OSTERHAMMEL, Jürgen; PETERSSON, Niels P. Storia della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche. Bologna: Il Mulino, 2005 (2003). Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.184-189, giu./nov., 2019.
Il saggio si snoda attraverso sette capitoli e una conclusione finale. Dopo aver precisato il concetto di globalizzazione nei due capitoli introduttivi, gli autori (insegnano storia contemporanea all’università di Costanza) ricostruiscono i processi che hanno portato all’attuale mondo globalizzato, a partire dall’età medievale e moderna, mostrando la progressiva interconnessione di rapporti economici, politici e culturali e al tempo stesso la profondità storica della globalizzazione.
Il presente è terreno elettivo delle scienze sociali che hanno assunto la globalizzazione (dagli anni Novanta circa del secolo scorso) come categoria interpretativa delle loro analisi, mettendone in luce le diverse caratteristiche. Che il mondo sia sempre più piccolo e interconnesso è d’altronde senso comune diffuso, esperienza quotidiana e concreta di un numero sempre maggiore di persone.
In questo scenario gli storici possono essere utili esercitando il loro mestiere: mettere in prospettiva temporale il tema (la globalizzazione), problematizzare ciò che appare come assoluta novità, verificare la tenuta euristica e interpretativa della concettualizzazione anche nel loro campo di indagine: la lettura del passato.
La storiografia che nasce come disciplina scientifica nell’Ottocento ha previlegiato la nazione come oggetto di ricostruzione e soggetto delle sue narrazioni: solo recentemente si sta affermando la necessità di una interrogazione trasversale rispetto alle storie nazionali, di una storia globale al cui interno la (storia della) globalizzazione rappresenta un campo specifico.
Il concetto di rete diventa allora essenziale: la globalizzazione è il processo di costruzione e intensificazione delle reti mondiali (ai diversi livelli, con diversa intensità e velocità di contatti e grado di integrazione). E processo significa dare conto di svolgimenti e cambiamenti che avvengono nel tempo, non in modo meccanico, regolare, scandito sulle canoniche tappe ed epoche della storia politica, ma con ritmi, accelerazioni, rallentamenti, riprese che sono proprie dei diversi ambiti coinvolti dalla globalizzazione: economico, tecnico, politico e dell’organizzazione dello Stato, sociale, culturale.
La periodizzazione è lo strumento concettuale che gli storici utilizzano per comprendere i fenomeni analizzati. Ogni periodizzazione è discutibile e provvisoria: Osterhammel e Petersson ne sono consapevoli. Ed è proprio la loro discutibilità il sale della storiografia e strumento di migliore comprensione della storia come ricerca.
Per i due storici tedeschi è possibile periodizzare il processo di globalizzazione, dopo alcune forme di integrazione verificatesi già in età antica e medievale, nelle seguenti fasi:
Dagli ultimi decenni del Novecento: La globalizzazione attuale La preistoria della globalizzazione Riguarda il mondo antico e premoderno. In esso l’integrazione macrospaziale si verificò in forme diverse (l’ aggregazione di unità politiche minori in grandi imperi sulla base essenzialmente della forza militare (l’impero romano, cinese, indiano, ottomano…), l’ecumene religiosa (cristianesimo, islam, buddismo…), il commercio a distanza (la via della seta che univa la Cina al Mediterraneo, le vie carovaniere del Vicino Oriente e del Nordafrica…), le migrazioni di popoli (gli insediamenti preistorici dell’America e dell’Asia, la diffusione di popolazioni di lingua bantu della regione del Niger-Congo tra il 500 a.C. e il 1000 d. C. …).
In epoca medievale, le spinte all’integrazione di ampi spazi si possono collocare nel VIII (fondazione e diffusione dell’Islam) e nel XIII (l’impero mongolo di Gengis Khan), mentre dal XIV secolo si rafforzarono processi differenti nella parte orientale dell’Eurasia (consolidamento di Cina e Giappone) rispetto a quella occidentale e meridionale (ripresa degli imperi plurinazionali accanto alla formazione degli “Stati territoriali”).
L’inizio della modernità
Il periodo tra il 1450 e il 1500 si conferma come profonda cesura nella storia della globalizzazione e l’inizio della “modernità” anche in una prospettiva di storia globale. Ne furono fattori decisivi e connessi la scoperta e la colonizzazione dell’America, l’avanzata degli Europei nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, l’«imperialismo ecologico» (in primo luogo i virus e i batteri delle malattie europee), la rivoluzione delle tecnologie militari (polvere da sparo e artiglieria) e della comunicazione (la stampa).
Gli europei stabilirono sull’Atlantico un dominio incontrastato e nell’America si realizzò un’economia di piantagione (caffè, tè, cacao, caucciù…) coltivata da schiavi, che introdotta alla fine del Cinquecento si affermò come istituzione sociale dominante fino ai primi decenni del XIX secolo. Si intensificarono inoltre le reti commerciali transoceaniche: per il commercio di schiavi in primo luogo e delle merci preziose (spezie, tessuti, tè, pelli animali, argento).
1750-1880 Imperialismo, industrializzazione e libero commercio
Intorno alla metà del Settecento, ancora prima delle rivoluzioni politiche (americana e francese) e industriale, un altro impulso ai processi di globalizzazione venne dall’affermarsi di una politica mondiale legata alla necessità del controllo degli oceani (sia dal punto di vista militare che commerciale): il teatro dei conflitti non fu, come in precedenza, a scala locale/regionale, ma mondiale con una presenza egemonica dell’Inghilterra.
Le rivolte di coloni e schiavi delle Americhe tra il 1765 e il 1825 (le tredici colonie inglesi a Nord e le repubbliche del Sud e del Centroamerica) se da una parte indebolirono i legami della rete globale, dall’altra, superata la rottura politica, posero le basi per una diversa relazione tra Stati Uniti e Inghilterra.
La rivoluzione industriale fu ovviamente fattore decisivo per l’intensificarsi dell’interconnessione globale: gli autori mettono in evidenza da una parte le caratteristiche e le ragioni del caso inglese, dall’altro gli effetti a distanza in ambiti diversi dalla produzione di merci: armi e cannoni, trasporti, tecnologie della comunicazione (telegrafo).
Nel corso del XIX secolo l’Europa occidentale e in particolare l’Inghilterra si affermarono quali potenze dominanti e come modello di riferimento per lo sviluppo e il progresso di ogni altro stato del mondo: il futuro sarebbe stato possibile solo accostandosi almeno parzialmente al loro livello.
Gli autori parlano di una globalizzazione adattiva e ambivalente (tra ammirazione e disprezzo, vicinanza e distacco, assimilazione e preservazione della propria identità): si andava profilando un unipolarismo culturale ancora più che geopolitico, che vide nello Stato nazionale la forma ideale e desiderabile per le sfide del tempo.
Nella seconda metà dell’Ottocento la dimensione mondiale dell’economia trovò ulteriore impulso: accelerazione del commercio mondiale, migrazioni di massa (tra il 1850 e il 1894 circa 60/70 milioni di persone), nuova divisione internazionale del lavoro legata alla possibilità di inviare beni di massa a grande distanza, congiunture economiche con ripercussioni su scala planetaria (grande depressione del 1873, congiuntura favorevole del 1896).
Capitalismo mondiale e crisi mondiali (1880-1945)
Contrariamente alla vulgata corrente (soprattutto della storia economica) che racconta gli anni precedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale come epoca di estesa globalizzazione seguita da una de-globalizzazione che durò fino al secondo dopoguerra, gli autori suggeriscono una lettura del periodo secondo la quale il contrasto tra queste due fasi è meno netto: gli stessi processi di de-globalizzazione sono descrivibili dentro uno spazio economico e politico mondiale.
Alla svolta del secolo il mondo era percepito come una comunità di destino: grazie anche ad una diversa esperienza (non solo nella coscienza delle élites) della dimensione del tempo e dello spazio nella vita quotidiana. La sempre maggiore diffusione dei mezzi di comunicazione, l’alfabetizzazione crescente, l’adozione di un sistema di computo del tempo suddiviso per fusi orari e basato sul meridiano di Greenwich, la maggiore frequenza dei viaggi transcontinentali furono tra i fattori di questo cambiamento. Tra Otto e Novecento l’economia mondiale può essere descritta come un sistema multilaterale caratterizzato da flussi internazionali interconnessi (di forza lavoro, capitali e merci), reti commerciali con centro a Londra e conseguenze anche per i paesi extraeuropei, infrastrutture (trasporti e comunicazioni) garantite dagli Stati nazionali.
Non che fossero assenti “buchi” nella rete (la maggior parte dell’Africa, le regioni interne della Cina e tutti i continenti non collegati dalle reti ferroviarie e dalle rotte delle navi a vapore): nel 1913 il divario tra i più ricchi centri del mondo (che non erano già più in Europa) e i più poveri era di 10:1 (nel 1820 era di 3:1).
La globalizzazione avveniva parallelamente alla costruzione delle nazioni. E il mondo divenne uno spazio di interazione tra Stati nazionali concorrenti (con l’aggiunta di nuovi attori, gli Stati Uniti e il Giappone): un mondo sempre più piccolo (nel 1911 quando R. Amundsen arrivò al Polo Sud, ogni parte del globo era conosciuta e cartografata) nel quale si realizzarono un sistema globale di alleanze, la spartizione coloniale del pianeta, processi di territorializzazione degli Stati nazionali, all’interno della dialettica tra globalizzazione e frammentazione.
Secondo J. Osterhammel e N. P. Petersson la Grande Guerra dal punto di vista delle cause fu una guerra europea che ben presto si allargò su scala globale con l’impiego di risorse globali. Segnò la fine del potere mondiale dell’Europa e l’assunzione dello Stato nazionale come modello di organizzazione politica generale. Negli anni successivi si assistette alla ideologizzazione della politica su scala mondiale: liberalismo, leninismo e fascismo furono esperimenti politici che si scontrarono in quella che può essere definita una guerra civile internazionale.
Il cosiddetto “regionalismo” dell’economia internazionale del periodo tra le due guerre con il privilegio accordato ovunque all’ambito “nazionale” conferma il primato della politica sulle interazioni economiche. Si possono anche leggere le politiche autarchiche degli anni Trenta come forme di regionalismo: la loro valenza globalizzante fu che condussero a una nuova guerra mondiale che divenne anch’essa globale, consacrando gli Usa potenza mondiale decisiva e fu punto di partenza di un ulteriore impulso alla globalizzazione economica, politica, e culturale del dopoguerra. Il 1945 può essere considerata una data decisiva (una data globale): per la fine della guerra e la volontà dei vincitori di creare un nuovo ordine mondiale.
Dal 1945 alla metà degli anni Settanta: la globalizzazione dimezzata
La divisione del mondo in due blocchi contrapposti fu la più importante struttura politica (non prevista) del secondo dopoguerra che condizionò anche gli spazi di interazione economica ai vari livelli. Diverse furono le conseguenze di questo assetto geopolitico bipolare nella sfera di influenza sovietica e in quella occidentale nella quale la priorità della riorganizzazione interna produceva, tra l’altro, una spinta all’integrazione regionale. Il processo di integrazione europeo, in transizione dalla federazione di Stati allo Stato federale, va inquadrato in questo contesto. Se da una parte tale processo può essere letto come limitazione del potere degli Stati nazionali, dall’altro si può pensare che la cooperazione realizzata nl quadro delle strutture europee sia stata funzionale al persistere dello stesso modello dello Stato nazionale.
L’ordine della guerra fredda pose fino anche agli imperi coloniali: dal 1950 al 1970 gli Stati nazionali indipendenti passarono da 81 a 134. Nacque quello che allora si chiamò il “Terzo Mondo” che non divenne uno spazio d’integrazione e di cooperazione di politiche sovranazionali. Un ruolo politico transnazionale importante, invece, ebbe la protesta studentesca della fine degli anni Sessanta che coinvolse paesi di gran parte del mondo e le cui ragioni sono comprensibili nel quadro delle trasformazioni socioculturali del secondo dopoguerra.
Gli accordi di Bretton Woods del 1944 avrebbero dovuto assicurare un nuovo ordine mondiale dell’economia, attraverso istituzioni (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio) create per garantirne il funzionamento.
La pianificazione economica in realtà fallì ma navigazione, commercio, telecomunicazioni, traffico aereo e attività multinazionali crearono reti globali che aggregarono, a gradi diversi di intensità delle interdipendenze, anche il Terzo mondo e l’area di influenza sovietica, ad esclusione della Cina che seguiva una scelta rigidamente autarchica.
Dagli anni Sessanta si registrarono spinte verso una globalizzazione socioculturale: le migrazioni verso l’Europa con la creazione di megalopoli multiculturali, l’aumento dei flussi turistici legati alle vacanze di massa, l’omogeneizzazione globale dei riferimenti culturali e degli stili di consumo (dalla Coca-Cola che divenne un marchio mondiale alla diffusione dei jeans e delle t-shirt). Un processo che non fu privo di contraddizioni e resistenze: basti pensare ancora al movimento del ’68 e alla lotta contro l’omologazione culturale e ideologica che trovò nella mobilitazione contro la guerra del Vietnam uno dei suoi momenti più significativi.
Conseguenza della cultura della contestazione di quegli anni fu anche la consapevolezza politica che per la prima volta si ebbe sui temi del clima, dell’esauribilità delle risorse, dell’inquinamento e in generale dell’impatto dell’uomo sul pianeta. Non solo la guerra nucleare, ma anche lo sfruttamento incontrollato delle risorse del mondo potevano determinarne la fine.
La svolta del XX secolo
Può essere datata alla fine degli anni Sessanta con la trasformazione degli assetti complessivi del secondo dopoguerra. In una prospettiva storica, questa ultima (per ora) globalizzazione (per alcuni la vera globalizzazione) è caratterizzata, secondo gli autori, principalmente da questi aspetti: la fine del mondo bipolare con il crollo dell’Urss e del blocco sovietico, la crisi dello Stato sociale (conseguenza e causa al tempo stesso della globalizzazione), l’estensione delle relazioni internazionali e finanziarie internazionali (con l’affermazione delle imprese transnazionali e l’evoluzione dei paesi di recente industrializzazione, in particolare nel Sud-Est asiatico), i progressi delle reti di comunicazione e di informazione, la diffusione su scala globale di beni e modelli culturali (soprattutto americani) pur in presenza di spinte che vanno nella direzione opposta, la presenza, accanto alle reti internazionali legali di quelle illegali (droga, riciclaggio di denaro sporco, traffico di esseri umani) con un peso significativo all’interno dell’economia globale.
Per J.Osterhammel e N. P. Petersson “la sensazione diffusa a livello mondiale di vivere nell’epoca della globalizzazione ha validi fondamenti “ (p. 122), ma non si tratta di un unicum nella storia dell’umanità: la cesura fondamentale a partire dalla quale la globalizzazione è diventata tema centrale e decisivo va individuata, secondo gli autori, nella prima età moderna (epoca delle scoperte, del commercio degli schiavi, dell’«imperialismo ecologico») e non nel tardo Novecento. Spinte e tendenze alla globalizzazione si sono poi verificate in epoche precedenti, a partire dalla metà dell’Ottocento.
Nella riflessione conclusiva del saggio si sottolinea come nella storia delle modernità i processi di integrazione e di de-globalizzazione e frammentazione sono andati di pari passo e come la globalizzazione sia strettamente connessa con la modernizzazione.
Il concetto di globalizzazione, in conclusione, ha senso ed è utile se non viene usato come categoria astratta, essenzializzandone il contenuto, e senza dimenticare che dietro e dentro la globalizzazione e i legami globali ci sono attori e soggetti (Stati, imprese, gruppi, individui… con differenti visioni e strategie), conflitti di interesse, vincitori e vinti.
La globalizzazione è dunque una categoria interpretativa e un processo con una sua storia: che è compito degli storici indagare e far conoscere.
Ernesto Perillo
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