HAMID, Mohsin. Exit West. Torino: Einaudi, 2017. 156p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Il Bollettino di Clio, n.8, p.75-76, dic., 2017.
Una storia d’amore.
“In una città traboccante di rifugiati ma ancora perlopiù in pace, o almeno non del tutto in guerra, un giovane uomo incontrò una giovane donna in un’aula scolastica e non le parlò. Per molti giorni. Lui si chiamava Saeed e lei si chiamava Nadia…”
È l’incipit dell’ultimo romanzo di Mohsin Hamid, lo scrittore pakistano che dopo aver studiato e lavorato molti anni negli USA è tornato a Lahore, dove attualmente vive, muovendosi spesso, tuttavia, tra Londra e New York.
La pubblicazione nel 2007 del suo Il fondamentalista riluttante ci penetrò nelle riflessioni pensierose di un intellettuale di formazione islamica ma in qualche modo integrato nella cultura americana, dopo che l’attentato dell’11 settembre aveva cambiato per sempre il rapporto tra l’Occidente e il Medio Oriente islamico.
Dieci anni dopo questo Exit West vuole introdurci nell’universo della migrazione, di coloro che cercano l’uscita a Ovest.
Come? Raccontando una storia d’amore o, per meglio dire, una normale storia di coppia. La storia di due giovani dei nostri giorni che si conoscono, si amano, si separano, hanno nuovi compagni e nuove compagne. La loro particolarità, però, è quella di essere migranti.
Il racconto di Hamid salta completamente il viaggio. Non gli interessa farci conoscere i viaggi, le traversie, le angherie dei trafficanti, l’alto rischio del trasporto. Possiamo solo immaginarli: alcuni personaggi loschi non meglio descritti aprono ai nostri Saeed e Nadia alcune “porte” dove si può “passare”.
La prima metà del romanzo ci racconta la trasformazione della loro città, dove i giovani studiano, lavorano, si innamorano, ballano, fumano, ascoltano musica, si confrontano con i loro genitori; piano piano tutto questo diventa prima difficile, poi pericoloso, infine impossibile. La città è in guerra. La guerra è arrivata in città.
“Adesso nella città il rapporto con le finestre era cambiato. La finestra era il confine attraverso il quale era più probabile giungesse la morte. Le finestre non costituivano una protezione neanche dai proiettili più fiacchi: qualunque locale con una vista sull’esterno poteva essere preso in mezzo dal fuoco incrociato. Inoltre i vetri di una finestra frantumata da un’esplosione potevano trasformarsi in schegge di granata, e tutti avevano sentito di qualcuno dissanguato dai frammenti di vetro.” (p.46)
Bisogna andarsene. E sarà duro, molto duro, abbandonare la propria casa, i propri affetti. Il padre di Saeed, che aveva accolto Nadia come una figlia, decide di restare. Lui non ce la fa, ma forza i due ragazzi ad andar via, a “passare la porta”
“In quei giorni si diceva che il passaggio era un po’ come una morte e un po’ come una nascita, e in effetti Nadia provò una sensazione di annientamento mentre entrava nell’oscurità e lottò furiosamente per respirare mentre cercava di uscirne, ed era infreddolita, contusa e bagnata quando si ritrovò distesa sul pavimento della stanza dall’altra parte, tremava e sulle prime era così spossata che non riusciva ad alzarsi, e pensò, mentre boccheggiava per riempirsi i polmoni d’aria, che quella sensazione di bagnato doveva essere il suo sudore.” (p. 67)
Saeed e Nadia nascono di nuovo. E crescono tra campi profughi e “porte” e “passaggi” che conducono ad altri campi, altri luoghi, altra gente, in cui “tutti erano stranieri, e quindi in un certo senso nessuno lo era”.
La grandezza di Mohsin Hamid sta qui. Nella seconda metà del romanzo riesce a darci conto dell’odissea di persone normali costrette a fuggire, a “migrare”, da un campo profughi ad un altro. Ci racconta con brevi ma efficacissimi tratti la vita del campo che “ricordava per certi versi una stazione commerciale dei vecchi tempi della corsa all’oro, e vi si vendevano o si scambiavano molte cose, dalle maglie pesanti ai telefoni agli antibiotici a sesso e droghe sottobanco…”. Non solo. In altre occasioni Hamid ci ricorda che “c’erano volontari che distribuivano cibo e medicine, ed enti assistenziali all’opera”. Insomma, quella di Saeed e di Nadia somiglia molto a un’Odissea senza un’Itaca, un posto dove fermarsi per vivere la propria vita. Ma quella di Saeed e Nadia somiglia maledettamente anche all’odissea di ciascuno di noi, perché nell’era della globalizzazione “si stavano aprendo tutte quelle porte da chissà dove, e arrivava ogni sorta di strana gente…”.
Insomma il romanzo dei migranti è, in fondo, al netto di tutte le sofferenze e i patimenti dei trasferimenti sui barconi e sui sentieri di montagna, il romanzo della vita giacché “…tutti emigriamo anche se restiamo nella stessa casa per tutta la vita, perché non possiamo evitarlo.
Siamo tutti migranti attraverso il tempo.
Enzo Guanci
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