Durante l’acceso dibattito che si svolse, alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, in seno al Consiglio provinciale di Cuneo per valutare la possibile realizzazione di un manicomio provinciale, si segnalò tra le altre una voce, quella del consigliere Michelini. Liberale e convinto sostenitore dell’idea di nazione, fattosi spesso notare per le chiare posizioni anticlericali1 e per la generosa partecipazione ai moti del 1821 2, il conte avanzò una critica radicale all’idea stessa del manicomio, in quanto luogo d’esclusione. La sua proposta, sviluppata «colla lettera diretta all’egregio dottore Parola»3, era insieme il frutto dell’esperienza di viaggiatore e di un orizzonte mentale aperto e riformista, tanto coraggioso quanto non in linea con le esigenze disciplinari dei tempi. Giovanni Battista Michelini, dopo aver visitato il villaggio belga di Geel, conobbe una modalità diversa di “curare” l’alienazione mentale e la propose alla Commissione Provinciale. Nel villaggio gli alienati soggiornavano presso le famiglie del contado «ove godono d’una libertà che non esclude le cure che esige il loro stato»4. Questa rivoluzione terapeutica aveva raggiunto una certa notorietà nel 1803, quando il prefetto del Dyle aveva deciso, dopo aver preso accordi con le autorità locali, di «trasportare a Geel i pazzi che si custodivano in Bruxelles»5. Esquirol, che visitò il villaggio nel 1821, sostenne che a Geel c’era una colonia di pazzi che si mandano da tutti gli angoli del Dipartimento e dei dipartimenti vicini. Questi infelici sono in pensione presso gli abitanti; passeggiano liberamente nelle contrade, mangiano coi loro ospiti e dormono in loro casa. Se si abbandonano a qualche eccesso, si mette loro dei ferri ai piedi, il che non li trattiene dall’uscire di casa. Questo strano traffico è da tempo immemorabile la sola risorsa degli abitanti di Gheel; non si è mai udito, che ne siano derivati degl’inconvenienti6.
La prassi adottata prevedeva quindi che i malati godessero di un certo grado di libertà, vivessero in ambiente domestico, senza che ciò comportasse la completa abolizione dei mezzi di contenimento nei casi di “eccessi” e secondo necessità. Il sistema del comune belga ebbe nel corso dell’Ottocento una certa visibilità, tanto da essere utilizzato in Germania e in Inghilterra come modello ispiratore di prassi psichiatriche diverse, meno restrittive della oppressiva reclusione asilare7. La vita tra i campi, il lavoro, l’ambiente domestico, erano gli elementi di una terapia che colpì Esquirol prima e il conte Michelini poi. Quest’ultimo non esitò a presentarla alle autorità della Provincia nei termini di una ricetta assai più efficace «che le cure prodigate in un manicomio»8.
Preso atto della proposta del Conte, così si esprimeva la Deputazione Provinciale:
invocando l’autorità dei dottori Bonacossa e Biffi, e gli esempi delle Nazioni straniere ci consiglia a risparmiare una grave spesa per l’impianto del manicomio Provinciale e tentare il sistema della colonizzazione dei pazzi. Il lavoro, la libertà nei campi, assai meglio che le cure prodigate in un manicomio, giovano al ben essere di questi infelici. Le guarigioni ottenute essere una prova non dubbia della bontà del nuovo sistema: non doversi disperare della proposta, sebbene offra le sue difficoltà quando si vede sostenuta dal parere di medici valenti, quando si vede in atto tradotta in civili paesi9.
La radicale proposta del conte metteva in discussione l’idea stessa dell’impianto manicomiale e testimoniava il valore riconosciuto alla fine dell’Ottocento all’esperienza di Geel, a tutti gli effetti un modello alternativo a quello reclusivo. A Michelini, la Deputazione provinciale rispose con un tono di circostanza che non negava il valore morale della proposta, ma la riteneva nei fatti assolutamente inattuabile, infatti bisognava riconoscere che per alcuni malati era necessario «applicare i metodi di coercizione»10. Insomma l’Amministrazione provinciale, soprattutto per bocca del medico Parola, pur riconoscendo la bontà delle intenzioni del Conte Michelini e il valore dell’auspicabile disegno da lui prospettato, faceva presente che allo stato delle cose le misure erano inattuabili. Al di là di ciò era degno di nota che nella società dell’epoca, almeno in alcuni settori più progressisti, la reclusione manicomiale venisse identificata nei termini di un illegittimo sequestro della persona, tali posizioni restavano però minoritarie, mentre si continuava a ritenere di dover risolvere la questione degli alienati attraverso l’internamento manicomiale, in accordo con celebri alienisti del calibro di Andrea Verga, secondo il quale il manicomio era il «rimedio per eccellenza della pazzia»11.
Geel restava però un’utopia potente, in grado di catalizzare l’interesse di quanti non si riconoscevano nell’orizzonte manicomiale e sostenevano modelli alternativi all’internamento. A tale esperienza, finalmente, è dedicato l’importante studio di Renzo Villa12, studioso e autore di libri sull’antropologia criminale, storia della medicina, saggi sulla cultura figurativa e l’iconografia nel mondo fiammingo, che ricostruisce il ruolo di Geel nella storia della psichiatria, ma anche il valore sociale, culturale ed economico di una realtà che dall’accoglienza dei malati di mente, a metà Ottocento, riusciva a trarre 180.000 franchi13. Basti pensare che tra i primi anni Sessanta dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Geel venne visitata da 403 europei, 54 nordamericani, 31 sudamericani e 18 asiatici. Dunque, prima che il paradigma manicomiale dilagasse, di fatto risultando il dispositivo di elezione per il trattamento della malattia mentale, esistevano delle alternative, in parte tenute in considerazione anche in Italia. I tentativi minoritari dell’affido familiare, delle colonie agricole e la costituzione di società di patronato per l’assistenza dei malati non pericolosi, lo attestavano ed erano in termini più o meno espliciti debitori dell’esperienza belga. La specificità di Geel affondava le radici nella leggenda della principessa Dimpna, che per sottrarsi al desiderio incestuoso del re d’Irlanda, suo padre, dapprima fuggì e poi terminò la propria esistenza col martirio. Le reliquie dell’eroina giunsero a Geel che divenne luogo di pellegrinaggio e culto dell’eroina. I malati giungevano per implorare la stessa forza della santa nel resistere e combattere il male. Da qui si sviluppò una tradizione di accoglienza eterofamiliare di alienati e persone affette da ritardo mentale, in cambio di un sostegno nelle attività lavorative e di un contributo economico. Una prassi che contrastava con la progressiva istituzionalizzazione della follia, così come si era andata delineando dopo la rivoluzione francese. Il racconto, probabilmente sorto retrospettivamente proprio per spiegare la presenza dei malati di mente e l’inserimento nella comunità, doveva dare senso a una prassi che era in contrasto con il paradigma che si stava affermando e con quanto stabilito dalla scienza psichiatrica del tempo.
Ma in cosa consisteva lo “scandalo” di Geel? Innanzitutto nel rappresentare un sistema alternativo a quello sostenuto prevalentemente dalla scienza dell’epoca e che, presto, dimostrò la sua scarsa efficacia14. Nella cittadina belga i malati non soltanto non venivano reclusi, ma partecipavano alla vita comunitaria, lavorando ma anche godendo di spazi di autonomia e intimità. Tutto ciò non provocò, se non in termini percentualmente non rilevanti15 , quelle situazioni di pericolo e di incidenti tanto temuti, come dimostrava il rifiuto apposto dagli amministratori cuneesi alla proposta del conte Michelini. Il celebre caso del borgomastro, ucciso nel 1844 da un alienato, rappresentava in tal senso un’eccezione e in generale il clima a Geel era pacifico e le famiglie dimostravano di saper gestire le crisi dei malati. Centrale in tal senso, come sottolineato da Villa, il ruolo svolto dalle donne, in grado di coordinare le attività e favorire la cooperazione. A beneficiare della situazione, così, non erano soltanto i malati meno gravi, ma anche quelli considerati più difficili e socialmente pericolosi. Le relazioni sociali e le dinamiche affettive che si sviluppavano nella quotidianità erano dunque decisive e mostravano implicitamente il fallimento delle politiche di isolamento previste dal modello asilare16. Anche l’importanza riconosciuta al lavoro risultava centrale, non soltanto per la crescita affettiva del malato, ma anche per lo sviluppo delle competenze e il percorso di progressiva crescita dell’alienato.
Lo studio di Villa, articolato in 10 capitoli e una premessa, è originale non soltanto per il tema indagato, ma anche per la postura metodologica adottata che è interdisciplinare e fa uso degli strumenti storici, ma anche di quelli della filologia e della storia dell’arte. I primi tre capitoli trattano della novità rappresentata da Geel e del mito attraverso cui è stata spiegata la sua origine. Nel quinto e nel sesto viene illustrata la scoperta da parte della psichiatria e l’alternativa rappresentata nei confronti del modello asilare. Nei capitoli sette e otto il modello viene contestualizzato in relazione ad alcuni casi, tra cui quello francese di Dun-Sur-Auron, colonia familiare femminile, e Ainay-le-Château, colonia maschile distante una trentina di chilometri dal villaggio destinato alle malate17. Negli ultimi due capitoli viene indagata la situazione novecentesca, dall’apogeo alla crisi, anche in relazione a pratiche come quella dell’assistenza eterofamiliare che molto devono a Geel. E proprio la situazione novecentesca mostra la vitalità di un modello di assistenza psichiatrica differenziata, in grado di valorizzare la diversità, rifiutando sia la stigmatizzazione, sia l’indifferenza della marginalizzazione18. Geel nel 1938 accoglie 3.736 malati psichici, su una popolazione di circa 17.000 abitanti. E ancora alla fine della seconda guerra mondiale i malati sono 2.600, nonostante le privazioni e le difficoltà del conflitto19. Proprio l’occupazione tedesca rappresentò «il più profondo trauma collettivo nella vita di Geel»20: i viveri erano razionati, i tessuti sempre più cari, il carbone insufficiente per affrontare i rigidi inverni degli anni Quaranta. Aumentò la mortalità stagionale, si moltiplicarono i casi di tubercolosi e si diffusero le malattie infettive. I contributi provenienti da istituzioni e comuni non venivano più versati regolarmente e molte famiglie non riuscivano a mantenere gli ospiti, che vennero condotti in ospedale. Gli occupanti ridussero progressivamente le libertà concesse ai malati, che potevano muoversi solo parzialmente. Peggiore era la situazione del centinaio di ricoverati di origine ebraica, sottoposti a rigide procedure di controllo e registrati, ma che in parte riuscirono a scampare la deportazione, come ricostruito da Villa.
La cesura posta dal conflitto segna l’inizio di un inarrestabile declino per Geel: diminuiscono gli affidi, cresce la diffidenza degli psichiatri verso una forma di accoglienza che appare arcaica e inutile, senza reali sbocchi terapeutici21. Ma è soprattutto la modernizzazione della seconda metà del Novecento a modificare gli assetti familiari, le abitudini sociali e culturali, contribuendo alla fine di un’esperienza plurisecolare, almeno come prassi collettiva. In un contesto di rapide trasformazioni, segnate dall’avvento della rivoluzione anti-psichiatrica, il modello di Geel persiste come traccia residuale di un passato in grado di sviluppare orizzonti inclusivi e altri rispetto all’emarginazione stabilita dal paradigma manicomiale. Proprio in ciò risiede l’importanza di Geel e di una storia che merita di essere studiata.
Notas
1 Cfr. MILAZZO Fabio, Una casa di custodia per maniaci pericolosi. Storia del manicomio di Racconigi dalle origini al fascismo 1909-1919, Cuneo, Primalpe, 2019, p. 24.
2 Archivio della Provincia di Cuneo [APCN], Conto Morale Amministrativo 1878-1879, in Atti del Consiglio Provinciale di Cuneo 1879, p. 51.
3 APCN, Resoconto Morale Amministrativo 1868-1869 della Deputazione Provinciale di Cuneo, in Atti del Consiglio Provinciale di Cuneo, 1869, p. 35
4 Cfr. ESQUIROL Jean-Étienne Dominique, Notizie sul villaggio di Gheel. Del signor Esquirol (lette all’Accademia Reale di Medicina) in Annali universali di medicina compilati dal signor dottore Annibale Omodei, Anno 1822, Vol. XXII, Milano, Paolo Emilio Giusti, 1822, p. 127.
5 Ibidem.
6 Ibidem, p. 128.
7 Cfr. DE PERI, Francesco, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e sapere medico fra Otto e Novecento, in Storia d’Italia, Annali Vol. VII, Malattia e medicina, Torino. Einaudi, 1980, pp. 1104-1112.
8 APCN, Resoconto Morale Amministrativo 1868-1869 della Deputazione Provinciale di Cuneo, in Atti del Consiglio Provinciale di Cuneo 1869, p. 35.
9 Ibidem.
10 Cfr. PAROLA, Luigi, «Sul regime dei mentecatti», in La sentinella delle Alpi, 16 Settembre 1869.
11 Cfr. VERGA, Andrea, «Il manicomio e la famiglia», in Archivio italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni mentali, 1879
12 Tra i suoi studi ricordiamo: VILLA, Renzo, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale in Italia, Milano, Franco Angeli, 1985; ID., Lombroso and his school: from anthropology to medicine and law, in KNEPPER, Paul, YSTEHEDE, Per Jørgen, (eds.), The Cesare Lombroso Handbook, London & New York, Routledge, 2013, pp. 8-29; ID., Perizie psichiatriche e formazione degli stereotipi dei devianti. Note per una ricerca, in DE BERNARDI, Alberto (a cura di), Follia psichiatria e società. Istituzioni manicomiali, scienza psichiatrica e classi sociali nell’Italia moderna e contemporanea, Milano, Franco Angeli, 1982, pp. 384-401.
13 Cfr. VILLA, Renzo, Geel, la città dei matti. L’affidamento familiare dei malati mentali: sette secoli di storia, Roma, Carocci, 2020, pp. 102-103.
14 Ibidem, p. 163.
15 Ibidem, pp. 148-149.
16 Ibidem, p. 176.
17 Sulla diffusione del modello di Geel vedi: MUELLER, Thomas, Community spaces and psychiatric family care in Belgium, France, and Germany book. A comparative study, in MORAN, James, TOPP, Leslie, ANDREWS, Jonathan (eds.), Madness, Architecture and the Built Environment. Psychiatric Spaces in Historical Context, New York, Routledge, 2007, pp. 171-189.
18 Cfr. VILLA, Renzo, Geel, la città dei matti, cit., p. 297.
19 Ibidem, p. 237.
20 Ibidem, p. 249.
21 Ibidem, p. 258.
Resenhista
Fabio Milazzo – (PhD), svolge attività di ricerca presso l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in provincia di Cuneo “D. L. Bianco”, dove è responsabile del Centro Studi per la Storia della Devianza, del Crimine e della Marginalità (Cesdem) e di alcuni progetti di ricerca sulla storia della devianza in Italia. Suoi contributi sono apparsi su volumi e riviste scientifiche, ha inoltre curato La devianza in Italia dall’Unità al fascismo. Discorsi e rappresentazioni (con M. Bernardi, Milano, Biblion, 2022), Storia e psichiatria. Problemi, ricerche, fonti (con G. Mamone, Milano, Biblion, 2019) e scritto l’introduzione alla nuova edizione di Metahistory. Retorica e storia di Hayden White (Milano, Meltemi 2019). È autore di: Il tifo violento in Italia. Teppismo calcistico e ordine pubblico negli stadi (1947-2020) (Milano, Franco Angeli, 2022), Una guerra di nervi Soldati e medici nel manicomio di Racconigi, 1909-1919 (Ospedaletto, Pacini, 2020); Una casa di custodia per maniaci pericolosi. Storia del manicomio di Racconigi dalle origini al fascismo (Cuneo, Primalpe-Istorecn, 2019); Deserti della mente. Psichiatria e combattenti nella guerra di Libia. 1911-1912 (con G. Mamone, Firenze, Le Monnier, 2019). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Milazzo>
Referências desta Resenha
VILLA, Renzo. Geel, la città dei matti. L’affidamento familiare dei malati mentali: sette secoli di storia. Roma: Carocci, 2020. Resenha de: MILAZZO, Fabio. Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, v.52, n.4, p.269-275, 2022. Acessar publicação original [DR/JF]
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