La peste nella storia / William McNeill
William Hardy McNeill / Foto: Wikipedia /
Questo libro di William Hardy McNeill, scrittore canadese, storico ed esponente della global history (1917-2016), propone un’ampia ricostruzione degli incontri dell’umanità con le malattie infettive al fine di dimostrare come il variare della circolazione epidemica abbia da sempre influito sulle vicende umane e come il ruolo di tali malattie sia stato e rimanga fondamentale per l’equilibrio della Natura.
L’ analisi è basata sul parallelismo tra il microparassitismo degli agenti patogeni e il macroparassitismo dei grossi predatori, i più importanti fra i quali sono sempre stati gli esseri umani. Sia i micro che i macroparassiti hanno interesse a spremere risorse dalle loro vittime. Ma quando esagerano e le uccidono, finiscono per soccombere, a loro volta, per mancanza di cibo.
Le civiltà devono dunque trovare e mantenere il giusto equilibrio tra queste due categorie di parassiti, ripristinandolo quanto prima, in caso di alterazioni dall’esterno, pena la loro estinzione.
Le sofferenze e l’annientamento di intere popolazioni a causa delle pandemie sono documentate fin dai tempi più antichi da fonti provenienti da civiltà come quelle mesopotamiche, quella egizia e quella cinese. McNeill ne fa un’analisi approfondita compensando con ipotesi e speculazioni ben argomentate la mancanza di sufficienti prove relative ad alcune aree del mondo e scegliendo una periodizzazione che dal Paleolitico si articola in sei fasi, corrispondenti ad altrettanti capitoli del testo, corredati ciascuno da un notevole apparato di citazioni bibliografiche. Un’interessante introduzione spiega la genesi del libro a partire dagli interrogativi posti dalla conquista spagnola dell’impero Azteco da parte di un esiguo gruppo di uomini. In appendice un elenco di epidemie verificatesi in varie zone della Cina dal 243 a.C.al 1911 d.C.
L’uomo cacciatore
L’habitat naturale dei primi uomini del Paleolitico era quello delle foreste pluviali africane, popolate da molti parassiti monocellulari capaci di vivere in modo indipendente, senza bisogno di sfruttare l’organismo di un qualunque ospite. Tali ambienti mantennero un buon equilibrio naturale tra predatori e prede, fino all’acquisizione da parte degli esseri umani di nuove tecniche che, condivisibili grazie all’acquisizione del linguaggio, permettevano loro di organizzarsi in gruppo e di cacciare i grossi predatori erbivori delle savane africane. Lo sfruttamento di risorse prima inaccessibili proiettò gli esseri umani al vertice della catena alimentare, senza mutare radicalmente il sistema dentro al quale si erano evoluti. Risultati molto più evidenti si verificarono quando si spostarono in ambienti caratterizzati da climi freddi e asciutti, dove il problema non era rappresentato dai microparassiti, molto meno numerosi ma dai macroparassiti.
I cacciatori riuscirono a sopravvivere imparando ad addomesticare il fuoco e a coprirsi con le pelli degli animali, ma quando le risorse di selvaggina si esaurirono, inevitabili furono le crisi di sopravvivenza in varie parti del mondo, crisi rese ancor più gravi da radicali mutamenti climatici a partire dal 20.000 a.C. L’ingegnosità umana trovò allora nuove strategie per vivere: lo sfruttamento delle coste marine con lo sviluppo della pesca e la raccolta di semi commestibili diede poi vita all’agricoltura, permettendo un rapido aumento demografico e favorendo in breve tempo la nascita di centri urbani.
L’affiorare alla storia
Pastori e agricoltori alterarono gradualmente i diversi ambienti, riducendone la varietà biologica ed accorciando le catene alimentari con il conseguente aumento dei microorganismi patogeni, invisibili all’occhio umano, a differenza dei macrorganismi.
Le colture irrigue ad esempio crearono una situazione climatica simile a quella delle foreste pluviali favorevole alla trasmissione di parassiti patogeni alla popolazione rurale.
L’intelligenza umana si attivò anche in questo caso elaborando prescrizioni dietetiche, come il divieto di mangiare carne di maiale presso ebrei e musulmani, e sanitarie, come l’espulsione dei lebbrosi dai villaggi, nel tentativo di arginare le malattie infettive.
La maggior parte di esse, il morbillo ad esempio, il vaiolo o l’influenza, furono trasmesse alle popolazioni umane da animali domestici oppure furono la conseguenza dell’inserirsi degli umani in un processo patologico presente fra gli animali selvatici, come nel caso della peste bubbonica, della febbre gialla e dell’idrofobia.
Dopo un lungo e continuativo contatto tra gli agenti patogeni e l’uomo, le infezioni virali e batteriche divennero endemiche in alcune società che acquisirono la capacità di resistere ai contagi (immunità di gregge), ottenendo in tal modo un grande vantaggio nell’ incontro con altri gruppi umani più semplici e sani destinati a soccombere per l’azione associata della malattia e della guerra.
Fusione dei serbatoi di virus delle aree civili dell’Eurasia: 500 a.C. -1200 d.C.
Durante il primo millennio a.C. si verificò una stabile condizione di equilibrio fra macro e microparassitismo nei tre più importanti centri di insediamento umano: la Cina, l’India e il bacino del Mediterraneo. Ciò permise una costante crescita demografica e un’espansione territoriale a ciascuna di queste civiltà, che avevano sviluppato un proprio serbatoio di virus capace di diventare letale solo se libero di diffondersi presso popolazioni prive di immunità.
Questo accadde a partire dal I secolo d.C. quando i viaggi di terra e di mare dalla Cina e dall’India fino al Mediterraneo divennero sempre più frequenti, con il conseguente scambio non solo di merci, ma anche di infezioni tra le varie civiltà. L’esposizione a nuovi agenti patogeni ebbe ben poco effetto in India, in Cina o anche nelle zone insulari del mondo, mentre l’incessante verificarsi di scoppi di gravi pestilenze fu una delle concause ad esempio della caduta dell’Impero Romano d’Occidente.
Il Mediterraneo, i cui porti furono regolarmente colpiti dalle pestilenze, fu successivamente sostituito come centro di civiltà dai paesi europei più settentrionali, meno depauperati delle proprie risorse e avvantaggiati da una serie di innovazioni delle tecniche agricole che favorirono un notevole aumento della popolazione.
L’influsso dell’impero mongolo sul mutamento degli equilibri delle malattie:1200-1500
La peste nera del 1346 ridusse di un terzo la popolazione europea. Responsabile di tale infezione era la Pasteurella pestis, bacillo scoperto solo nel 1894, trasmesso agli umani dalle pulci dei roditori presenti nelle steppe euroasiatiche che ne erano cronicamente infette.
La peste giunse in Europa grazie alle piste carovaniere che attraversavano l’Asia, percorse da mercanti, corrieri postali ed eserciti. Dalla Crimea il bacillo salì poi a bordo delle navi, si diffuse in tutti i porti del Medio Oriente e d’Europa e da lì verso l’entroterra.
Molte furono le conseguenze di questa epidemia: psicologiche (paura della morte, colpevolizzazione degli Ebrei, ricorso a rituali o processioni come quelle dei flagellanti), culturali (la decadenza del latino in seguito alla morte di molti chierici e la diffusione delle lingue vernacolari, la danza macabra come tema ricorrente in pittura, una nuova spinta al misticismo), economiche (aspri scontri fra classi sociali).
Ebbe inoltre inizio un nuovo processo culturale attraverso il quale gli uomini impararono a ridurre al minimo i rischi dell’infezione: norme sulla quarantena da rispettare nei porti e altre regole introdotte dai governi delle città-stato specialmente in Italia e Germania. La stessa cosa non accadde nel mondo musulmano che, condizionato da una visione fatalista della malattia, guardava con diffidenza alle misure sanitarie proposte dai cristiani.
Le infezioni bubboniche continuarono ciclicamente a manifestarsi nell’Europa orientale determinando un progressivo disgregamento sociale e una spartizione delle steppe euroasiatiche fra gli imperi agricoli confinanti di Russia e Cina.
Scambi transoceanici tra il 1500 e il 1700
Gli incontri con le malattie infettive, irrilevanti prima dell’arrivo delle popolazioni europee e africane nel Nuovo Mondo, provocarono un imponente disastro demografico fra gli Amerindi sterminati dal vaiolo più che dalle armi degli invasori.
Senza questa malattia, sconosciuta alle popolazioni del Nuovo Mondo e interpretata come punizione divina, gli Spagnoli non sarebbero riusciti a conseguire la vittoria sugli Aztechi in Messico e sugli Inca in Perù. Dio sembrava favorire i bianchi e arrendersi alla superiorità spagnola, convertendosi poi alla loro religione, era la sola reazione possibile.
Altre epidemie si succedettero in quei territori che non raggiunsero mai una stabilità epidemiologica.
In Europa invece, tra 1300 e il 1700, si giunse a un progresso fondamentale: la “domesticazione” delle malattie epidemiche, che si trasformarono in malattie infantili, divenendo progressivamente endemiche e garantendo un regolare aumento della popolazione.
Va considerato inoltre il fatto che l’introduzione di piante e animali del Vecchio Mondo danneggiò gli equilibri ecologici preesistenti nelle Americhe, mentre le piante da lì esportate verso l’Europa garantirono la possibilità di produrre quantità supplementari di cibo.
McNeill insiste nel sottolineare come questa sia una vicenda esemplare per dimostrare il ruolo avuto dalle malattie infettive nel modellare la storia umana. Gli Europei acquisirono la tecnica della navigazione transoceanica e conquistarono molte regioni del mondo, ma la batteriologia fu importante almeno quanto la tecnologia nel decretare la loro supremazia.
L’influsso della scienza medica e dell’organizzazione sanitaria sull’ecologia a partire dal 1700
La creazione di nuovi equilibri ecologici si verificò soltanto nelle aree del mondo caratterizzate da stabilità politica e dalla possibilità di espandere la propria produzione agricola in modo da garantire un regolare aumento demografico.
Un maggiore ricorso all’allevamento del bestiame comportò ad esempio una maggiore assunzione di proteine nella dieta umana e un potenziamento nella formazione di anticorpi contro le infezioni.
Fra il 1200 e il 1700 i medici europei acquisirono nuove competenze grazie alle scuole di medicina e agli ospedali dove potevano osservare ripetutamente i sintomi e il decorso di una patologia.
Ma fu solo a partire dalla fine del XIX secolo che la ricerca medica riuscì ad isolare i germi delle varie malattie infettive ancora capaci di provocare milioni di morti come ad esempio il colera, procedendo anche alla realizzazione dei vaccini, come quello del vaiolo.
I primi decenni del XX secolo videro poi la nascita della medicina preventiva che perseguiva soprattutto il miglioramento delle condizioni igieniche delle case, dei servizi sociali, delle riserve idriche.
Va sottolineato l’importante ruolo dell’amministrazione sanitaria militare preoccupata di tutelare la salute degli eserciti, elemento fondamentale per l’affermazione dello Stato nel continente europeo.
Nonostante i continui progressi, la tecnica e la scienza non hanno ancora liberato l’umanità dalla sua antichissima condizione che la rende vulnerabile ai microparassiti e per il futuro immediato rimane evidente che stiamo attraversando uno dei più grandi sconvolgimenti ecologici mai conosciuti dal nostro pianeta.
Livia Tiazzoldi
McNEILL, William Hardy. La peste nella storia. L’impatto delle pestilenze e delle epidemie nella storia dell’umanità. Milano: Res Gestae, 2012 (1975). 282p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.14, p.149-152, dic., 2020. Acessar publicação original