DEMANTOWSKY, Marko (Ed.). Public History and School. International Perspectives. Oldenbourg: De Gruyter, 2019. Resenha de: CECCOLI, Paolo. Novecento.org – Didattica dela storia in rete, 1 lug. 2019.
Tra gli specialisti e gli studiosi di didattica della storia il dibattito sulla public history è più vivo che mai. In questo ambito Marko Demantowski, direttore esecutivo della rivista on line https://public-history-weekly.degruyter.com/, ha curato una raccolta di saggi, corredata da un’ampia e interessante bibliografia, sul rapporto fra public history e scuola che vale la pena di trattare[1].
Il testo parte da una tesi forte: qualunque cosa sia la public history, ci sono ragioni storiche e concettuali per sostenere che essa trovi nella scuola un luogo d’elezione.
Uno dei progetti più riusciti della modernità, diffuso in tutto il mondo e garantito dagli stati, è la gigantesca istituzione che chiamiamo scuola, specialmente quando è offerta gratuitamente e resa obbligatoria per tutti. Dal XVIII secolo in poi, ciò che segna la graduale apparizione di questo progetto governativo enormemente dispendioso è connotato da specifici interessi che si compongono parzialmente con la tradizione religiosa e militare. Uno scopo preciso promosse il successo della creazione delle scuole come istituzioni obbligatorie e universali o, se vogliamo, come lunghi e collettivi riti di passaggio. Fu l’integrazione interna nei nuovi stati nazionali emergenti e la fondazione della loro coerenza di fronte alle precedenti diversità geografiche, sociali, linguistiche e religiose[2].
La scuola insomma, soprattutto perché insegna la storia della cultura dello stato che la finanzia, costituisce la prima e forse ancora la più importante iniziativa di public history in epoca moderna e contemporanea. Questo libro esamina il tema con i contributi di un gruppo di studiosi per lo più provenienti dall’area culturale di lingua tedesca, ma raccoglie anche con contributi di ricercatori di area anglosassone, russa e spagnola.
Quattro sono gli aspetti indagati:
Le sezioni del volume sono precedute da un’ampia introduzione del curatore, che cerca di definire il campo della public history allo scopo di sostenere la sua natura di attività intrinsecamente e inevitabilmente connessa con le problematiche della didattica. Egli innanzitutto fa notare che il termine inglese public history deve essere ormai accettato, anche se non trova corrispettivi esatti nelle altre lingue in cui si è il dibattito sviluppato. A questo proposito egli ricostruisce la discussione di area linguistica tedesca in cui termini come Geschichtskultur (letteralmente, cultura della storia) o Errinerungskultur (letteralmente, cultura della memoria) sono stati variamente proposti come alternative possibili, senza però essere mai capaci di sostituire il termine di origine anglosassone[3]. Insomma anche nei paesi di lingua tedesca, dove la public history non ha ancora uno statuto accademico ben chiaro[4], è ormai invalso l’uso di accettare l’espressione inglese come un umbrella term: nella sua accezione descrittivo-generale che non corrisponde ancora ad un ambito disciplinare o meta-disciplinare preciso. In ultima analisi, dunque, un termine generico utile per descrivere quella che per Demantowski corrisponde a una pratica, o piuttosto una serie di pratiche, che il nome collettivo contempla.
Usando le parole dell’autore:
[…] la public history è un complesso di discorsi identitari legati al passato. Individui e collettività li utilizzano per il reciproco riconoscimento delle loro narrazioni. Le collettività rinforzano le loro narrazioni fondamentali in cornici istituzionali attraverso l’assegnazione di ruoli, regole di controllo e di premio, così come attraverso pratiche ritualizzate e progetti comunicativi[5].
Insomma, se ogni individuo si narra continuamente nella sua stessa esistenza, questa narrazione individuale, che Demantowsky chiama ontologica, non si svolge in astratto nelle nostre menti, ma prende corpo all’interno di dinamiche collettive a loro volta attraversate da discorsi narrativi che rappresentano forme sociali di visione del passato. Quelle che l’autore definisce le narrazioni basilari istituzionalizzate.
Se questo è vero è evidente che si tratta di temi di cui la scuola si occupa da sempre attraverso la trasmissione del sapere storico standardizzato di un certo paese e periodo e, forse soprattutto, attraverso la riflessione critica sul quel sapere, contribuisce in maniera decisiva alla formazione degli individui come persone e come cittadini.
Con questo approccio la Public History non risulta una specie di super-scienza storica, piuttosto il contrario […], non si riferisce a certo genere di professione, ma alla pratica di uno specifico ruolo. Storici e sociologi possono essere public historians […], ad esempio […] quando prendono posizione su questioni identitarie legate al passato, a tavola con i familiari, in un seminario, in un libro, in televisione, ad una manifestazione o quando indagano scientificamente sulle pratiche corrispondenti. Ma se uno storico, nelle sue pratiche di ricerca, siano esse in archivio o in aula, si volge al passato senza affrontare discorsi identitari attuali, dunque nel suo ruolo di storico, allora in questa prospettiva la sua ricerca storica di base e la sua applicazione è concepibile senza costituire una pratica di public history. Le due cose sono semplicemente giochi linguistici differenti[6].
La scuola insomma non può promuovere uno studio critico della storiografia disponibile sugli argomenti prescritti dai vari curricoli senza tenere in considerazione le «interpretazioni storiche che si incontrano nella vita di tutti i giorni»[7] e indagare sulle «rappresentazioni della storia consumate dagli allievi»[8] nella loro vita privata. Solo così il suo ruolo istituzionale potrà realizzarsi pienamente.
Diverse sono le pratiche esposte nel libro che mostrano come fare per realizzare questo proposito, anche se la formazione iniziale e in servizio dei docenti non sembra ancora capace di educare i futuri insegnanti al riconoscimento delle narrazioni implicite o esplicite che gli studenti si portano in classe, a prescindere, o addirittura contro, quello che racconta loro l’insegnante[9].
E proprio questo è uno dei compiti che secondo gli autori ci si deve proporre per il futuro: insegnare a riconoscere ed esaminare criticamente le narrazioni pubbliche dei discorsi identitari sul passato (e le loro storie aggiungiamo noi), ma anche promuovere fra gli studenti una padronanza della storia e del pensare storicamente che realizzi gli obiettivi pubblici del nostro tempo, che sia all’altezza delle sfide di un mondo sempre più connesso e interdipendente. In altre parole insegnare la storia mondiale necessaria a dare senso al presente, compito non facile se, come abbiamo detto all’inizio, il principale committente dell’insegnamento storico a scuola è ancora lo stato nazionale.
[1] Public History and School, International Perspectives, Edited by: Marko Demantowsky, De Gruyter Oldenbourg | 2019. Il pdf è scaricabile gratuitamente. DOI: https://doi.org/10.1515/9783110466133
[2] Demantowsky, 2019, p. V (la traduzione dall’inglese dei passi citati è opera di chi scrive).
[3] Demantowsky, 2019, p.6.
[4] Demantowsky, 2019, p.11.
[5] Demantowsky, 2019, p.26/27.
[6] Demantowsky, 2019, p.31.
[7] Demantowsky, 2019, p.70.
[8] Demantowsky, 2019, p.71.
[9] Demantowsky, 2019, p.183.
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