare, per inquadrare più da vicino l’operato del Luce in Africa. Nonostante buona parte della produzione cinematografica fosse stata indirizzata all’elemento bellico, una volta creato l’Impero e, come suggerisce l’autore, “addomesticato l’esotico”, l’interesse ricadde su altri aspetti della colonizzazione. L’Africa Orientale Italiana divenne – o almeno così veniva rappresentata dai cinegiornali dell’epoca – un immenso cantiere dove la costruzione di infrastrutture, la colonizzazione demografica e la creazione dei futuristici villaggi agricoli, divennero il Leitmotiv quotidiano grazie al quale il regime giustificava e glorificava l’opera italiana in territori così lontani. Questo messaggio, seppur stereotipato, non poté però nascondere un altro elemento del processo coloniale: la rappresentazione di un razzismo cinematografico che segregava sistematicamente i coloni bianchi italiani dal resto della popolazione. All’interno del volume, Mancosu sembrerebbe infatti affermare che l’apartheid all’italiana non fu poi così diverso da quello britannico o francese: nei cinegiornali si parlava assiduamente di opera civilizzatrice e politica del progresso, però questo non fu mai un pretesto per beneficiare anche le realtà locali. Piuttosto, il Luce insistette sulla conquista culturale di quell’angolo d’Africa, della lotta contro le autoctone “esperienze degenerate”, l’imposizione di un ordine bianco o, ancora, l’educazione degli africani alla subordinazione verso l’europeo ma anche verso il fascismo, inteso come nuovo ordine politico e sociale. Non mancò nemmeno uno spazio riservato alle donne italiane, le quali svolgevano il ruolo di fedeli spose ma soprattutto madri delle future generazioni di italiani nati nelle colonie: un richiamo a mantenere l’attenzione sulle opportunità offerte da quei luoghi. Chiude il quadro la questione degli spazi: le realtà architettoniche, la rivoluzione urbana e quindi meccanica delle città africane, ma anche la propaganda inversa: la costruzione di cinema e gli spazi visivi, dove l’africano riceveva un indottrinamento sulle qualità dell’Italia fascista, la sua missione civilizzatrice e quindi la sua superiorità: un’altra forma, in chiave filmica, di ricordare la sottomissione al “padrone” europeo.
Sebbene l’esperienza coloniale italiana sembrò lanciarsi con prontezza verso la conquista e la dominazione dei territori africani, studi recenti ci indicano che le cose non furono così facili e nemmeno immediate5 . Innanzitutto, ci fu una palpabile diffidenza degli italiani a colonizzare terre così lontane e sconosciute, ma anche prudenza di fronte alle promesse del regime o alla propaganda dei cinegiornali. Inoltre, sebbene in varie occasioni il Luce rimarcò le enormi potenzialità delle colonie, esse non divennero mai quell’appendice italica d’oltremare sognata da Mussolini, né ci fu la possibilità di rinforzare questa visione a causa, dato non trascurabile, dei ridotti finanziamenti del Luce in Africa. L’epopea coloniale venne rapidamente ridimensionata con l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, per poi concludersi con un effimero epilogo basato sullo slogan “ritorneremo” che anche i primi governi del dopoguerra cercarono – invano – di riscattare. Non ci fu una seconda opportunità, motivo per il quale neanche il Notiziario Nuovo Luce o l’INCOM poterono rifarsi sull’idillica immagine delle ex-colonie così da preservare gli interessi italiani. Semplicemente, esse scomparvero dalla memoria collettiva, riducendosi ad una parentesi oscurata dal tempo e dai profondi cambiamenti politici della seconda metà del XX secolo. Eppure, il brillante libro di Gianmarco Mancosu, così come tutta la storiografia che oggi approfondisce l’esperienza coloniale italiana, ci ricorda che l’Africa fu per lungo tempo al centro degli interessi italiani e che l’operato dei nostri connazionali andò ben oltre la semplice presenza militare: le pellicole del Luce, testimone di un tempo passato, sono un monito della memoria e come tali, devono essere utilizzate per ricostruire un passato che ci appartiene e ci responsabilizza davanti alla storia.
Notas
1 Solo per citare alcuni dei testi fondamentali di questo autore: DEL BOCA, Angelo, Gli italiani in Africa orientale, 4 voll., Roma-Bari, Laterza, 1976-1984; ID., Gli italiani in Libia, 2 voll., Roma-Bari, Laterza, 1986; L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Roma-Bari, Laterza, 1992; ID., I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Roma, Editori Riuniti 1996; ID., La nostra Africa. Nel racconto di cinquanta italiani che l’hanno percorsa, esplorata e amata, Vicenza, Neri Pozza, 2003. Ma si vedano anche i più recenti lavori di DOMINIONI, Matteo, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia (1936-1941), Roma-Bari, Laterza, 2008; ID., I prigionieri di Menelik, 1896-1897. Storie di soldati italiani nella Guerra d’Abissinia, Milano, Mimesis, 2021; ARTOLA, Emanuele, In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero, Roma-Bari, Laterza, 2019; OLIVA, Gianni, L’avventura coloniale italiana. L’Africa Orientale Italiana (1885-1942), Torino, Capricorno, 2016; FILIPPI, Francesco, Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie, Torino, Bollati Boringhieri, 2021.
2 Si vedano anche altre sue opere come: MANCOSU, Gianmarco, L’Impero visto da una cinepresa. Il reparto fotocinematografico “Africa orientale” dell’Istituto Luce, in DEPLANO, Valeria, PES, Alessandro, Quel che resta dell’impero: la cultura coloniale degli italiani, Milano, Mimesis, 2014, pp. 259-278; ID., L’Istituto Luce nella guerra d’Etiopia, in PISU, Stefano, War Films. Interpretazioni storiche del cinema di guerra, Milano, Società Italiana di Storia Militare, Acies Edizioni, 2015, pp. 211-224; ID., «Memorie coloniali in scena: l’opera di Gabriella Ghermandi tra musica e letteratura», in Africa e Mediterraneo. Cultura e Società, 92-93, 2020, pp. 92-95.
3 Sull’utilizzo della cinematografia come fonte per lo studio della storia, suggeriamo qualche opera come: SORLIN, Pierre, Ombre passeggere. Cinema e storia, Venezia, Marsilio, 2013; ID., Introduzione a una sociologia del cinema, Pisa, ETS, 2017; ID., Gli italiani al cinema. Pubblico e società nel cinema italiano, Mantova, Tre Lune, 2009. Si vedano anche: MARASTI, Alfredo, Storia e rappresentazione. Come il cinema italiano ha raccontato il fascismo, Ancona, Affinità Elettive Edizioni, 2015; FALASCA ZAMPONI, Simonetta, Lo spettacolo del fascismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003; ELLENA, Liliana, Film d’Africa. Film italiani prima, durante e dopo l’avventura coloniale, Torino, Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, 1999.
4 Per dirlo in un altro modo, come il Luce, «costruì e alimentò il consenso verso la guerra coloniale, un consenso artefatto e coartato ma che venne descritto in termini di adesione totale e religiosa all’orizzonte utopico dell’impero». Cfr. MANCOSU, Gianmarco, Vedere l’impero. L’Istituto Luce e il colonialismo fascista, Milano, Mimesis, 2022, p. 251.
5 Si vedano i già citati: FILIPPI, Francesco, Noi però gli abbiamo fatto le strade, cit.; ARTOLA, Emanuele, In terra d’Africa, cit. Consiglio anche la letttua del saggio di GAGLIARDI, Alessio, «La mancata «valorizzazione» dell’impero. Le colonie italiane in Africa orientale e l’economia dell’Italia fascista», in Storicamente, 12, 2016, pp. 17-48.
Resenhista
Matteo Tomasoni – Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Storia presso l’Universidad de Valladolid (Spagna, 2014), con una tesi sul fascismo spagnolo. Già dottore magistrale in Storia d’Europa presso l’Università di Bologna (2008), negli ultimi anni ha svolto attività di ricerca tra Spagna, Italia e Germania e collabora con vari gruppi fra cui il SIdIF (Seminario Interuniversitario de Investigadores del Fascismo), e la rivista «Zibaldone. Estudios italianos» di cui è membro della redazione. I suoi interessi sono rivolti allo studio dell’evoluzione storica del fascismo e dei movimenti politici del periodo tra le due guerre mondiali, oltre allo studio di alcuni aspetti della Prima guerra mondiale. Ha pubblicato El caudillo olvidado. Vida, obra y pensamiento de Onésimo Redondo (1905-1936), Granada, Comares, 2017. URL: http://www.studistorici.com/progett/autori/#Tomasoni
Referências desta Resenha
MANCOSU, Gianmarco. Vedere l’impero. L’Istituto Luce e il colonialismo fascista. Milano: Mimesis, 2022. Resenha de: TOMASONI, Matteo. Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, v.51, n.3, p.130-135, 2022. Acessar publicação original [DR/JF]