Il libro è il frutto di un lavoro di ricerca quasi ventennale, concretizzatosi dapprima in una tesi di dottorato, discussa dall’autore nel 2009, e successivamente in questo volume che quella tesi riprende, amplia e approfondisce. Fabrice Jesné, attualmente docente all’Università di Nantes, è stato direttore di studi per l’età moderna e contemporanea presso l’École française di Roma. I suoi due principali assi di ricerca riguardano da un lato la politica balcanica dell’Italia in età contemporanea e, dall’altro, la storia e il ruolo delle istituzioni consolari in Francia e in Italia, a cui egli ha dedicato diversi contributi storiografici e su cui ha coordinato progetti di studio1. Queste due piste di ricerca si ritrovano intrecciate nel volume e ne costituiscono la struttura portante. Tuttavia, il libro non si esaurisce in questi due aspetti, bensì offre un panorama ampio, articolato e approfondito di contenuti, modalità e usi delle vicende balcaniche del secondo Ottocento nella politica e nella cultura dell’Italia liberale. Alla luce di ciò, il libro si inserisce appieno nel solco di una tradizione di studi ben consolidata in Italia riguardante l’Europa centro-orientale e, in particolare, il settore delle relazioni fra il moto risorgimentale italiano prima e l’Italia unita poi con il vasto e composito mondo delle popolazioni centro-europee, balcaniche in particolare. Nel secondo dopoguerra questo campo di studi ha trovato un suo caposaldo nel volume di Angelo Tamborra del 1958, dedicato proprio alle relazioni e agli scambi reciproci tra il Risorgimento italiano e quelli delle nazioni del Sud-est europeo2. Non è infatti casuale che la ricostruzione di Jesné prenda le mosse proprio dall’iniziativa verso l’Oriente d’Europa attuata da Cavour. Successivamente alla pubblicazione del libro di Tamborra, tale tendenza storiografica ha dato vita ad altri contributi che hanno ricostruito con efficacia vari aspetti dei rapporti fra Italia e mondo danubiano balcanico3. Jesné ha saputo mettere a profitto questo patrimonio di studi che si caratterizza da un lato per la sua ricchezza e, dall’altro, per la sua frammentarietà, mancando finora una visione di insieme del problema. Avvalendosi anche di importanti contributi della storiografia francese sull’Italia del XIX secolo e la sua proiezione mediterranea – in particolare, dei lavori di Daniel Grange4 ma anche di quelli di Gilles Pécout5 – l’autore è riuscito finalmente a proporre un’analisi complessiva di questa tematica.
Il libro è organizzato in otto capitoli, più un’introduzione e un epilogo. Pensato soprattutto per il pubblico francese, in esso si usa il termine Balcani, nonostante la sua imperfezione, per indicare un ampio spazio costiero mediterraneo su cui si appuntarono le ambizioni egemoniche italiane: l’Albania, la porzione adriatica delle cosiddette terre irredente, il mondo egeo (Creta e Dodecaneso), la Grecia, la Macedonia e, in misura minore, l’entroterra balcanico disposto lungo il basso corso del Danubio. Secondo Jesné, la politica balcanica dell’Italia fu una sorta di imperialismo moderato e informale che conviveva con la dominazione coloniale vera e propria nel continente africano. Uno dei meriti maggiori di questo studio, infatti, è l’aver saputo collocare la politica balcanica dell’Italia nel suo insieme, vista nei suoi legami con la vita politica interna e con le iniziative relative all’Africa, cercando di individuare le motivazioni per le quali il ceto politico fu portato a voler esercitare un’influenza sulla vicina penisola oppure, in alcuni casi, a disinteressarsene. La politica balcanica dell’Italia è significativamente definita dall’autore il «parente povero dell’imperialismo italiano»6. Non si trattò di una politica fondata su un disegno complessivo, durevole e coerente ma, piuttosto, di un insieme di interessi fluttuanti, spesso legati a singoli individui e gruppi. Fu solamente all’inizio del Ventesimo secolo, durante l’età giolittiana, che vi fu il tentativo di realizzare una più coerente politica di espansione dell’Italia verso quelle regioni, come viene ben ricostruito nell’ultimo capitolo (VIII).
Non bisogna però pensare che il libro sia dedicato soltanto alla politica estera dell’Italia liberale nei riguardi dei Balcani. Questo aspetto è solo uno dei moltissimi che in esso vengono trattati. Si potrebbe affermare che questo studio voglia ricostruire le caratteristiche di quello che fu un vero e proprio “laboratorio” di una nuova politica estera di uno Stato di recente formazione. I temi e i problemi che nel libro sono affrontati rappresentano gli “ingredienti” che hanno composto quell’articolata e spesso contraddittoria proiezione verso l’Oriente d’Europa dell’Italia postunitaria. Come in un laboratorio si eseguono esperimenti, si potrebbe dire che nell’Italia di quegli anni si stava tentando di realizzare una strategia di azione (che fu politica, culturale, economica) che assicurasse al giovane Stato una posizione internazionale al pari delle altre Grandi Potenze europee. I Balcani furono uno dei principali banchi di prova della politica estera del nuovo Stato, il settore in cui maggiormente entravano in gioco gli interessi delle Potenze, quella parte del sistema internazionale di allora con il più alto potenziale di rischio, un “laboratorio” di esperimenti nazionali e di progetti spesso conflittuali di costruzione statale, con cui l’Italia era tenuta a misurarsi, in un quadro sostanzialmente eurocentrico.
Il I capitolo è dedicato alla politica di Cavour e a quella dei suoi successori nel corso del primo decennio postunitario. Cavour individuò nelle regioni europee dell’Impero ottomano un potenziale spazio di espansione dell’influenza commerciale del Regno di Sardegna e, poi, dell’Italia. Soprattutto dopo il Congresso di Parigi del 1856, Cavour potenziò la rete consolare del Piemonte nel Mediterraneo orientale, la quale assunse così una nuova funzione politica, alla luce del programma cavouriano di consolidamento e sviluppo del Regno di Sardegna nella penisola italiana. Le attività svolte dai consoli, dunque, andarono ben oltre quelle tradizionalmente loro assegnate ed essi divennero di fatto degli agenti politici, una vera e propria colonna vertebrale della politica balcanica dell’Italia. All’indomani dell’Unità, la nuova configurazione geografica del Paese che con i Balcani, l’Austria e l’Impero ottomano condivideva una lunga frontiera marittima, imponeva un’attenzione particolare a quei territori, in ragione della posizione italiana nel Mediterraneo e, in particolare, nell’Adriatico, in collegamento al problema della sicurezza da garantire in questo settore. È noto come l’ossessione del ceto dirigente liberale per questo problema sia stata una costante della vita politica del Paese. Del resto, il disastro navale del 1866 contro la flotta austriaca fu un trauma per il ceto politico post-cavouriano. Se mai ce ne fosse stato bisogno, quell’evento ricordò ancora una volta che l’esistenza del nuovo Stato andava tutelata.
Al dinamismo cavouriano seguì una fase di raccoglimento. Prudenza fu la parola d’ordine dei governi della Destra da Ricasoli in poi. Bisognava mantenere l’equilibrio fra le Potenze, evitare complicazioni, proprio lì, nei Balcani, dove si rischiava di mettere in discussione i rapporti fra gli Stati. Allo stesso tempo era necessario costruire una nuova politica estera, e ciò andava fatto in breve tempo, mancando una lunga tradizione italiana in questo ambito.
Nel momento in cui i Balcani entrarono nuovamente in fermento nel 1875, fu chiaro, ancor più di quanto già non lo fosse stato prima, che un interesse geostrategico primario del Paese fosse proprio in quelle regioni. Alla crisi d’Oriente degli anni Settanta è dedicato il II capitolo. Non bastava accontentarsi del ruolo di spettatori o di una presenza prevalentemente commerciale. Bisognava fare di più ma mancavano gli strumenti adeguati. Dinanzi alla nuova crisi balcanica, dunque, anche gli uomini della Sinistra, ora al governo, scelsero di continuare sulla linea della prudenza, per evitare ogni complicazione. Da questo punto di vista, bisognava pure tenere a bada il variegato movimento democratico, sempre pronto a entrare in azione (e anche su questo nel libro si dice molto). La politica rinunciataria, spettatrice degli eventi, seguita da Cairoli e dal ministro degli Esteri Corti in occasione del Congresso di Berlino del 1878 divenne dunque materia di scontro politico. In proposito, uno dei temi più originali e ben ricostruiti da Jesné è quello dedicato all’uso politico che delle questioni balcaniche veniva fatto nel confronto interno, dentro e fuori il Parlamento, soprattutto nella lotta politica nelle fila della Sinistra, fra i moderati (Depretis, Corti, Cairoli) e i più dinamici come Francesco Crispi. Questi temi sono oggetto del III capitolo del volume. Particolare attenzione è riservata a Crispi che ebbe un ruolo dirompente nella politica balcanica dell’Italia. Egli conduceva, com’è noto, una politica parallela, per mezzo della stampa a lui vicina e di contatti diretti con vari esponenti politici dalle regioni oltre Adriatico. Prima della sua salita al potere negli anni Ottanta, Crispi aveva già individuato quelle che sarebbero poi state le principali caratteristiche della sua azione di politica estera nei confronti dei Balcani. Riprese la lunga e persistente tradizione filellenica della cultura politica italiana e la affiancò a un’attenzione speciale verso l’Albania, atteggiandosi a sostenitore delle aspirazioni nazionali dei popoli balcanici, aspetto che non risultava sgradito agli esponenti dell’Estrema e del composito movimento democratico, di matrice mazziniana, che contrapponeva la propria visione a quella moderata, volta alla tutela dello status quo e fatta propria dalla Sinistra di governo che si era collocata nel solco della tradizione monarchico-liberale italiana.
Crispi puntava in realtà a fare dell’Italia un elemento centrale nel Mediterraneo orientale. È nota la sua successiva opera di promozione degli interessi italiani all’estero, con l’apertura di scuole, iniziative economiche, potenziamento della rete consolare, a danno dell’influenza dell’AustriaUngheria. Su questo aspetto si apre tutto un altro filone di indagine, presente nel libro, ovvero quello del ruolo giocato dal movimento irredentistico nel condizionare le scelte italiane verso i Balcani, in ragione della competizione con l’alleato asburgico. In proposito, va ricordato che nel libro si mette in evidenza come l’irredentismo, insieme al filellenismo, sia stato uno dei temi principali della cultura politica della Sinistra, capace di coinvolgere un’ampia fetta del pubblico italiano nelle vicende balcaniche. Irredentismo e filellenismo furono dei veri e propri canali di interessamento dell’opinione pubblica borghese di allora a tali questioni. Il filellenismo in Italia non si esaurì, come in altri Stati europei, all’indomani della conclusione della guerra di indipendenza greca alla fine degli anni Venti, ma continuò a essere un elemento decisivo del confronto politico. Jesné dimostra, in maniera convincente, come i sentimenti filellenici divennero uno dei filtri attraverso cui la società italiana guardava ai Balcani nei decenni dopo l’Unità.
Tutti questi elementi furono ben presenti nell’azione politica di Crispi al governo, analizzata nel IV capitolo, dedicato agli anni Ottanta e, oltre a Crispi, anche alle figure di Mancini e Blanc. L’uomo politico siciliano tentò di coniugare la politica delle alleanze (la Triplice) con la politica delle nazionalità, cercando di operare una originale sintesi, non pienamente riuscita, grazie alla quale i temi cari alla tradizione democratica italiana, come il sostegno alle nazionalità, lo stesso filellenismo e, ovviamente, l’irredentismo, non furono sacrificati bensì adattati alla realtà del quadro politico internazionale.
Tuttavia, per realizzare un’efficace azione politica nei Balcani, si poneva un problema fondamentale: avere una migliore conoscenza della regione. Nel V capitolo l’Autore ricostruisce in un grande e particolareggiato quadro di insieme le moltissime iniziative e i vari attori che nei decenni successivi all’unificazione tentarono di sopperire alla mancanza di conoscenza di quella regione: gli studi linguistici, il ruolo delle comunità italo-albanesi dell’Italia meridionale, l’antropologia applicata alle popolazioni balcaniche, l’etnografia, l’archeologia (di sensibilità filellenica), la geografia (con particolare attenzione all’opera di Antonio Baldacci, botanico, geografo, esploratore).
Al volgere del secolo tutto o quasi cambiò. La sconfitta di Adua fu un tornante decisivo. Il momentaneo arresto dell’espansione coloniale in Africa favorì una più decisa proiezione italiana verso l’Oriente europeo. Chi voleva una politica estera muscolare guardava allora con più attenzione in quella direzione. La sfera decisionale intuì il profitto in termini politici che sarebbe potuto derivare da una più sistematica e incisiva presenza nei Balcani e nel Mediterraneo orientale. Ed ecco l’esperienza dell’occupazione di Creta tra il 1899 e il 1906 e il ruolo giocato nella crisi macedone del 1903, trattati nel capitolo VI e definiti un «imperialismo umanitario». Quelle vicende diedero l’occasione al governo italiano di dimostrare che si poteva davvero essere una Grande Potenza e occupare una posizione di rilievo nelle questioni di politica internazionale del tempo. Pur nella loro limitatezza, la vicenda di Creta e quella macedone furono, ancora una volta, un “laboratorio” coloniale preparatorio di quanto l’Italia avrebbe potuto fare e avrebbe fatto in seguito.
All’inizio del Novecento iniziarono poi a manifestarsi nuove tendenze espansionistiche, soprattutto per quanto riguarda le mai sopite ambizioni africane che, comunque, rimanevano il big deal italiano. In questo contesto, però, i Balcani continuarono a occupare uno spazio sempre più ampio, in una ipotetica sfera imperiale italiana che iniziava a delinearsi da allora e fino alla guerra di Libia e alle guerre balcaniche. Partì dunque una modesta ma politicamente significativa espansione commerciale oltre Adriatico, una penetrazione pacifica (analizzata nel capitolo VII) che fece dei Balcani la direzione principale delle ambizioni italiane. Non si trattò, dunque, di un impero “formale” come nel caso dei possedimenti coloniali veri e propri, bensì di una sfera di influenza, di una sorta di impero informale, per certi versi analogo a quello che, con risultati ben più importanti, aveva fatto l’Austria-Ungheria.
Il caso di questo presunto, quantomeno atipico e sicuramente informale, imperialismo italiano nei Balcani poggiò dunque su due elementi: sulla fede nella grandezza dell’Italia e nella sua potenziale missione civilizzatrice da un lato e, dall’altro lato, sullo sforzo compiuto da vari attori per convincere i decisori a investire risorse per avere una reale influenza nel Sud-est dell’Europa e nel Mediterraneo orientale. Dalla ricerca di Jesné emerge come consoli, giornalisti pubblicisti, imprenditori e una miriade di studiosi fossero i principali agenti di questo interesse, che oggi appare come una nebulosa (e mai termine fu più adeguato) di gruppi e di individui produttori di saperi e di discorsi sui Balcani nell’Italia liberale7. Tutto ciò finì per produrre un’accumulazione di discorsi pubblici e scientifici che costituì in qualche modo il sostrato delle scelte della classe dirigente. Ecco perché si è affermato che non si tratta solo di un libro sulla politica estera dell’Italia ma di un vero e proprio “laboratorio” culturale, che ha costituito le fondamenta della conoscenza e dello studio dei Balcani in Italia e che ha trovato poi nuova linfa all’indomani della Prima guerra mondiale e, in maniera discontinua, lungo tutto il corso nel Novecento, ma sempre condizionato dalle differenti stagioni storiche vissute dall’Europa.
Notas
1A titolo di esempio si veda: AGLIETTI, Marcella, GRENET, Mathieu, JESNÉ, Fabrice (a cura di), Consoli e consolati italiani dagli Stati preunitari al fascismo (1802-1945), Rome, École française de Rome, 2020.
2 TAMBORRA, Angelo, Cavour e i Balcani, Torino, ILTE, 1958.
3 Si ricordano solamente: DOGO, Marco, La dinamite e la mezzaluna: la questione macedone nella pubblicistica italiana, Udine, Del Bianco, 1983; GUIDA, Francesco, L’Italia e il Risorgimento balcanico. Marco Antonio Canini, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984; GUIDA, Francesco, PITASSIO, Armando, TOLOMEO, Rita, Nascita di uno Stato balcanico: la Bulgaria di Alessandro di Battenberg nella corrispondenza diplomatica italiana, 1879-1886, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1988.
4 GRANGE, Daniel, L’Italie et la Méditerranée. Les fondements d’une politique étrangère (1896-1911), Rome, École française de Rome, 1994.
5 PÉCOUT, Gilles, «Philhellenism in Italy: Political Friendship and the Italian Volunteers in the Mediterranean in the Nineteenth Century», in Journal of Modern Italian Studies, 9, 4/2004, pp. 405-427; ID., «The International Armed Volunteers: Pilgrims of a Transnational Risorgimento», in Journal of Modern Italian Studies, 14, 4/2009, pp. 413-426; ID., Naissance de l’Italie contemporaine: 1770-1922, Paris, Nathan, 1997.
6 JESNÉ, Fabrice, La face cachée de l’Empire: l’Italie et les Balkans, 1861-1915, Rome, École française de Rome, 2021, p. 6.
Resenhista
Antonio D’AlessandrI – Professore associato di storia dell’Europa orientale presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi Roma Tre. Si occupa di storia politica e culturale del Sud-est europeo in età contemporanea, con particolare riguardo all’affermazione e sviluppo dei movimenti e degli Stati nazionali. È segretario dell’Associazione italiana di studi del Sud-est europeo (AISSEE) e del Comitato di Roma dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano. URL: http://www.studistorici.com/progett/autori/#D’Alessandri
Referências desta Resenha
JESNÉ, Fabrice. La face cachée de l’Empire: l’Italie et les Balkans, 1861-1915. Rome: École française de Rome, 2021. Resenha de: D’ALESSANDRI, Antonio. Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, v.50, n.2, p.106-113, 2022. Acessar publicação original [DR/JF]
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