In un’epoca di trasformazioni profonde, tanto nell’ambito della produzione e della conservazione documentaria, quanto in quello dell’elaborazione di strumenti per la ricerca storica, gli operatori delle fonti sono costantemente esortati a ragionare sui nodi più problematici che attraversano l’archivistica contemporanea e sulle sue prospettive future. Nel contesto degli studi più recenti, la monografia di Lorenzo Pezzica1 rappresenta senz’altro uno dei contributi più originali, in grado di addurre molteplici spunti di riflessione al dibattito archivistico in corso. L’intento, implicito nel titolo, è quello di “liberare” l’archivio dai pregiudizi più comuni, a partire da quelli radicati tra gli stessi addetti ai lavori, spesso impaludati in quelle «interpretazioni rigide e metodologicamente bigotte» ravvisate da Federico Valacchi nel ricco saggio introduttivo del libro2.
Il volume si articola in sei capitoli, cui si aggiunge una breve postfazione. L’illustrazione delle problematiche di carattere teorico è spesso sorretta da esempi di casi concreti, provenienti dal ricco bagaglio di esperienze che l’autore ha svolto sul campo. Pur rivolgendosi a un pubblico ampio ed eterogeneo, il testo è senza dubbio più agevole per quei lettori che abbiano già sviluppato un minimo di esperienze e studi in ambito storico-documentario.
Vero e proprio leitmotiv del libro è l’indagine sui fondi storici del Novecento. Le ragioni di questa periodizzazione sono prevalentemente due: in primo luogo, gli archivi storici novecenteschi sono da sempre l’oggetto principale delle ricerche di Pezzica; inoltre, è proprio nel corso del ventesimo secolo che ha avuto luogo una metamorfosi profonda «dei ruoli e dei significati dell’archivio», tale da rendere necessario un approccio di tipo nuovo, «in grado – scrive Pezzica – di ripensare l’archivio a partire dalla tradizione della disciplina archivistica senza temere di allontanarsene e confrontandosi e contaminandosi con altri saperi e realtà in grado di arricchire l’arcipelago degli archivi»3 . Anche Valacchi, nella sua introduzione, ricorda i progressi maturati nel corso del ventesimo secolo in ambito normativo4, nonché le «indistruttibili acquisizioni ed evoluzioni metodologiche» apportate, tra i tanti, da Eugenio Casanova, Giorgio Cencetti e Claudio Pavone, nel segno di «una costante evoluzione della disciplina archivistica le cui ombre si allungano ineludibili dentro al nostro nuovo millennio»5.
Già dalle prime pagine si palesa l’interesse dell’autore per la componente comunicativa del lavoro negli archivi, espressa soprattutto attraverso l’elaborazione di strumenti più o meno analitici, in grado di restituire una rappresentazione e una narrazione coerenti di un determinato corpus documentario. Tali operazioni sono inevitabilmente connesse alle pratiche di descrizione che caratterizzano gli interventi di riordino e inventariazione dei fondi. In sintesi, per dirla con Valacchi, «la descrizione archivistica costituisce un’attività imprescindibile al fine del perseguimento degli obiettivi di valorizzazione e comunicazione delle fonti documentarie»6. Allo stesso modo, Pezzica riconosce nella comunicazione un momento sempre più decisivo del lavoro d’archivio, al punto da ritenere «che ogni aspetto della professione archivistica […] abbia a che fare con la comunicazione e sia finalizzato a essa»7.
Nell’adempimento della mission comunicativa, gli archivisti contemporanei hanno potuto beneficiare delle nuove opportunità offerte dal digitale e dalle ICT (Information and Communications Technology), il cui utilizzo, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, ha contribuito a modificare irreversibilmente metodi e tecniche di lavoro. I risultati più evidenti di questa trasformazione riguardano l’elaborazione di nuove tecnologie per la ricerca storica e archivistica, in linea con le istanze di accessibilità, condivisione e partecipazione dettate dalla rivoluzione telematica. La diffusione di sistemi informativi, cataloghi digitali, portali e siti web ha permesso agli archivi di “uscire fuori” dalle mura dei propri istituti di conservazione e di rivolgersi a um bacino di fruitori più ampio, emancipandosi – almeno sulla carta – dalla figura dell’utenteprofessionista8.
Un secondo sviluppo, anch’esso originato dal risveglio delle istanze comunicative e divulgative in campo archivistico, è legato alla public history. Sul rapporto tra archivi e “storia pubblica”, Pezzica si era già espresso inequivocabilmente nel giugno 2019:
La Public History si nutre di archivi. […] La possibilità di rendere gli archivi stessi “partecipati” e “partecipativi”, ha dimostrato che la Public History è uno strumento e una metodologia importante anche per la conoscenza e valorizzazione del nostro patrimonio documentario. Utile e importante anche per gli archivisti, figure centrali nei progetti di Public History (necessariamente pensati in modo interdisciplinare), anche perché nei fatti è stata praticata dagli stessi archivisti ancor prima del suo successo e diffusione nel nostro Paese9.
L’autore ricorda il ruolo svolto dagli archivisti nell’ambito dell’AIPH (Associazione Italiana di Public History) fin dalla sua fondazione nell’aprile 2017. L’associazione, a sua volta, ha posto l’archivio al centro dei propri programmi, facendo leva sui vantaggi derivanti dall’uso del digitale e delle fonti orali. «Uno degli aspetti centrali che unisce archivisti e public historians – sostiene Pezzica – è il rapporto che esiste con la Oral History e, di conseguenza, con gli archivi dell’oralità […] soprattutto oggi, in un momento in cui gli archivi orali stanno assumendo sempre più spesso fattezze digitali»10.
Tra le elaborazioni più originali dell’autore, vi è senz’altro quella di anarchivio, inteso non tanto come rappresentazione opposta e contraria all’archivio, ma come «computo delle possibilità, apertura a letture non necessariamente vettoriali e speculari». Nell’anarchivio ordine e disordine convivono, inducendo l’archivista all’«ammissione di mondi informativi altri rispetto a quelli disegnati da una schematicità descrittiva che, per far fronte a esigenze tassonomiche, ha indugiato poco su risvolti cognitivi rilevanti»11. All’origine della riflessione di Pezzica vi è la contrapposizione tra arché (il “principio”, ma anche il “governo” delle cose) e anarché, espressione che Valacchi ha tradotto in termini archivistici come «scontro tra il bisogno di documentare e il rifiuto politico della parola scritta e santificata dalle procedure, che trova espressione nelle tortuose vicende documentarie del movimento anarchico»12. Ciò non significa – spiega, a sua volta, l’autore – che l’anarchivio «sia privo di ordine e votato al caos […], bensì che sia caratterizzato da un’idea diversa di ordine e, quindi, di rappresentazione»13.
Alle carte del movimento anarchico e libertario, Pezzica dedica pagine importanti, ricordando come tali nuclei documentari abbiano a lungo risentito delle condizioni di illegalità e delle persecuzioni subite dai rispettivi soggetti produttori, spesso costretti a distruggere volontariamente i propri documenti per evitare che fossero sequestrati dalle autorità. La loro eliminazione è stata dunque caratterizzata da una forte componente simbolica, specifica di un movimento politico «che vedeva nell’archivio – scrive Pezzica – la manifestazione del potere, dell’ingiustizia, del sopruso»14. Una riflessione che richiama, per molti versi, quella elaborata da Linda Giuva circa l’apparente contraddizione implicita al ruolo degli archivi, «strumenti del diritto» e, al tempo stesso, «luoghi del potere»15.
La maggiore consapevolezza dell’importanza delle proprie carte ai fini della ricerca storica esortò i militanti del rinnovato movimento libertario a promuovere, a partire dagli anni Settanta, un’adeguata attività di tutela delle proprie memorie documentarie. Istituiti i primi centri di conservazione, fu avviato il recupero dei fondi archivistici16. L’autore riporta il caso dell’archivio di Pio Turroni (1906-1982), antifascista, volontario in Spagna nella Sezione italiana della Colonna Ascaso tra 1936 e 1937, animatore del Movimento anarchico italiano già a partire dal 1943, di cui Pezzica compila un breve profilo biografico17. Conservato a Milano, presso il Centro studi libertari – Archivio Giuseppe Pinelli, il fondo Turroni presenta caratteristiche comuni a molti altri archivi di militanti anarchici: le sue carte personali, ad esempio, sono frammiste alla documentazione prodotta da periodici, case editrici e gruppi politici che egli ha coordinato nel corso degli anni. La configurazione poliedrica del fondo, poco incline alla struttura gerarchica con cui gli archivi sono comunemente rappresentati (il celebre modello ad albero rovesciato), ha indotto all’utilizzo di un più consono modello a grafo: «il salto da albero a grafo – conclude l’autore – […] non è quindi un semplice adeguamento stilistico ma corrisponde alla necessità di trovare risposta al disagio descrittivo che promana dalla constatazione di impotenza delle gerarchie fin qui adoperate», per una descrizione archivistica che tenda al plurale, all’orizzontalità18.
L’autore attinge dal vivace dibattito sulla necessità di transitare da una rappresentazione gerarchica dei fondi archivistici, che ha trovato la sua massima elaborazione nello standard ISAD(G) (General International Standard Archival Description), a un modello concettuale complesso, in grado di identificare ed esplicitare non solo «le singole entità descrittive ma anche le sue proprietà e relazioni cosicché si possa disegnare una vera e propria mappa dell’archivio»19, in linea con le istanze recepite dal più recente standard RIC-CM (Records in Context – Conceptual Model). Si tratta di un passaggio fondamentale, ancora lontano dal potersi ritenere compiuto, a «strutture di rappresentazione che – secondo un’interpretazione molto nitida, riportata da Concetta Damiani nel 2018 – non siano più [soltanto] rigidamente gerarchiche ma che aprano a nuove possibili architetture e a connessioni reticolari, strutture aperte a recepire nessi e complementarità da un quadro di contesti stratificati e tutt’altro che immodificabili»20.
L’autore si muove sapientemente tra i diversi argomenti, governandone complessità e criticità. L’uso di una sintassi chiara e lineare rende il testo scorrevole anche nei passaggi concettualmente più articolati. Alcuni dei temi affrontati richiederebbero approfondimenti ulteriori e un grado di analiticità che spesso l’autore sembra eludere volontariamente. Tuttavia, il volume non è concepito come un’opera manualistica, né ambisce a un’esaustività totalizzante su tutti i fronti. Tra i tanti pregi del libro di Pezzica vi è, al contrario, la capacità di sintetizzare i molteplici topics, offrendo altrettanti spunti di riflessione.
Notas
1 Storico e archivista, attuale presidente della sezione lombarda dell’ANAI (Associazione Nazionale Archivistica Italiana), Lorenzo Pezzica insegna memoria e archivi digitali presso il Master in Public & Digital History dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Collaboratore abituale del Centro studi libertari – Archivio Giovanni Pinelli, si è occupato a lungo di storia e archivi del movimento anarchico italiano. Tra le sue pubblicazioni precedenti, si segnalano PEZZICA, Lorenzo, Le magnifiche ribelli, 1917-1921, Milano, Elèuthera, 2017; ID., Anarchiche: donne ribelli del Novecento, Milano, Shake, 2013.
2 VALACCHI, Federico, Novecento e non più Novecento, in PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato: guida teoricopratica ai fondi storici del Novecento, Milano, Editrice bibliografica, 2020, pp. 7-22, p. 10.
3 PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato, cit., p. 24.
4 Si ricordino, in particolare, la legge n. 2006 del 22 dicembre 1939 (Nuovo ordinamento degli archivi del Regno) e il dpr. n. 1409 del 30 settembre 1963 (Norme relative all’ordinamento e al personale degli archivi di Stato).
5VALACCHI, Federico, Novecento e non più Novecento, cit., p. 12.
6 ID., Diventare archivisti: competenze tecniche di un mestiere sul confine, Milano, Editrice bibliografica, 2015, p. 104.
7 PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato, cit., p. 36. Un processo che ha assunto una certa rilevanza anche in campo storiografico, attestata dalla «sempre più diffusa sensazione che sia ormai impossibile concepire un qualche stadio del percorso di costruzione del sapere storico separato dalla sua comunicazione», VITALI, Stefano, Passato digitale: le fonti dello storico nell’era del computer, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. 70.
8 L’autore cita il progetto “Archivio digitale Carlo Maria Martini” quale caso esemplare di archivio partecipativo e, al contempo, di ricerca, URL: http://archivio.fondazionecarlomariamartini.it/fcmm-web/ [consultato il 26 settembre 2021].
9 PEZZICA, Lorenzo, «Gli archivi e la Public History oggi in Italia», in Il Mondo degli Archivi, 28 giugno 2019, URL: http://www.ilmondodegliarchivi.org/rubriche/in-italia/754-gli-archivi-e-la-public-history-oggi-in-italia [consultato il 26 settembre 2021].
10 ID., L’archivio liberato, cit., p. 89. Sull’uso delle fonti orali in ambito storiografico, si rimanda a BONOMO, Bruno, Voci della memoria: l’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Roma, Carocci, 2013. Per una riflessione più ampia sul rapporto tra archivistica e public history, si veda ZANNI ROSIELLO, Isabella, «Archivi, valorizzazione, public history», in Le Carte e la Storia, XXV, 1/2019, pp. 5-14.
11 PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato, cit., p. 41.
12VALACCHI, Federico, Novecento e non più Novecento, cit., p. 14.
13 PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato, cit., p. 125.
14 Ibidem, p. 119.
15 Giuva ha evidenziato come, con il trascorrere del tempo, i documenti possano «trasformare il loro valore d’uso e affiancare o sostituire quello originario con nuovi, inediti e imprevedibili significati. Accade così che documenti nati come segreti diventano pubblici, archivi formati come strumenti amministrativi acquistano una valenza culturale. Da complici delle sopraffazioni si trasformano in difensori dei diritti, da strumento di controllo sociale a mezzo di partecipazione democratica», GIUVA, Linda, Archivi e diritti dei cittadini, in GIUVA, Linda, ZANNI ROSIELLO, Isabella, VITALI, Stefano, Il potere degli archivi: usi del passato e difesa dei diritti nella società contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 135-201, pp. 137-138.
16 Alle lacune nella documentazione scritta, si è tentato di sopperire con un’attenzione più specifica per le fonti orali. Sul tema, si veda ACCIAI, Enrico, BALSAMINI, Luigi, DE MARIA, Carlo (a cura di), Parlare d’anarchia: le fonti orali per lo studio della militanza libertaria in Italia nel secondo Novecento, Milano, Biblion, 2018.
17 Per un profilo più esaustivo, si veda BERTOLO, Amedeo, «Pio Turroni: muratore dell’anarchia», in Libertaria, V, 3/2003, pp. 72-79.
18PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato, cit., p. 127.
19 DI MARCANTONIO, Giorgia, Prefazione, in DI MARCANTONIO, Giorgia, VALACCHI, Federico (a cura di), Descrivere gli archivi al tempo di RIC-CM, Macerata, EUM, 2018, pp. 7-10, p. 9.
20 DAMIANI, Concetta, Per una nuova concezione di descrizione archivistica: qualche riflessione, in DI MARCANTONIO, Giorgia, VALACCHI, Federico (a cura di), Descrivere gli archivi al tempo di RIC-CM, cit., pp. 117- 125, p. 119.
Resenhista
Sebastian Mattei – Specializzando presso la Scuola di specializzazione in beni archivistici e librari dell’Università Sapienza di Roma, si è laureato in Archivistica e biblioteconomia nel medesimo ateneo. Archivista libero professionista, è collaboratore della Fondazione Gramsci. Con Cristina Saggioro, ha curato gli inventari pubblicati in Via del Corso, 476. Carte della Direzione nazionale del Partito socialista italiano (Fondazione Craxi, 2020).
Referências desta Resenha
PEZZICA, Lorenzo. L’archivio liberato: guida teoricopratica ai fondi storici del Novecento. Milano: Editrice bibliografica, 2020. Resenha de: MATTEI, Sebastian. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.47, n.3, p.237-243, out. 2021. Acessar publicação original [DR]
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