US public diplomacy in socialist Yugoslavia 1950-70. Soft culture cold partners | Carla Konta (R)

Carla Konta | Foto: Narod HR |

Dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, un numero crescente di studi ha affrontato il tema delle relazioni internazionali da una prospettiva diversa, non limitata alla dimensione della diplomazia tradizionale, ma diretta ad esaminare aspetti in precedenza trascurati, relativi ad esempio all’uso della cultura come strumento per promuovere l’immagine di un paese all’estero e quindi come risorsa essenziale nell’ambito della politica internazionale. La public diplomacy, insieme al soft power di cui questa rappresenta una delle principali espressioni, è così diventata la protagonista di un ricco filone di ricerche, animato in gran parte dalla storiografia anglosassone. Facendo spesso riferimento ai noti lavori di Joseph Nye, numerosi ricercatori hanno sviluppato su diversi versanti geografici e cronologici il tema del soft power, declinandolo principalmente attraverso la prospettiva della diplomazia culturale o, appunto, della public diplomacy, il cui rapporto con la cultural diplomacy è stato interpretato in modo non sempre univoco [1]. Una parte importante degli studi prodotti si è occupata, prevedibilmente, anche se non in modo esclusivo, del caso statunitense nel periodo della Guerra fredda: a tale proposito, il soft power, la diplomazia culturale e la public diplomacy erano visti come indispensabili risorse a disposizione della superpotenza americana per aumentare la propria influenza all’estero soprattutto in funzione di contenimento e contrasto dell’Unione Sovietica [2].

È in questa cornice che si colloca il volume di Carla Konta, ricercatrice formatasi alle Università di Fiume (Croazia) e Trieste, che ha già dedicato diversi studi in particolare alle relazioni fra Stati Uniti e Jugoslavia socialista, da una prospettiva spesso metapolitica, interessata in special modo alla dimensione culturale e all’interazione di idee e ideologie nella proiezione di una determinata immagine degli USA in Europa [3]. Il filo conduttore del volume, che analizza i rapporti fra Stati Uniti e Jugoslavia dal 1950 al 1970, è il soft power esplicato dalla public diplomacy statunitense nelle sue diverse articolazioni, ma in modo particolare l’azione esercitata dalle due agenzie protagoniste della propaganda culturale americana in Jugoslavia, l’USIA (United States Information Agency), che elaborava le linee strategiche da Washington, e l’USIS (United States Information Service), che operava sul territorio jugoslavo. Il volume fa in parte riferimento al filone di studi, ben rappresentato dalla storica serba Radina Vučetić, relativo al «Coca-Cola Socialism», ovvero alle modalità dell’adozione di alcuni aspetti del consumismo occidentale e in particolare americano nel contesto della Jugoslavia socialista, soprattutto negli anni Sessanta [4].

Il terminus a quo temporale da cui muove l’indagine è l’espulsione della Jugoslavia di Tito dal Cominform nel giugno del 1948 e il conseguente avvicinamento agli Stati Uniti, il cui obiettivo sarà, specialmente nella fase più acuta della Guerra fredda, durante le amministrazioni Truman e Eisenhower, di sostenere la Jugoslavia in funzione antisovietica [5]. Gli Stati Uniti però non si limitarono a supportare il regime di Belgrado dal punto di vista finanziario e militare, ma avviarono un’articolata politica di public diplomacy nel paese socialista, allo scopo di trasmettere una certa immagine dell’occidente filtrato attraverso il prisma dell’american way of life. Non si trattava di un compito semplice, perché la macchina del soft power doveva dimostrare la superiorità del modello americano, rappresentato sostanzialmente dal connubio fra libertà politiche e libertà economiche, senza tuttavia criticare direttamente il modello opposto, quello del socialismo pianificato. Condivisibile è l’impostazione del volume, per cui le attività di public diplomacy, che avevano effettivamente finalità di carattere propagandistico – portate avanti in modo spesso indiretto e allusivo – non possono essere sbrigativamente e superficialmente ridotte ad una manifestazione dell’imperialismo americano. Si trattava piuttosto di un delicato gioco delle parti fondato su un complesso equilibrio, per cui gli Stati Uniti tentavano di fare leva sulla diversità jugoslava e sulla sua peculiare collocazione internazionale per attirare a sé, per mezzo degli strumenti della cultura, la società e parti dell’intelligencija e della classe politica più giovane e aperta alle novità che giungevano d’oltreoceano. D’altra parte, la Jugoslavia accettava le attività americane in quanto aveva bisogno dell’appoggio di Washington e poiché teneva a dimostrare all’occidente le proprie peculiarità – l’autogestione, il «socialismo dal volto umano» –, che la distinguevano dal conformismo filosovietico dei paesi del «socialismo reale».

Tramite un approfondito lavoro di ricerca condotto principalmente negli archivi americani, serbi e croati e basato inoltre su un’ingente mole di documenti diplomatici editi, su una serie di interviste e sulla consultazione di periodici e letteratura specialistica, Carla Konta ricostruisce in modo puntuale e dettagliato l’evoluzione della public diplomacy americana in Jugoslavia, attraverso sei capitoli, più l’introduzione e la conclusione, in cui vengono analizzati tutti gli strumenti impiegati dalla propaganda culturale americana. Fra questi strumenti, gestiti dagli uffici dell’USIS attivi in Jugoslavia, vi erano le biblioteche americane, la distribuzione di riviste quali «Life», «Time», «Newsweek», oltre a riviste di moda – si scopre fra l’altro che degli abbonati alla stampa americana vivevano anche nei piccoli centri di campagna –; inoltre, la diffusione di musica americana (la sound diplomacy), attraverso le trasmissioni radio di Voice of America. L’atteggiamento delle autorità jugoslave era mutevole, per cui pur permettendo l’esplicarsi delle attività culturali americane, a volte si tendeva a stringere le maglie, ad esempio nei momenti di maggiore tensione internazionale, quando più forti erano le pulsioni antioccidentali alimentate dalla propaganda governativa: nel 1953-54 per la questione di Trieste o, successivamente, durante la guerra del Vietnam [6].

Uno dei maggiori pregi del volume di Carla Konta è proprio quello di evidenziare l’ambivalenza del rapporto fra Stati Uniti e Jugoslavia sul piano delle relazioni culturali: se da un lato ad esempio i film e le canzoni americane ebbero un grande successo – Tito stesso amava i film western e apprezzava la musica jazz e rock [7] –, dall’altro le autorità diffidavano di quel crescente successo in ampli strati della popolazione e in modo particolare fra gli studenti e gli intellettuali. L’appeal esercitato dagli Stati Uniti interessava gruppi sociali variegati: ad esempio, le donne che alla fiera americana di Zagabria potevano ammirare gli elettrodomestici di ultima generazione e i supermercati american style o gli studenti che grazie alle borse Fulbright o della Ford Foundation potevano entrare in contatto con gli ambienti più dinamici del mondo culturale e universitario statunitense.

Proprio il fatto che la Jugoslavia fosse una realtà socialista diversa e più aperta rispetto ai regimi comunisti dell’Europa orientale implicava quindi una maggiore possibilità di penetrazione dell’influenza americana – in particolare dal punto di vista culturale –, ma questo fatto a sua volta portava ad alimentare la diffidenza di una parte dei funzionari di partito per un’attività che minacciava di influenzare in senso filo-occidentale e anticomunista particolarmente le giovani generazioni. Tuttavia – sottolinea a ragione l’autrice – nonostante i dibattiti di carattere ideologico che caratterizzavano la parte più ortodossa del partito sull’incompatibilità fra marxismo e consumismo occidentale, era pur vero che proprio il consumismo, cui guardava l’economia di mercato socialista varata in Jugoslavia alla metà degli anni Sessanta, rendeva il modello americano particolarmente interessante agli occhi del regime di Tito. Non a caso, i primi supermarket aperti in Jugoslavia fra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta – la «supermarket revolution» di cui parlava Dennison Rusinow [8] – si ispiravano precisamente a quel modello. Dopotutto, probabilmente fu in gran parte l’adozione dei paradigmi consumisti occidentali e quindi il raggiungimento di un relativo benessere, specialmente se paragonato agli standard di vita medi del «socialismo reale», ad aver consentito alla Jugoslavia di vantare, fra gli anni Sessanta e Settanta, una coesione interetnica che la crisi degli anni Ottanta avrebbe compromesso, dando il via alla dinamica che avrebbe successivamente portato all’implosione degli anni Novanta, lungo le linee di frattura dei contrapposti nazionalismi [9].

I rischi insiti nell’uso della categoria euristica del soft power, fra cui quello di sopravvalutare gli effetti della public diplomacy o della diplomazia culturale sulle realtà cui si rivolgono, sono evidenti [10]; d’altra parte, è necessario tener presente l’osservazione di Joseph Nye, secondo il quale lo scopo del soft power è di creare determinate condizioni che possono essere poi sfruttate sul piano politico, benché i concreti risultati politici delle attività culturali non siano agevolmente quantificabili [11]. Ad esempio, nel volume si evidenzia come molti importanti esponenti della dissidenza jugoslava, riunitisi fra gli anni Sessanta e Settanta intorno alla rivista «Praxis», avessero trascorso soggiorni di studio negli Stati Uniti, entrando così in contatto con pensatori marxisti quali Herbert Marcuse e Howard Parsons, che fra l’altro avevano a loro volta partecipato a un’edizione della scuola estiva organizzata dalla rivista sull’isola dalmata di Curzola [12]. Ma in quale misura questi e altri contatti fra intellettuali jugoslavi ed esponenti della cultura americana possano aver contribuito ad orientare i primi verso il dissenso politico non è dato appurare. Carla Konta dimostra di essere ben consapevole delle cautele epistemologiche indispensabili nel momento in cui ci si accosta a categorie concettuali quali il soft power e la public diplomacy, rendendo anche per questo motivo convincente l’impianto metodologico del suo lavoro, che contribuisce decisamente ad arricchire le nostre conoscenze sulla “diplomazia informale” statunitense nella Jugoslavia socialista.

Notas

1. SCHNEIDER, Cynthia P., «Cultural Diplomacy: Hard to Define, but You’d Know It If You Saw It», in The Brown Journal of World Affairs, XIII, 1/2006, pp. 191-203; GOFF, Patricia M., Cultural Diplomacy, in COOPER, Andrew F., HEINE, Jorge, THAKUR, Ramesh (edited by), The Oxford Handbook of Modern Diplomacy, Oxford, Oxford University Press, 2013, pp. 419-435; MELISSEN, Jan, Public Diplomacy, cit., pp. 436-452.

2. NYE, Joseph S., Soft Power. The Means to Success in World Politics, New York, Public Affairs, 2004; MELISSEN, Jan, The New Public Diplomacy. Soft Power in International Relations, London, Palgrave Macmillan, 2005; GRAHAM, Sarah Ellen, Culture and Propaganda. The Progressive Origins of American Public Diplomacy, 1936-1953, London-New York, Routledge, 2016; HART, Justin, Empire of Ideas. The Origins of Public Diplomacy and the Transformation of US Foreign Policy, Oxford-New York, Oxford University Press, 2013; GIENOW-HECHT, Jessica C.E., DONFRIED, Mark C. (edited by), Searching for a Cultural Diplomacy, New York-Oxford, Berghahn Books, 2010; CUMMINGS, Milton C., Cultural Diplomacy and the United States Government. A Survey, Washington D.C., Centre for Artists and Culture, 2003.

3. Ad esempio: KONTA, Carla, Eleanor Roosevelt in Yugoslavia Between Wedge Strategy and Cold War Internationalism, in FAZZI, Dario, LUSCOMBE, Anya (edited by), Eleanor Roosevelt’s Views on Diplomacy and Democracy. The Global Citizen, London, Palgrave Macmillan, 2020, pp. 65-82; ID., Nice to Meet You, President Tito… Senator Fulbright and the Yugoslav Lesson for Vietnam, in SNYDER, David J., BROGI, Alessandro, SCOTT-SMITH, Giles (edited by), The Legacy of J. William Fulbright: Policy, Power, and Ideology, Lexington, University Press of Kentucky, 2019, pp. 241-260.

4. VUČETIĆ, Radina, Coca-Cola Socialism. Americanization of Yugoslav Culture in the Sixties, Budapest-New York, Central European University Press, 2017 [ed. or.: 2012].

5. LEES, Lorraine M., Keeping Tito Afloat. The United States, Yugoslavia, and the Cold War, University Park (PA), Pennsylvania State University Press, 2005.

6. SLUGA, Glenda, The Problem of Trieste and the Italo-Yugoslav Border. Difference, Identity, and Sovereignty in Twentieth-Century Europe, New York, SUNY Press, 2001; MARK, James, APOR, Péter, VUČETIĆ, Radina, OSEKA, Piotr, «‘We Are with You, Vietnam’: Transnational Solidarities in Socialist Hungary, Poland and Yugoslavia», in Journal of Contemporary History, L, 3/2015, pp. 439-464; VUČETIĆ, Radina, «Yugoslavia, Vietnam War and Antiwar Activism», in Tokovi istorije, 2/2013, pp. 165-180.

7. KONTA, Carla, US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70. Soft culture, cold partners, Manchester, Manchester University Press, 2020, pp. 64, 95.

8. RUSINOW, Dennison, Yugoslavia. Oblique Insights and Observations, essays selected and edited by Gale STOKES, Pittsburgh (PA), University of Pittsburgh Press, 2008, pp. 26-41.

9. LUTHAR, Breda, PUŠNIK, Maruša (edited by), Remembering Utopia: The Culture of Everyday Life in Socialist Yugoslavia, Washington, New Academia Publishing, 2010; PATTERSON, Patrick Hyder, Bought and Sold: Living and Losing the Good Life in Socialist Yugoslavia, Ithaca, Cornell University Press, 2011.

10. Ad esempio si veda KEARN, David W., «The hard truths about soft power», in Journal of Political Power, IV, 1/2011, pp. 65-85.

11. Cit. in KONTA, Carla, US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70, cit., p. 171.

12. Ibidem, pp. 157-158.

Stefano Santoro è ricercatore (RTDb) in Storia dell’Europa Orientale al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste, con abilitazione scientifica nazionale come professore associato. Fra le sue pubblicazioni: L’Italia e l’Europa orientale. Diplomazia culturale e propaganda 1918-1943 (Milano, FrancoAngeli, 2005), Dall’Impero asburgico alla Grande Romania. Il nazionalismo romeno di Transilvania fra Ottocento e Novecento (Milano, FrancoAngeli, 2014); a curato, con F. Zavatti, Clio nei socialismi reali. Il mestiere di storico nei regimi comunisti dell’Europa orientale (Milano, Unicopli, 2020).


KONTA, Carla. US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70. Soft culture, cold partners. Manchester: Manchester University Press, 2020, 193p. Resenha de: SANTORO, Stefano. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.45, n.1, mar. 2021. Acessar publicação original [IF].

Itamar Freitas

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