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Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così – CALZOLAIO; PIEVANI (BC)

CALZOLAIO, V. ; PIEVANI, T. Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così. Torino: Einaudi, 2016. 144p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.8, p.77-79, dic., 2017.

Le migrazioni sono processi complessi. La storia e la geografia (assieme ad altre discipline, come ad esempio l’antropologia e la biologia) possono aiutarci a comprenderli, perché tempo e spazio sono parametri utili per mettere in prospettiva un problema, soprattutto se complicato e difficile come questo.

Per capire il presente e i suoi eventi abbiamo bisogno di distanza, di prenderne le distanze. Così come per capire il luogo nel quale ci è capitato di vivere, ce ne dobbiamo allontanare. Da fuori si vedono altre cose e aspetti che prima rimanevano invisibili.

Il saggio di V. Calzolaio e T. Pievani parla di migrazioni nella prospettiva spazio-temporale del tempo profondo dell’evoluzione e della storia di Homo sapiens, su scala planetaria.

Inserire la vicenda umana nel contesto dell’evoluzione ci aiuta a comprendere come il fenomeno migratorio riguardi prima di tutto animali e piante che nel lunghissimo periodo seguono i destini dei territori in cui abitano (che si separano e si uniscono a causa della deriva dei continenti e dei cambiamenti climatici) e abbia un ruolo decisivo nel processo evolutivo, dando origine spesso a nuove specie.

Quella umana è stata condizionata da sempre dal migrare di altre specie e le ha condizionate con i suoi spostamenti che hanno assunto nel tempo una straordinaria funzione evolutiva, non solo per chi si spostava ma anche per gli ecosistemi coinvolti.

I capitoli iniziali del saggio di Calzolaio e Pievani ripercorrono le tappe delle migrazioni umane dagli albori della storia degli ominidi intorno a 6 milioni di anni fa in Africa, che resta il territorio di massima espansione della specie fino a 2 milioni di anni fa, fornendo le premesse per un possibile atlante globale delle migrazioni umane.

Il bipedismo è stato l’innovazione decisiva, con la conseguente liberazione delle mani. Dal cespuglio di forme ominide, una molteplicità di specie distribuite tra l’Etiopia e il Sudafrica, è emerso il genere Homo intorno a 2,5 milioni di anni fa, all’inizio del Pleistocene in concomitanza di continue oscillazioni glaciali. In questo periodo, per la prima volta nella storia, ha luogo un processo di espansione che porterà il genere Homo a oltrepassare i confini dell’Africa, in un arco temporale che abbraccia decine e centinaia di migliaia di anni. “(…) Immaginiamo che un piccolo campo base umano venga spostato lungo certi corridoi geografici di 2 o 3 chilometri per ogni generazione, ogni 25 anni (…) in 100.000 anni dall’Africa si può raggiungere la Cina. Non è necessaria alcuna intenzione di farlo. Se il clima cambia, le fasce di vegetazione lentamente si spostano, e con esse le faune: tutte le vicende di rilievo del nostro genere si svolgono nell’instabilità delle oscillazioni climatiche del Pleistocene”. (pp. 17-18).

In tre ondate migratorie successive (Out of Africa), sostanzialmente attraverso gli stessi corridoi geografici (valle del Nilo e costa del Mar Rosso verso il Mediterraneo; corridoi del Levante e da qui smistamento verso l’Asia e l’Europa), si perfeziona la conquista africana del mondo: e intorno a 50-45000 anni Homo sapiens entra per la prima volta in Europa. Al suo arrivo l’Eurasia era già abitata da altre specie umane. “Quello che oggi ci sembra fuori discussione, cioè essere l’unica specie umana sulla Terra” affermano gli autori “ in realtà è un evento recente frutto di numerose e sovrapposte migrazioni” (p. 27).

In meno di 50 mila anni Homo sapiens arriverà a completare il popolamento dei continenti, imponendosi sulle altre specie umane (almeno tre). Secondo gli autori questo successo è dovuto alla migliore capacità migratoria dei nostri antenati. Alla base, un circolo virtuoso tra comportamenti sociali e culturali più avanzati (in particolare per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio e dell’intelligenza simbolica), la capacità migratoria e l’espansione territoriale.

Il viaggio ormai non è solo costrizione ma intenzione e scelta connessa alla capacità di trasformare le nicchie ecologiche.

Mentre alcuni popoli restarono raccoglitori cacciatori, altri si avviarono verso la domesticazione di piante e animali in un processo di differenziazione dovuto al “variopinto mosaico di fattori ecologici e geografici” (clima, geologia, habitat, epidemie…).

Il cambiamento radicale si ha con la rivoluzione agricola: fino allora (intorno ai 10 mila anni prima di Cristo) gli umani erano quasi tutti raccoglitori cacciatori senza fissa dimora (si è stimata una popolazione mondiale intorno ai 10 milioni); il loro numero progressivamente andrà diminuendo fino allo 0,001 per cento su una popolazione totale di tre miliardi negli anni Settanta del XX secolo.

Inizia una nuova fase: il tempo delle emigrazioni e delle immigrazioni da e verso territori di altri popoli, che dura fino ad oggi.

Si possono individuare 8 ondate migratorie collettive di neocontadini, secondo un processo non lineare (ci furono anche contrazioni demografiche) e con differenze in parte spiegabili con i vincoli ambientali. Le strategie adattive di Homo sapiens migrante globale sono alla base della diversità umana, biologica e culturale, accelerata da spostamenti e rimescolamenti: le culture e le tecnologie sono state gli strumenti delle comunità umane in movimento per vivere in climi e ambienti i più diversi e instabili.

Attorno alle risorse idriche si vanno formando le prime civiltà con la specializzazione e complessità legata alla successiva rivoluzione urbana e della scrittura. Migrare non è ora solo comportamento adattivo legato a criticità climatiche o ecologiche; è in qualche modo un comportamento culturale: accanto alle costrizioni del migrare (ora anche quelle in conseguenza delle guerre umane e dell’aggressione violenta di un gruppo su un altro) si va affermando la libertà di migrare.

Sia forzati che non, gli spostamenti con il neolitico incisero profondamente sulle dinamiche culturali, sociali, linguistiche e genetiche delle popolazioni. Si complicarono e intensificarono i meticciati (basti penare alle tracce di incontri tra migranti presenti in ogni lingua): “Non ci sono un tempo e un luogo ove osservare una comunità di umani in una forma autentica e originaria.” (p. 67).

Ci sono confini naturali (nicchie e corridoi di specie, barriere geografiche, linee di costa, crinali montani…) e confini artificiali, antropici: con la diffusione dell’agricoltura stanziale si vanno consolidando i confini artificiali. E nel progressivo affermarsi della centralizzazione dei poteri decisionali, del controllo della forza e dell’imposizione di gerarchie e dominio si stabilizzano i confini istituzionali che le migrazioni in qualche modo mettono in discussione, contribuendo a configurare l’evoluzione della specie sul pianeta e a determinare processi di differenziazione e trasformazione delle biodiversità e dinamiche che durano ancora oggi.

“Prima dell’età antica, la specie umana non è tutta nomade e seminomade, come si legge da troppe parti. Esiste un antichissimo e complesso fenomeno migratorio, precedente il tradizionale inizio della storia. Poi, dopo la diffusa rivoluzione neolitica, si stagliano probabilmente due lunghi periodi storicamente e geograficamente determinati delle migrazioni umane sulla Terra: il periodo antico della diffusione dell’agricoltura, primo e quasi unico settore produttivo, anche durante i fenomeni medievali (e forse non proprio solo europei latino-germanici) del feudalesimo e dell’assolutismo; il periodo moderno dell’espansione di Stati europei e di confini statuali, subito collegato al periodo contemporaneo delle rivoluzioni industriali, fino alla globalizzazione e ai cambiamenti climatici antropici globali.” (p. 71).

Si rende dunque indispensabile, secondo gli autori, la ricostruzione dell’“impasto migratorio fra mondi separati delle antichissime e antiche comunità” per capire anche gli sviluppi successivi della vicenda umana.

Gli ultimi capitoli del volume sono dedicati alla storia moderna e contemporanea delle migrazioni a cominciare dai due Out of Europa: il primo con la conquista del mondo da parte degli Stati europei a partire dall’inizio del XVI secolo; il secondo dopo la rivoluzione industriale alla fine del XVIII secolo con l’inizio dell’Antropocene.

Alla base delle migrazioni internazionali del primo Out of Europa, tra gli altri fattori, l’affermazione dello Stato moderno e poi di quello nazionale, delle nuove armi e delle nuove navi. Del secondo, l’espansione del capitalismo, l’imperialismo degli Stati europei che nel 1914 controllavano l’81,4 per cento della superficie mondiale, le dinamiche demografiche ed economiche delle madrepatrie: nei primi decenni del Novecento La somma dei migranti era pari a circa il 5 per cento della popolazione mondiale. Emigrazione e immigrazione si formalizzano con gli Stati nazionali: si vanno definendo in questo periodo la condizione di profugo e di rifugiato e si cominciano ad adottare politiche migratorie statali, soprattutto per il controllo degli arrivi e il contingentamento dei flussi.

Venendo all’oggi, gli autori mettono in rielevo il nesso tra clima e migrazioni, documentato anche dai numerosi rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC Intergovernmental Panel on Climate Change http://www.ipcc.ch/index.htm); nesso peraltro già presente nelle migrazioni di massa della specie all’inizio della sua storia. Con una novità decisiva: adesso l’ecosistema globale è messo in discussione dall’azione di Homo sapiens. I profughi ambientali (migranti forzati dall’impatto umano sugli ecosistemi, da disastri e delocalizzazioni) sarebbero nel 1994 circa 25 milioni, cui dobbiamo aggiungere quelli a seguito di guerre, violazione dei diritti, povertà, disuguaglianze multiple: i migranti forzati costretti a fuggire dalle loro case sono stati 59,5 milioni alla fine del 20I4, con una tendenza al rialzo che sembra consolidarsi.

Di fronte a questo quadro, che fare?  Gli autori propongono tre percorsi per non subire ma gestire i futuri flussi migratori:  – riconoscere i rifugiati climatici;  – contrastare le migrazioni forzate;  – gestire le migrazioni sostenibili.

Sono migranti contemporanei a noi oltre un miliardo dei sette e mezzo miliardi di donne e uomini che vivono nel pianeta. Accanto alla libertà di migrare (già prevista nella Dichiarazione universale dei diritti umani: art. 13 e 29), va garantito il diritto di poter retare con dignità nel territorio dove si è nati.

Un impegno decisivo per la sopravvivenza, la convivenza, lo sviluppo di Homo sapiens e dell’intero ecosistema: “La virtù necessaria per questa impresa è anche una delle più scarse al momento: la lungimiranza. Verso il passato e verso il futuro”.

Ernesto Perillo

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Itamar Freitas

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