La pianta del mondo | Stefano Mancuso
Immaginiamo una ipotetica istituzione rappresentativa composta da 500 membri, ciascuno impegnato a rappresentare il proprio regno di appartenenza. Animali, vegetali, funghi e altri microrganismi riuniti per decidere le sorti del pianeta Terra. Quali fra loro avrà più voce in capitolo? Contrariamente a quanto accade nella realtà, in un organo come quello appena descritto le piante avrebbero a disposizione una rappresentanza di 425 membri (85%), seguita da 2 seggi per gli animali (0,3%), e la restante parte spetterebbe ai funghi e ai vari microrganismi. Con questa analogia, nel suo ultimo libro Stefano Mancuso vuole rendere evidente agli occhi del grande pubblico quanto gli esseri umani abbiano marginalizzato la vita e le attività delle principali abitanti del globo terracqueo1 . Neurobiologo vegetale nonché scienziato e divulgatore di fama mondiale, Mancuso racconta di provare un certo imbarazzo quando risponde alla domanda dei colleghi sul suo lavoro:
“Mi occupo di piante. Sono un agronomo”, infatti, è una risposta non prevista dal canone. Un medico, un fisico, un chimico, un giurista, un architetto, un ingegnere sono tutti rispettabili professionisti, finanche filosofi, matematici, geografi e geologi, sebbene visibilmente stravaganti, sono ammessi fra le discipline accademiche. Ma un agronomo, via, che razza di professione sarebbe? Nel momento in cui lo pronunci, capisci che ti stai ponendo fuori dalla decenza2.
Nel 2005 ha fondato a Firenze il Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale (LINV) e da diversi anni è autore di testi divulgativi sul mondo delle piante, fra cui l’ultimo – oggetto di queste pagine – è stato pubblicato nel 2020. A differenza di quelli precedenti, in cui affronta il comportamento dei vegetali, in La pianta del mondo Mancuso adotta un approccio diverso, più vicino a quello usato dalle storiche e dagli storici della scienza. Aspetto, questo, che – come ha notato lo storico Matteo Melchiorre – spesso manca negli scritti appartenenti alla fiorente “editoria sugli alberi”3. Il risultato è una raccolta di otto vicende che si legano per qualche motivo alla vita dell’autore, ma che riguardano per esteso l’umanità, e che partono da un assunto fondamentale: all’inizio di ogni storia c’è una pianta. Da cui il titolo. “Pianta”, infatti, è da intendersi nel duplice senso di organismo vegetale e di mappa. Di conseguenza, seguendo il pensiero dello storico dell’ambiente Marco Armiero, se è vero che mappare vuol dire – fra le altre cose – «organizzare la memoria collettiva» e che «come per qualunque mappa disegnata come si deve, ciò che rimane fuori è importante quanto ciò che vi è incluso», è vero anche che Mancuso veste in questo caso i panni dello storico4. Con una differenza: la sua attenzione è rivolta verso una delle categorie più numerose di abitanti che popolano la Terra, ossia le piante. Le piante, che tendenzialmente rimangono fuori dagli interessi di storici e storiche, rivestono un ruolo fondamentale perché la loro nervatura, le loro radici, sono la base sulla quale è costruito l’intero mondo in cui viviamo.
Si legge così di vicende più aneddotiche, come quella relativa alla derivazione del detto “scivolare su una buccia di banana”, l’unica buccia ad averne uno tutto suo; si legge della vicenda dei 500 semi di numerose specie comuni negli Stati Uniti (come platani, pini, sequoie, etc.) che furono portate dall’astronauta Stuart Roosa nella missione Apollo 14; ma si legge anche di storie che rischiano di essere dimenticate, come quella degli alberi della libertà. Alberi che durante gli anni della Rivoluzione Francese erano stati piantati ovunque in Francia come simbolo intangibile degli ideali rivoluzionari e che, come spesso accade ai simboli, mutate le condizioni storiche, furono i primi a essere presi di mira5. Pochi sono i sopravvissuti e presto non ne avremo più alcuno, ecco perché – suggerisce Mancuso – sarebbe importante proteggerli e raccontarne la storia prima che sia troppo tardi.
Al di là di questi episodi, sono fondamentali i capitoli in cui l’autore sottolinea la necessità di studiare il mondo vegetale per rispondere alle sfide del presente. Prima fra tutte quella del riscaldamento globale. Fu l’astronomo americano Andrew Elicott Douglas (1867-1962), all’inizio del secolo scorso, il primo a dimostrare che la dendrocronologia – il sistema di datazione basato sul conteggio degli anelli di accrescimento degli alberi – può essere fondamentale in discipline come l’archeologia e la climatologia6. Si considerino come esempio i violini Stradivari, ricorda Mancuso: cosa li ha resi degli strumenti unici nel loro genere e cosa ha reso la scuola di Cremona la più importante scuola liutistica del mondo per innovazione e qualità degli strumenti? La risposta risiede nel legno, le cui caratteristiche a sua volta dipendono fortemente dal clima7. Le piante di abete, spiega l’autore, hanno bisogno di un ambiente costante negli anni e non troppo favorevole alla crescita, così che possa garantire degli anelli di accrescimento annuali il più possibile regolari e, di conseguenza, un tronco uniforme8. Condizioni, queste, riscontrabili negli abeti europei del Settecento.
Infine, sempre al clima fa riferimento la storia più attuale del libro, quella relativa alla pianificazione e all’immaginazione delle città del prossimo futuro. Soprattutto perché in base a come le realizzeremo dipenderà buona parte della nostra sopravvivenza come specie9. Un capitolo in cui si incontrano studi storici, urbani, letterari e scientifici per dimostrare come una visione di ampio respiro possa fornire una chiave di lettura più adatta all’urgenza del nostro tempo. L’idea, infatti, che la natura e lo spazio urbano debbano essere nettamente separati è un retaggio ancestrale che deriva dalla necessità di difendersi10. Scrive Mancuso:
La città antica necessitava di mura e di altri meccanismi di difesa che mantenessero l’interno della città separato e difeso da un esterno minaccioso. La presenza di questo perimetro invalicabile, a sua volta, comportava che le dimensioni urbane non potessero essere molto ampie e che le attività produttive estensive, come ad esempio quelle agricole, non trovando spazio all’interno delle mura cittadine dovessero essere destinate all’esterno del centro abitato11.
Già lo storico inglese Arnold Toynbee (1889-1975) notava come proprio l’incapacità delle città di produrre gli alimenti necessari alla sopravvivenza dei loro abitanti fosse il tratto che le accomunava tutte. E così, nel tempo, le formae urbis sono diventate a tutti gli effetti lo spazio dell’essere umano, spazio in cui la natura non era ammessa. Come dimostrato da numerosi studi, però, questa separazione è un prodotto storico che ignora i processi metabolici tra natura e luoghi urbani 12.
Prima di tutto, la specie umana si sta trasformando molto velocemente da generalista – ossia in grado di adattarsi in ambienti molto differenti in termini di clima, disponibilità nutritive, presenza di predatori, ecc. –, a specialista – ossia in grado di sopravvivere solo in un determinato habitat13. Basta guardare i dati più recenti per rendersi conto del fatto che la popolazione urbana globale supera di gran lunga quella rurale globale e che i prospetti futuri non sono rassicuranti.
Secondo una stima dell’ONU, infatti, nel 2050 la percentuale salirà al 70%14. Con una piccola forzatura, Mancuso conclude che le nostre città possono essere descritte con il concetto ecologico di “nicchia”15. Introdotto per la prima volta dal biologo e zoologo statunitense Joseph Grinnell (1877-1939), il concetto di nicchia ecologica di una specie fa riferimento alle caratteriste fondamentali dell’habitat in cui questa riesce a moltiplicarsi e diffondersi16. Aggiunge Mancuso:
Per noi i centri urbani stanno diventando esattamente ciò che per il cactus è il deserto: l’unico luogo dove possiamo pensare di prosperare e moltiplicarci poiché è il solo posto all’interno del quale la nostra specializzazione ci permette di avere le migliori opportunità di sopravvivenza17.
Il nostro successo urbano, però, richiede un flusso continuo di energia e di risorse (il legno, il petrolio, il gas, l’acqua potabile, etc.), molte delle quali non solo sono prodotte da qualche altra parte, spesso coincidente con il Sud del mondo, ma sono anche in rapido esaurimento18. Questo significa che, almeno fino ad oggi, l’espansione delle città è avvenuta e continua ad avvenire a spese delle risorse naturali del pianeta19. Ma è bene ricordarlo, sottolinea l’autore: «un pianeta finito non ha risorse infinite»20. Proprio per questo motivo, le città sono i principali motori della nostra aggressione all’ambiente e la sorgente principale del cambiamento climatico21.
Dunque, se da un lato è vero che gli spazi urbani – specie le megalopoli – sono ormai insostenibili, dall’altro è vero anche che sono un laboratorio di adattamento e lotta al cambiamento climatico e, di conseguenza, il luogo in cui il riscaldamento globale può essere combattuto con più efficacia22. È il caso, per esempio, delle isole di calore, il fenomeno per cui in città le temperature sono più elevate che nelle aree rurali circostanti, osservato e teorizzato per la prima volta nel 1820 dal chimico inglese Luke Howard (1772-1864)23. Come affrontarle? Per Mancuso la soluzione è davanti ai nostri occhi:
In città ogni superficie dovrebbe essere coperta di piante. Non soltanto i (pochi) parchi, viali, aiuole e altri luoghi canonici, ma letteralmente ogni superficie: tetti, facciate, strade; ogni luogo dove è immaginabile mettere una pianta dove poterla ospitare 24.
Di nuovo, è un’abitudine quella di considerare le città come contrapposte alla natura, soprattutto perché non esistono – a detta dell’autore – problemi tecnici o economici che possano ostacolare una compenetrazione di ambiente naturale e ambiente costruito25. Al contrario, molteplici sono i benefici: dalla salute fisica a quella mentale, gli aspetti che il mondo vegetale influenza positivamente abbracciano ogni dimensione della società26. D’altra parte, questa proposta non è inedita. Mancuso, infatti, ricorda un testo dello scrittore John Evelyn (1620-1706) in cui si insiste sulla necessità di piantare alberi e arbusti all’interno e nei pressi della città per ridurre la cattiva qualità dell’aria londinese. Nel titolo dell’opera – non a caso – già risuona il forte messaggio: Fumifugium o il disagio dell’aria dissipata e del fumo di Londra insieme ad alcuni rimedi umilmente proposti da John Evelyn esq. a Sua Maestà e al parlamento ora riuniti27. Insomma, ripensare la città in termini di “giungla urbana”, per usare un’espressione di Mancuso, ci permetterebbe di vivere in una nicchia ecologica duratura e in cui la coesistenza di diverse specie è considerata nella sua complessità28. Un organismo vivente frutto della sua storia, stando al pensiero del botanico scozzese Patrick Geddes (1854-1932), in cui più elementi interagiscono fra loro29.
È tempo di reimparare dalle piante, dalla loro cooperazione, dal loro modo di aiutarsi a vicenda per la sopravvivenza; è tempo di portarle fuori dai margini e di vederle non più come meri epifenomeni da sfondo alle vicende umane, ma come parte attiva e operante di un ambiente dinamico e complesso. Dunque, quali parole più adatte a riassumere lo scopo di questo contributo, se non quelle dell’autore stesso quando afferma:
Un giorno venne chiesto al compositore inglese Sir Edward Elgar da dove provenisse la sua musica. La risposta fu: “la mia idea è che ci sia musica nell’aria, musica dappertutto intorno a noi, il mondo ne è pieno e ne puoi prendere ogni volta tutta quella di cui hai bisogno”. Lo stesso accade per le piante: sono, come la musica per Elgar, letteralmente dappertutto intorno a noi, e per scriverne non si deve far altro che ascoltare le loro storie e raccontarle, utilizzando ogni volta tutte quelle di cui abbiamo bisogno 30.
Notas
1 MANCUSO, Stefano, La pianta del mondo, Roma-Bari, Laterza, 2020, pp. 82-83.
2 Ibidem, p. 160.
3 MELCHIORRE, Matteo, «Per una storia degli alberi e del bosco», in Storica, 76, 2020, pp. 92-93. Altri libri recenti di Stefano Mancuso sono: MANCUSO, Stefano, Plant Revolution, Firenze, Giunti Editore, 2017; ID., L’incredibile viaggio delle piante, Roma-Bari, Laterza, 2018; ID., La nazione delle piante, Roma-Bari, Laterza, 2019.
4 ARMIERO, Marco, L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale, Torino, Einaudi, 2021, p. 32.
5 MANCUSO, Stefano, La pianta del mondo, cit., p. 23.
6 Ibidem, pp. 104-112.
7 Ibidem, p. 93.
8 Ibidem, p. 93.
9 Ibidem, p. 47.
10 Ibidem, p. 46.
11 Ibidem, pp. 46-47.
12 Cfr. CRONON, William, Nature’s Metropolis: Chicago and the Great West, New York, W.W. Norton & Co., 1991.
13 MANCUSO, Stefano, La pianta del mondo, cit., p. 50.
14 ONU, World Urbanization Prospects: The 2018 Revision, New York, United Nations, 2019.
15 MANCUSO, Stefano, La pianta del mondo, cit., p. 51.
16 Ibidem.
17 Ibidem.
18 Ibidem, pp. 53-54.
19 Ibidem, p. 55.
20 Ibidem.
21 Ibidem, p. 53.
22 Ibidem, p. 65. Cfr. anche DAWSON, Ashley, ARMIERO, Marco, TURHAN, Ethemcan, BIASILLO, Roberta (eds.), Social Texts: Urban Climate Insurgency, 40, 1/2022.
23 MANCUSO, Stefano, La pianta del mondo, cit., p. 63.
24 Ibidem, p. 66.
25 Ibidem, p. 66.
26 Ibidem.
27 Ibidem, p. 67.
28 Ibidem, p. 69.
29 Ibidem, pp. 57-58.
30 Ibidem, p. 13, corsivo nel testo.
Resenhista
Lucia Tedesco – Ha conseguito la laurea magistrale in Scienze Filosofiche presso l’Università di Bologna con una tesi sulla giustizia ambientale in collaborazione con l’Environmental Humanities Laboratory di Stoccolma. È appassionata di Science and Technology Studies, di studi di genere, di ecologia politica urbana e di Environmental Humanities. URL: http://www.studistorici.com/progett/autori/#Tedesco
Referências desta Resenha
MANCUSO, Stefano. La pianta del mondo. RomaBari: Laterza, 2020. Resenha de: TEDESCO, Lucia. Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, v.51, n.3, p.99-105, 2022. Acessar publicação original [DR/JF]