Decolonizzare il museo. Mostrazioni/pratiche artistiche/sguardi incarnati | Giulia Grechi

In questo volume dal titolo Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incrociati l’autrice Giulia Grechi apre uno squarcio critico riguardo a un tema ancora poco dibattuto, ma di estremo interesse, nel panorama culturale contemporaneo, cioè i possibili rovesciamenti degli assetti coloniali che permeano ancora oggi i musei contemporanei europei e anche quelli di altri continenti1. Il testo si apre con una prefazione di Anna Chiara Cimoli, a cui segue una corposa introduzione scritta dalla stessa autrice. Dall’altra parte il testo si conclude con una galleria di immagini relative alle opere e alle installazioni artistiche citate nei vari capitoli del libro e con una dettagliata bibliografia che accompagna le note e i riferimenti teorici del saggio. Il volume è diviso in tre grandi capitoli che, disposti in una successione logica, rappresentano il naturale sviluppo della riflessione critica proposta dalla studiosa: partendo infatti da una prospettiva storica, l’autrice propone in seguito dei nuovi possibili modelli culturali ispirati da rinnovate forme artistiche che si stanno sviluppando negli ultimi anni e che vengono ormai rappresentate in molti spazi museali contemporanei2.

Nella prima parte, Il museo, nostro specchio colossale, l’autrice offre una retrospettiva storica sul tema, spiegando come tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento le grandi potenze europee, che avevano costruito i più vasti imperi coloniali del mondo, sentirono l’esigenza di affermare e consolidare il loro predominio e la loro supremazia anche in termini di prestigio culturale, e non soltanto politico-militare. Per rendere possibile questo obiettivo, e soprattutto per condividerlo con i loro popoli, si è reso necessario trovare delle strutture di raccolta, organizzazione ed esposizione del sapere fino ad allora conosciuto. Questi paesi, in primo luogo le maggiori potenze coloniali (Gran Bretagna e Francia), e poi a seguire anche molti altri, tra cui l’Italia, individuarono nella costruzione e nell’apertura dei musei etnografici la risposta a questa pressante esigenza. Per questa ragione, in quel determinato periodo storico, si aprirono e diffusero, nelle grandi capitali e nelle piccole città d’Europa, innumerevoli musei etnografici, che avevano lo scopo di raccogliere, conservare ed esporre i reperti e gli oggetti che appartenevano alle popolazioni colonizzate dagli Europei nei diversi continenti. In questo particolare contesto storico e culturale il museo, quindi, come istituzione pubblica, assurse a un ruolo di cruciale importanza nella determinazione dei destini e delle pratiche culturali europee: mostrare in una modalità precisa e calcolata gli oggetti e gli strumenti appartenenti a una determinata civiltà lontana aveva lo scopo di condizionare fortemente la ricezione di questa visione da parte del grande pubblico europeo e, soprattutto, condizionare la successiva riflessione che gli spettatori avrebbero elaborato e interiorizzato una volta terminata la visita e rientrati nella loro quotidianità3.

Questa pratica di esposizione viene definita dall’autrice come «mostrazione»4, indica che l’oggetto esposto viene definito anche e soprattutto in virtù della modalità espositiva scelta per metterlo in mostra. L’esposizione, o meglio la «mostrazione», è l’elemento determinante, quindi, per la stessa identificazione dell’oggetto e del materiale che viene analizzato o preso in considerazione dal curatore e successivamente visto dal pubblico.

Il museo è un prisma con molteplici sfaccettature, è un luogo, cioè, costituito da diverse componenti: la parte visibile è quella di libero accesso per il pubblico, che comunque deve sottostare a orari e regole di prossimità e avvicinamento alle opere che gli vengono imposte e che, solitamente, non può contestare. Poi ci sono degli spazi che nessuno vede o può vedere, per esempio gli archivi e i depositi dove rimangono rinchiusi anche per decenni tutti quei materiali che non trovano spazio nell’esposizione pubblica. Qui, nei luoghi nascosti, si gioca la vera dinamica del potere decisionale: ciò che viene mostrato è oggetto di un attento esame, come ciò che viene scartato e riposto nei luoghi di un oblio collettivo e di una dimenticanza generale, per essere, forse, poi riutilizzato transitoriamente per qualche esposizione temporanea.

Per queste ragioni, gli scopi del museo erano e sono anche oggi molteplici: innanzitutto il museo è un luogo sicuro, o meglio rassicurante, che vuole trasmettere un certo senso di protezione ai propri visitatori; poi nello stesso ambiente museale si voleva costruire un comune senso di cittadinanza, attraverso canoni prestabiliti, nei quali la totalità o quasi del popolo dovesse riconoscersi; infine mediante il dispositivo museale si voleva edificare e trasmettere un determinato tipo di sapere culturale e di conoscenza, anche tramite il condizionamento determinante del potere politico, di allora come di oggi. Come spiega l’autrice, la riflessione riguardante il museo è pienamente inserita in un sistema di produzione del sapere e di veicolazione delle conoscenze che vedeva utilizzati, sempre a cavallo tra il XIX e il XX secolo, anche molti altri strumenti di propaganda, come le esposizioni universali, i freak show, gli zoo umani, che attiravano un pubblico pagante composto da milioni di persone, le quali ogni anno si spostavano compiendo viaggi da un paese all’altro per scoprire, attraverso una lente di ingrandimento fortemente condizionata da vari poteri e meccanismi, le alterità provenienti da continenti lontani che venivano esposte per essere osservate e ammirate. Quegli spazi e quegli eventi hanno contribuito alla costruzione e alla diffusione di un immaginario dell’alterità che ha plasmato il modo in cui la cultura europea vedeva e giudicava le popolazioni colonizzate. Intere generazioni di Europei sono cresciute e si sono formate in questo clima culturale fortemente condizionato dalle pratiche di potere coloniale, improntate al nazionalismo, alla supremazia della cultura europea, al prestigio della civiltà bianca rispetto al mito del selvaggio e del primitivo legato a quasi tutti i popoli colonizzati. Questo processo è riconoscibile sin dalla prima Esposizione Universale del 1851 a Londra, a cui ne seguirono altre decine in tutta Europa, come per esempio quelle di Parigi del 1878 e del 1889, ma anche l’Esposizione Generale Italiana svoltasi a Torino nel 1884.

Il museo etnografico che si sviluppa e si consolida a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento rientra, quindi, perfettamente in questo quadro ben delineato di costruzione e trasmissione del potere coloniale che, veicolato da una pomposa ed efficace propaganda, riuscì a condizionare lo sguardo di milioni di persone in tutta Europa.

Fatta questa premessa storica, l’autrice nel corso del secondo capitolo Dentro lo specchio sostiene l’urgenza di operare un cambiamento epocale nelle pratiche museali. Svelandoci i diversi meccanismi di funzionamento interni alla macchina museale, si evince infatti sempre più pressante la necessità di ripensare il museo come luogo centrale di costruzione di una cittadinanza nuova e più attiva, che rifletta sugli errori commessi nel passato e ragioni su come si possa oggi rileggere storicamente quegli eventi, dando loro un significato rinnovato e che non sia più distorto. Inoltre questa nuova cittadinanza dovrebbe portare a riflettere sulle conseguenze attuali del passato coloniale, come per esempio i fenomeni legati al mondo dell’immigrazione, alle politiche d’accoglienza, alle regole del diritto d’asilo e di concessione della cittadinanza; soprattutto meditare rispetto al binomio vita-morte che permea tutti i confini occidentali sempre più decisamente innalzati, un binomio oggi così spesso posto ai margini e che invece l’arte avrebbe anche il compito di riposizionare al centro del discorso pubblico e amplificare nella riflessione collettiva.

L’impianto che hanno oggi la maggior parte dei musei etnografici europei risale alla loro fondazione, essendo ancora fortemente eurocentrica, in quanto impostato su alcune classiche dicotomie oppositive, come noi-loro, civilizzati-selvaggi, bianco-nero, normalità-alterità. Tutto ciò influisce costantemente, dati i numeri impressionanti di fruizione dei poli museali visitati ogni anno da milioni di persone, nella costruzione degli stereotipi e dei pregiudizi attraverso i quali gli Europei vedono ancora le altre civiltà e le diverse culture.

Lo sviluppo degli studi postcoloniali avvenuto nella seconda metà del Novecento e il notevole peso degli stessi nei primi due decenni del nuovo secolo hanno incrementato la riflessione e le pratiche di decostruzione del sistema di potere coloniale nel suo insieme e, come si sostiene in questo saggio, uno dei campi che necessita di un maggior rinnovamento è proprio quello museale.

Le proposte in questo senso sono molteplici: sostanzialmente, secondo l’autrice, è necessario ripensare al processo di costruzione del museo stesso e a una nuova codificazione delle sue pratiche, come la raccolta, la catalogazione, la classificazione dei reperti e la loro finale esposizione, che spesso nei musei etnografici di inizio secolo scorso era pressoché definitiva e assolutamente statica. Inoltre, soprattutto a livello manageriale, oggi è più che mai necessario prefissarsi rinnovati obiettivi, costruendo nuove forme del sapere. Le linee direzionali sono due e corrono parallele: da una parte ripensare quale potrebbe essere il futuro di tutti i reperti esposti oggi nei musei tentando un loro nuovo riposizionamento più fluido e dinamico, dall’altra parte riflettere sul destino di tutto quel patrimonio sommerso conservato negli archivi che non è mai stato esposto. In questa direzione si inserisce anche la problematica, ormai radicata nel tempo, della restituzione dei reperti sottratti, spesso con la forza e la violenza, alle popolazioni colonizzate. Anche da questo punto di vista si apre un’importante riflessione su quali potrebbero essere le regole e i canoni da rispettare per poter attuare questo ambizioso progetto transnazionale, che si delinea come lungo e complesso e che richiederebbe ingentissime risorse umane, culturali e, non ultimo, economiche. Finora, come spiega l’autrice, questo pensiero è rimasto aleatorio, scritto soltanto sulla carta o reso in qualche dichiarazione politica; di fatto un progetto concreto e a lungo termine non è mai stato iniziato.

Un museo che ha tentato, con un certo successo, di evolversi verso la traiettoria descritta dall’autrice è il Museo Etnografico di Neuchâtel in Svizzera, che già tra il 2002 e il 2003 realizzò l’esposizione temporanea Le Musée Cannibale, incentrata sull’immagine del desiderio cannibalistico di nutrirsi degli altri, la stessa pulsione che in origine portò alla creazione e allo sviluppo dei musei etnografici.

Il secondo binario parallelo al primo, e quello forse anche più stimolante, per poter rivitalizzare il museo è quello ben descritto nella terza e ultima parte del saggio, dal titolo Oltre lo specchio: gettare il corpo nella lotta. È un titolo provocatorio, ma molto significativo; infatti, una prospettiva innovativa potrebbe proprio essere quella di gettare attualmente i nostri corpi pensanti nella lotta della discussione critica, della rivisitazione delle strutture del passato per costruire nuove pratiche artistiche e rinnovare le forme del sapere. Gli strumenti per poter realizzare questo progetto e poter davvero pensare a un cambiamento per il futuro sono l’esposizione, all’interno degli spazi museali, di nuove pratiche artistiche, come le installazioni temporanee, le residenze d’artista, le performance creative, che riesaminino e riflettano criticamente sul passato coloniale e sulle sue eredità culturali che sono stati finora veicolati attraverso narrazioni distorte.

Inoltre, queste nuove installazioni dovrebbero avere lo scopo di far riflettere sulla più stretta attualità, nello specifico sui fenomeni di cronaca che si possono legare al passato coloniale, come per esempio l’immigrazione proveniente da diversi continenti extraeuropei, che comporta, ogni anno, la morte di migliaia di persone lungo i confini dell’Europa. Legare queste morti alle costruzioni culturali del passato, sia dell’Ottocento che del Novecento, è un’operazione necessaria per decostruire gli stereotipi, i pregiudizi, le visioni e soprattutto le paure che gli Europei hanno prima interiorizzato e poi proiettato nel corso dei decenni nei confronti di popoli lontani, dominati attraverso una violenza fisica e culturale, sfruttati economicamente e che ancora oggi condizionano lo sguardo europeo sull’altro e sull’alterità in generale. Attualmente però le pesanti eredità di quelle passate costruzioni si rivolgono verso l’Europa in forme acute e spesso violente, interrogando anche l’arte europea e il sapere eurocentrico in merito all’adozione di certi canoni culturali e alle proprie responsabilità storiche.

Per sostenere ciò, nel corso del volume, soprattutto nel secondo e nel terzo capitolo, l’autrice propone l’analisi di diversi progetti museali realizzati da alcuni artisti internazionali e che si sono sviluppati in molti musei europei. Queste opere vengono analizzate nel corso del testo accostandole anche a una ricca bibliografia che si basa su diversi scritti teorici fondamentali dei maggiori studiosi della postcolonialità, come Homi Bhabha, James Clifford, Édouard Glissant, Stuart Hall, Achille Mbembe, Robert Young e altri5. Tutti questi riferimenti si possono ritrovare nella dettagliata bibliografia conclusiva. Le stesse opere e installazioni artistiche vengono mostrate alla fine del testo attraverso un ricco apparato iconografico a colori.

L’autrice stessa ha potuto sia partecipare concretamente ad alcuni progetti artistici sia visitare delle altre installazioni, fruendo assieme al pubblico dell’opera e della performance messa in atto: per esempio nel testo ricorda come nel 2018 in Italia prese parte all’evento dell’artista Tania El Khouri dal titolo As Far As My Fingertips Take Me, che trattava il tema della scrittura della storia sui corpi degli uomini.

In generale, la descrizione che ne offre è dettagliata e accurata e spinge il lettore a un’analisi approfondita di quelli che sono i meccanismi di costruzione dell’installazione artistica moderna, svelando pure i messaggi comunicativi che l’artista o il collettivo artistico si prefigge di voler trasmettere ai propri fruitori. Le opere esposte non sono più afone, come sono sempre state sin dagli albori dei musei etnografici, bensì ora il soggetto che si vuole rappresentare diventa finalmente visibile agli occhi di chi lo guarda.

Questo, secondo l’autrice, è il tracciato da perseguire per cambiare dall’interno il paradigma museale che ha condizionato per più di un secolo la narrazione della cultura europea. Questa è l’inedita prospettiva, teorica e operativa allo stesso tempo, proposta e sostenuta dalla studiosa in questo suo saggio. Il dibattito su questo tema è estremamente attuale e decisivo per lo sviluppo delle dinamiche culturali degli anni futuri: questo attento e prezioso lavoro di ricerca verte sul pensiero che, attraverso un museo moderno e rinnovato, si potranno codificare nuovi canoni culturali, forse meno discriminanti e più inclusivi, da poter applicare a delle rinnovate pratiche del sapere in generale.


Notas

1 Giulia Grechi è antropologa: nelle sue ricerche si interessa di studi culturali e postcoloniali, di fenomeni migratori e di museologia, mantenendo sempre un focus particolare sulla corporeità, sulle eredità culturali del colonialismo e sulle pratiche artistiche contemporanee che rimettono in discussione questi immaginari. Tra i volumi che ha curato: CHAMBERS, Ian, GRECHI, Giulia, NASH, Mark (ed.), The Ruined Archive, Milano, Politecnico di Milano Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, 2014; GRECHI, Giulia, GRAVANO, Vanessa (a cura di), Presente Imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei, Milano, Mimesis, 2016. Sempre nel 2016 ha pubblicato la sua prima monografia: GRECHI, Giulia, La rappresentazione incorporata. Una etnografia del corpo tra stereotipi coloniali e arte contemporanea, Roma, Bonanno, 2010.

2 Vorrei citare alcuni testi di studiosi che si sono confrontati con lo stesso tema affrontato in questo saggio: AMSELLE, Jean-Loup., Il museo in scena. L’alterità culturale e la sua rappresentazione negli spazi espositivi, Milano, Meltemi, 2017 [ed. orig.: Le musée exposé, Fecamp, Éditions Lignes, 2016]; BODO, Simona, MASCHERONI, Silvia, PANIGADA, Maria Grazia, Un patrimonio di storie. La narrazione nei musei, una risorsa per la cittadinanza culturale, Milano, Mimesis, 2016; CIMOLI, Anna Chiara, Approdi. Musei delle migrazioni in Europa, Bologna, Clueb, 2018; DE ANGELIS, Alessandra, IANNICIELLO, Celeste, ORABONA, Mariangela, QUADRARO, Michaela (eds.), The Postcolonial Museum: the arts of memory and the pressures of history, Farnham Surrey, Ashgate, 2013; REES LEAHY, Helen, Museum Bodies. The politics and practices of visiting and viewing, Farnham Surrey, Ashgate, 2012.

3 Giulia Grechi ritaglia uno spazio al contesto italiano. Nella teoria e nella prassi si ripeté lo stesso schema culturale e di trasmissione del potere che si determinò negli altri paesi europei: anche in Italia, infatti, vennero organizzate periodiche esposizioni coloniali, tour itineranti degli zoo umani e freak show. Si giunse nel 1923 all’apertura a Roma del primo museo coloniale italiano, che assunse la stessa funzione dei musei etnografici europei. Tale museo, trasferito nel 1935 in una nuova sede che si trovava confinata entro il tracciato del giardino zoologico della capitale, rimase in attività a fasi alterne prima e dopo la Seconda guerra mondiale, fino ad essere definitivamente chiuso nel 1971. La chiusura della struttura pose in liquidazione anche tutto il materiale raccolto nel corso dei decenni del dominio italiano in Africa. Tale patrimonio venne poi trasferito all’ISIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente), sciolto anch’esso nel 2011, senza essere mai più esposto né valorizzato in alcun modo. Questa concatenazione di eventi che ha portato, di fatto, al nascondimento del patrimonio etnografico contenuto nel più grande museo coloniale italiano è stato, secondo l’autrice, uno dei meccanismi messi in atto nel processo di “repressione”, e non di semplice “rimozione”, della memoria coloniale italiana in Africa. Difatti, con questo termine più marcato, l’autrice vorrebbe sostituire la parola “rimozione”, che di solito viene usata per identificare quel progressivo processo di abbandono e distacco messo in atto dall’opinione pubblica italiana e dalla società in generale nei confronti della colonizzazione dell’Africa. Nel 2017 il destino dei reperti coloniali subì una nuova e inaspettata piega, stavolta positiva: infatti passarono sotto la custodia del Ministero della Cultura (Mibact) che li fece confluire nelle collezioni del Museo delle Civiltà, nel quale è stata di recente creata ed inaugurata un’apposita sezione, chiamata Museo Italo-Africano Ilaria Alpi.

4 GRECHI, Giulia, Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati, Milano, Mimesis, 2021, p. 52.

5 Alcuni importanti riferimenti bibliografici sono i seguenti: BHABHA, Homi, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001 [ed. orig.: The location of culture, London, Routledge, 1994]; CLIFFORD, James, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri, 1993 [ed. orig.: The Predicament of Culture. Twentieth-Century Ethnography, Literature and Art, London, Harvard University Press, 1998]; GLISSANT, Éduard, Poetica della relazione, Macerata, Quodlibet, 2007; HALL, Stuart, Quando è stato il postcoloniale, in CHAMBERS, Iain, CURTI, Lidia (a cura di), La questione postcoloniale. Cieli comuni, orizzonti divisi, 1997, Napoli, Liguori; MBEMBE, Achille, Postcolonialismo, Roma, Meltemi, 2005 [ed. orig.: On the postcolony, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London, 2001]; YOUNG, Robert, Mitologie bianche. La scrittura della storia e l’Occidente, Roma, Meltemi, 2007 [ed. orig.: White mythologies. Writing history and the West, London, Routledge, 2004].


Resenhista

Michele Pandolfo – Dottore di ricerca in Storia: culture e strutture delle aree di frontiera presso l’Università degli Studi di Udine. Inoltre è insegnante abilitato di Italiano L2 e di materie letterarie presso gli Istituti secondari di primo e secondo grado. Le sue ricerche riguardano gli studi storici e antropologici relativi al colonialismo italiano nel Corno d’Africa, con una particolare attenzione alla Somalia. URL: http://www.studistorici.com/progett/autori/#Pandolfo


Referências desta Resenha

GRECHI, Giulia. Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati. Milano: Mimesis, 2021. Resenha de: PANDOLFO, Michele. Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, v.51, n.3, p.122-129, 2022. Acessar publicação original [DR/JF]

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