Posts com a Tag ‘Socialismo’
Navigating Socialist Encounters: Moorings and (Dis)Entanglements between Africa and East Germany during the Cold War | Eric Burton, Anne Dietrich, Immanuel R. Harisch, Marcia C. Schenck
A consolidação da História Global como um campo historiográfico, que ganhou força a partir dos anos 2000, esteve relacionada a intensos debates sobre ausências e silêncios que o campo parecia perpetuar. Atualmente, é consensual nos estudos africanos que uma escrita da história tendo como base a perspectiva da “virada global” não deu a devida atenção para o lugar que a África ocupou – e ocupa – nas dinâmicas de interconexões e interrelações mundiais que buscavam ser evidenciadas. A esse propósito, como recorda o historiador Andreas Eckert, desde a década de 1950 o senegalês Cheikh Anta Diop, um dos intelectuais africanos mais conhecido e pioneiro na promoção de uma história da África fora de balizas europeias coloniais, tinha como uma de suas principais prerrogativas “reconfigurar o lugar da África no Mundo”.1 Leia Mais
“Chile/ la Rusia de América”. La Revolución Bolchevique y el mundo obrero socialistacomunista chileno (1917-1927) | Santiago Aránguiz Pinto
Desde sus orígenes, la adscripción prosoviética de los partidos comunistas fue uno de los tantos aspectos constitutivos de su impronta. No solo los diferenció de otras organizaciones de izquierda, también fue delimitando el propio campo de los comunismos a lo largo del siglo XX. Tal como lo ha planteado Roberto Pittaluga, la Revolución Rusa motivó, para las izquierdas del mundo, actualizar el debate político e ideológico en torno a la emancipación1. De esta manera, terminó por expresar diversas formas de interpretar la realidad local, marcando así sus partiduras identitarias a principios de esta centuria2. En el caso del comunismo, este influjo fue correlativo a la proliferación de estos partidos y su proceso de constitución como un movimiento internacionalista. Por esta razón, su estudio ha sido una aproximación recurrente en la historiografía para abordar el origen de los partidos comunistas desde una perspectiva preocupada por su dimensión global.
En este campo, el libro “Chile, la Rusia de América” busca contribuir a los esfuerzos que, en los últimos años, han cuestionado las miradas reduccionistas respecto a las articulaciones que la Revolución Rusa y la Unión Soviética (URSS) coadyuvaron en los partidos comunistas3. En ese sentido, conceptos como “impacto” o “influencia” se han puesto en entredicho en la medida que proyectan una lógica de radiación que, en múltiples planos, expresaría la asimetría entre los partidos comunistas y la URSS. Al respecto, Gerardo Leibner nos recuerda que, más que tratarse de autoimposiciones provenientes desde el exterior, estas manifestaciones se entroncaban con experiencias y subjetividades enraizadas en el medio sociocultural nacional4. Así, desde distintas veredas historiográficas, se ha avanzado en complejizar la relación entre lo nacional y lo internacional en el comunismo, integrando en la mirada a los actores y actrices locales y sus contextos. De este modo, el concepto de “recepción” ha cobrado presencia en estos estudios al visibilizar dichos procesos creativos. A mi parecer, si bien el libro trata de inscribirse en este desarrollo, ofrece una mirada que, finalmente, reafirma la unidireccionalidad de estas interacciones, pese a cuestionarla en principio. Leia Mais
Clio nei socialismi reali. Il mestiere di storico nei regimi comunisti dell’Europa orientale | Stefano Santoro e Francesco Zavatti
Francesco Zavatti | Foto: Baldic Worlds
Il lavoro curato da Stefano Santoro e Francesco Zavatti affronta l’arduo compito di ricostruire e analizzare l’uso strumentale della storia e il conseguente rapporto degli storici con i regimi comunisti dell’Europa orientale. La materia è molto complessa poiché riguarda sia l’autonomia di giudizio e il coraggio degli intellettuali di difendere le proprie idee in regimi autoritari, sia gli effetti sui lavori prodotti dagli aspetti più concreti/quotidiani della loro vita e la condivisione da parte di molti di loro dell’ideologia dominante e dell’impostazione data alla ricerca storica.
L’opera si sviluppa lungo un arco di tempo compreso tra l’instaurazione, il consolidamento, la crisi e il crollo dei regimi comunisti e si inserisce nel ristretto campo di studi delle storiografie sul periodo e in quello più ampio della generale valutazione dell’impegno dello storico e della sua incidenza sulla realtà nella quale è inserito. L’ultimo aspetto rende potenzialmente fruibile il volume anche a un pubblico di non specialisti a conoscenza delle vicende successive al secondo conflitto mondiale e poco vicini alle problematiche storiografiche. Tre interventi di Alberto Basciani, Fabio Bettanin e Mark Sandle completano il volume nella sezione Bussole. Leia Mais
US public diplomacy in socialist Yugoslavia 1950-70. Soft culture cold partners | Carla Konta (R)
Carla Konta | Foto: Narod HR |
Dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, un numero crescente di studi ha affrontato il tema delle relazioni internazionali da una prospettiva diversa, non limitata alla dimensione della diplomazia tradizionale, ma diretta ad esaminare aspetti in precedenza trascurati, relativi ad esempio all’uso della cultura come strumento per promuovere l’immagine di un paese all’estero e quindi come risorsa essenziale nell’ambito della politica internazionale. La public diplomacy, insieme al soft power di cui questa rappresenta una delle principali espressioni, è così diventata la protagonista di un ricco filone di ricerche, animato in gran parte dalla storiografia anglosassone. Facendo spesso riferimento ai noti lavori di Joseph Nye, numerosi ricercatori hanno sviluppato su diversi versanti geografici e cronologici il tema del soft power, declinandolo principalmente attraverso la prospettiva della diplomazia culturale o, appunto, della public diplomacy, il cui rapporto con la cultural diplomacy è stato interpretato in modo non sempre univoco [1]. Una parte importante degli studi prodotti si è occupata, prevedibilmente, anche se non in modo esclusivo, del caso statunitense nel periodo della Guerra fredda: a tale proposito, il soft power, la diplomazia culturale e la public diplomacy erano visti come indispensabili risorse a disposizione della superpotenza americana per aumentare la propria influenza all’estero soprattutto in funzione di contenimento e contrasto dell’Unione Sovietica [2].
È in questa cornice che si colloca il volume di Carla Konta, ricercatrice formatasi alle Università di Fiume (Croazia) e Trieste, che ha già dedicato diversi studi in particolare alle relazioni fra Stati Uniti e Jugoslavia socialista, da una prospettiva spesso metapolitica, interessata in special modo alla dimensione culturale e all’interazione di idee e ideologie nella proiezione di una determinata immagine degli USA in Europa [3]. Il filo conduttore del volume, che analizza i rapporti fra Stati Uniti e Jugoslavia dal 1950 al 1970, è il soft power esplicato dalla public diplomacy statunitense nelle sue diverse articolazioni, ma in modo particolare l’azione esercitata dalle due agenzie protagoniste della propaganda culturale americana in Jugoslavia, l’USIA (United States Information Agency), che elaborava le linee strategiche da Washington, e l’USIS (United States Information Service), che operava sul territorio jugoslavo. Il volume fa in parte riferimento al filone di studi, ben rappresentato dalla storica serba Radina Vučetić, relativo al «Coca-Cola Socialism», ovvero alle modalità dell’adozione di alcuni aspetti del consumismo occidentale e in particolare americano nel contesto della Jugoslavia socialista, soprattutto negli anni Sessanta [4].
Il terminus a quo temporale da cui muove l’indagine è l’espulsione della Jugoslavia di Tito dal Cominform nel giugno del 1948 e il conseguente avvicinamento agli Stati Uniti, il cui obiettivo sarà, specialmente nella fase più acuta della Guerra fredda, durante le amministrazioni Truman e Eisenhower, di sostenere la Jugoslavia in funzione antisovietica [5]. Gli Stati Uniti però non si limitarono a supportare il regime di Belgrado dal punto di vista finanziario e militare, ma avviarono un’articolata politica di public diplomacy nel paese socialista, allo scopo di trasmettere una certa immagine dell’occidente filtrato attraverso il prisma dell’american way of life. Non si trattava di un compito semplice, perché la macchina del soft power doveva dimostrare la superiorità del modello americano, rappresentato sostanzialmente dal connubio fra libertà politiche e libertà economiche, senza tuttavia criticare direttamente il modello opposto, quello del socialismo pianificato. Condivisibile è l’impostazione del volume, per cui le attività di public diplomacy, che avevano effettivamente finalità di carattere propagandistico – portate avanti in modo spesso indiretto e allusivo – non possono essere sbrigativamente e superficialmente ridotte ad una manifestazione dell’imperialismo americano. Si trattava piuttosto di un delicato gioco delle parti fondato su un complesso equilibrio, per cui gli Stati Uniti tentavano di fare leva sulla diversità jugoslava e sulla sua peculiare collocazione internazionale per attirare a sé, per mezzo degli strumenti della cultura, la società e parti dell’intelligencija e della classe politica più giovane e aperta alle novità che giungevano d’oltreoceano. D’altra parte, la Jugoslavia accettava le attività americane in quanto aveva bisogno dell’appoggio di Washington e poiché teneva a dimostrare all’occidente le proprie peculiarità – l’autogestione, il «socialismo dal volto umano» –, che la distinguevano dal conformismo filosovietico dei paesi del «socialismo reale».
Tramite un approfondito lavoro di ricerca condotto principalmente negli archivi americani, serbi e croati e basato inoltre su un’ingente mole di documenti diplomatici editi, su una serie di interviste e sulla consultazione di periodici e letteratura specialistica, Carla Konta ricostruisce in modo puntuale e dettagliato l’evoluzione della public diplomacy americana in Jugoslavia, attraverso sei capitoli, più l’introduzione e la conclusione, in cui vengono analizzati tutti gli strumenti impiegati dalla propaganda culturale americana. Fra questi strumenti, gestiti dagli uffici dell’USIS attivi in Jugoslavia, vi erano le biblioteche americane, la distribuzione di riviste quali «Life», «Time», «Newsweek», oltre a riviste di moda – si scopre fra l’altro che degli abbonati alla stampa americana vivevano anche nei piccoli centri di campagna –; inoltre, la diffusione di musica americana (la sound diplomacy), attraverso le trasmissioni radio di Voice of America. L’atteggiamento delle autorità jugoslave era mutevole, per cui pur permettendo l’esplicarsi delle attività culturali americane, a volte si tendeva a stringere le maglie, ad esempio nei momenti di maggiore tensione internazionale, quando più forti erano le pulsioni antioccidentali alimentate dalla propaganda governativa: nel 1953-54 per la questione di Trieste o, successivamente, durante la guerra del Vietnam [6].
Uno dei maggiori pregi del volume di Carla Konta è proprio quello di evidenziare l’ambivalenza del rapporto fra Stati Uniti e Jugoslavia sul piano delle relazioni culturali: se da un lato ad esempio i film e le canzoni americane ebbero un grande successo – Tito stesso amava i film western e apprezzava la musica jazz e rock [7] –, dall’altro le autorità diffidavano di quel crescente successo in ampli strati della popolazione e in modo particolare fra gli studenti e gli intellettuali. L’appeal esercitato dagli Stati Uniti interessava gruppi sociali variegati: ad esempio, le donne che alla fiera americana di Zagabria potevano ammirare gli elettrodomestici di ultima generazione e i supermercati american style o gli studenti che grazie alle borse Fulbright o della Ford Foundation potevano entrare in contatto con gli ambienti più dinamici del mondo culturale e universitario statunitense.
Proprio il fatto che la Jugoslavia fosse una realtà socialista diversa e più aperta rispetto ai regimi comunisti dell’Europa orientale implicava quindi una maggiore possibilità di penetrazione dell’influenza americana – in particolare dal punto di vista culturale –, ma questo fatto a sua volta portava ad alimentare la diffidenza di una parte dei funzionari di partito per un’attività che minacciava di influenzare in senso filo-occidentale e anticomunista particolarmente le giovani generazioni. Tuttavia – sottolinea a ragione l’autrice – nonostante i dibattiti di carattere ideologico che caratterizzavano la parte più ortodossa del partito sull’incompatibilità fra marxismo e consumismo occidentale, era pur vero che proprio il consumismo, cui guardava l’economia di mercato socialista varata in Jugoslavia alla metà degli anni Sessanta, rendeva il modello americano particolarmente interessante agli occhi del regime di Tito. Non a caso, i primi supermarket aperti in Jugoslavia fra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta – la «supermarket revolution» di cui parlava Dennison Rusinow [8] – si ispiravano precisamente a quel modello. Dopotutto, probabilmente fu in gran parte l’adozione dei paradigmi consumisti occidentali e quindi il raggiungimento di un relativo benessere, specialmente se paragonato agli standard di vita medi del «socialismo reale», ad aver consentito alla Jugoslavia di vantare, fra gli anni Sessanta e Settanta, una coesione interetnica che la crisi degli anni Ottanta avrebbe compromesso, dando il via alla dinamica che avrebbe successivamente portato all’implosione degli anni Novanta, lungo le linee di frattura dei contrapposti nazionalismi [9].
I rischi insiti nell’uso della categoria euristica del soft power, fra cui quello di sopravvalutare gli effetti della public diplomacy o della diplomazia culturale sulle realtà cui si rivolgono, sono evidenti [10]; d’altra parte, è necessario tener presente l’osservazione di Joseph Nye, secondo il quale lo scopo del soft power è di creare determinate condizioni che possono essere poi sfruttate sul piano politico, benché i concreti risultati politici delle attività culturali non siano agevolmente quantificabili [11]. Ad esempio, nel volume si evidenzia come molti importanti esponenti della dissidenza jugoslava, riunitisi fra gli anni Sessanta e Settanta intorno alla rivista «Praxis», avessero trascorso soggiorni di studio negli Stati Uniti, entrando così in contatto con pensatori marxisti quali Herbert Marcuse e Howard Parsons, che fra l’altro avevano a loro volta partecipato a un’edizione della scuola estiva organizzata dalla rivista sull’isola dalmata di Curzola [12]. Ma in quale misura questi e altri contatti fra intellettuali jugoslavi ed esponenti della cultura americana possano aver contribuito ad orientare i primi verso il dissenso politico non è dato appurare. Carla Konta dimostra di essere ben consapevole delle cautele epistemologiche indispensabili nel momento in cui ci si accosta a categorie concettuali quali il soft power e la public diplomacy, rendendo anche per questo motivo convincente l’impianto metodologico del suo lavoro, che contribuisce decisamente ad arricchire le nostre conoscenze sulla “diplomazia informale” statunitense nella Jugoslavia socialista.
Notas
1. SCHNEIDER, Cynthia P., «Cultural Diplomacy: Hard to Define, but You’d Know It If You Saw It», in The Brown Journal of World Affairs, XIII, 1/2006, pp. 191-203; GOFF, Patricia M., Cultural Diplomacy, in COOPER, Andrew F., HEINE, Jorge, THAKUR, Ramesh (edited by), The Oxford Handbook of Modern Diplomacy, Oxford, Oxford University Press, 2013, pp. 419-435; MELISSEN, Jan, Public Diplomacy, cit., pp. 436-452.
2. NYE, Joseph S., Soft Power. The Means to Success in World Politics, New York, Public Affairs, 2004; MELISSEN, Jan, The New Public Diplomacy. Soft Power in International Relations, London, Palgrave Macmillan, 2005; GRAHAM, Sarah Ellen, Culture and Propaganda. The Progressive Origins of American Public Diplomacy, 1936-1953, London-New York, Routledge, 2016; HART, Justin, Empire of Ideas. The Origins of Public Diplomacy and the Transformation of US Foreign Policy, Oxford-New York, Oxford University Press, 2013; GIENOW-HECHT, Jessica C.E., DONFRIED, Mark C. (edited by), Searching for a Cultural Diplomacy, New York-Oxford, Berghahn Books, 2010; CUMMINGS, Milton C., Cultural Diplomacy and the United States Government. A Survey, Washington D.C., Centre for Artists and Culture, 2003.
3. Ad esempio: KONTA, Carla, Eleanor Roosevelt in Yugoslavia Between Wedge Strategy and Cold War Internationalism, in FAZZI, Dario, LUSCOMBE, Anya (edited by), Eleanor Roosevelt’s Views on Diplomacy and Democracy. The Global Citizen, London, Palgrave Macmillan, 2020, pp. 65-82; ID., Nice to Meet You, President Tito… Senator Fulbright and the Yugoslav Lesson for Vietnam, in SNYDER, David J., BROGI, Alessandro, SCOTT-SMITH, Giles (edited by), The Legacy of J. William Fulbright: Policy, Power, and Ideology, Lexington, University Press of Kentucky, 2019, pp. 241-260.
4. VUČETIĆ, Radina, Coca-Cola Socialism. Americanization of Yugoslav Culture in the Sixties, Budapest-New York, Central European University Press, 2017 [ed. or.: 2012].
5. LEES, Lorraine M., Keeping Tito Afloat. The United States, Yugoslavia, and the Cold War, University Park (PA), Pennsylvania State University Press, 2005.
6. SLUGA, Glenda, The Problem of Trieste and the Italo-Yugoslav Border. Difference, Identity, and Sovereignty in Twentieth-Century Europe, New York, SUNY Press, 2001; MARK, James, APOR, Péter, VUČETIĆ, Radina, OSEKA, Piotr, «‘We Are with You, Vietnam’: Transnational Solidarities in Socialist Hungary, Poland and Yugoslavia», in Journal of Contemporary History, L, 3/2015, pp. 439-464; VUČETIĆ, Radina, «Yugoslavia, Vietnam War and Antiwar Activism», in Tokovi istorije, 2/2013, pp. 165-180.
7. KONTA, Carla, US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70. Soft culture, cold partners, Manchester, Manchester University Press, 2020, pp. 64, 95.
8. RUSINOW, Dennison, Yugoslavia. Oblique Insights and Observations, essays selected and edited by Gale STOKES, Pittsburgh (PA), University of Pittsburgh Press, 2008, pp. 26-41.
9. LUTHAR, Breda, PUŠNIK, Maruša (edited by), Remembering Utopia: The Culture of Everyday Life in Socialist Yugoslavia, Washington, New Academia Publishing, 2010; PATTERSON, Patrick Hyder, Bought and Sold: Living and Losing the Good Life in Socialist Yugoslavia, Ithaca, Cornell University Press, 2011.
10. Ad esempio si veda KEARN, David W., «The hard truths about soft power», in Journal of Political Power, IV, 1/2011, pp. 65-85.
11. Cit. in KONTA, Carla, US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70, cit., p. 171.
12. Ibidem, pp. 157-158.
Stefano Santoro è ricercatore (RTDb) in Storia dell’Europa Orientale al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste, con abilitazione scientifica nazionale come professore associato. Fra le sue pubblicazioni: L’Italia e l’Europa orientale. Diplomazia culturale e propaganda 1918-1943 (Milano, FrancoAngeli, 2005), Dall’Impero asburgico alla Grande Romania. Il nazionalismo romeno di Transilvania fra Ottocento e Novecento (Milano, FrancoAngeli, 2014); a curato, con F. Zavatti, Clio nei socialismi reali. Il mestiere di storico nei regimi comunisti dell’Europa orientale (Milano, Unicopli, 2020).
KONTA, Carla. US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70. Soft culture, cold partners. Manchester: Manchester University Press, 2020, 193p. Resenha de: SANTORO, Stefano. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.45, n.1, mar. 2021. Acessar publicação original [IF].
This life: secular faith and spiritual freedom | Martin Hägglund
Martin Hägglung | Foto: SSE |
“You realize the sun doesn’t go down It’s just an illusion caused by the world spinning ‘round” — The Flaming Lips, “Do You Realize??” [1]
Why aren’t there life expectancy protests? I asked myself this question often while reading Martin Hägglund’s This Life: Secular Faith and Spiritual Freedom, which begins with an atheistic confrontation with our mortality and builds toward a philosophical argument on behalf of democratic socialism. In some countries, and conspicuously in the United States, where I live, there are powerful correla- tions between wealth inequality and inequality of life expectancy. In some cases, the disparity in life expectancy stretches beyond a decade, equaling thousands of days of life. Writing in the New York Times in April 2020, David Leonhardt and Yaryna Serkez observed, “Rich and poor Americans used to have fairly similar lifespans. Now, however, Americans in the bottom fourth of the income distribu- tion die about 13 years younger on average than those in the top fourth.” [2] Why don’t we see organized political movements that target the link between wealth and longevity and protest the fact that without a strong system of socialized medicine, a healthy bank balance and secure employment are the only means to ensure not longevity—long life is never certain—but treatment for the injuries and diseases that cut life short? Why don’t we protest the fact that the wealthy tend, as a group, to live longer than the rest of us?
One plausible answer is that life expectancy simply lags after food and shelter, not to mention other basic necessities, in most people’s hierarchies of needs. But even when we are fed and housed, length of life might be too abstract a matter to motivate protests. We need a specific threat to our collective health if we are going to rise up. Exemplary threats might include a government failure to clean up environmental contaminants, the closure of a much-needed hospital, or the state cutting aid programs. Longevity itself often seems too inchoate a thing, and perhaps too personal a matter, to rally people around. I suspect that the idea of life expectancy protests just sounds silly. Still, I ask my questions: if this mortal life is so important, why do we not get more collectively animated about the measure of our years and advocate so that each of us can live as long as is healthfully possible? And why isn’t inequality of life expectancy across class differences an issue to march over? To be clear, these are my questions, not Hägglund’s. His interest in mortality is not exactly about lifespan; it is instead about the way our mortality gives us (in his view) a powerful reason to commit ourselves to worldly projects while abandoning religion’s promise of salvation. According to the reli- gious imagination, he argues, mortal life derives its dignity from its relationship with immortal life. Hägglund wants us to instead see the end of life as the only horizon against which our lives can mean anything at all—not despite the vulner- ability, interdependence, and finitude of our lives but because of them. Through a series of engagements with literary, philosophical, and political readings (among them Søren Kierkegaard and Karl Ove Knausgaard, Karl Marx and Martin Luther King Jr.), Hägglund argues that the value of mortality lies in its power to make us choose the specific commitments that will define our temporal lives. In par- ticular, we should commit ourselves to overcoming capitalism, which forces us to sell our time piecemeal and keeps us from achieving the truer democracy we might have if we could make decisions about our own time. Where Hägglund’s insistence on commitment seems strongly influenced by Martin Heidegger, his arguments that mortality ought to lead us to democratic socialism are strongly influenced by Hegel and Marx. This Life is a passionately argued skein woven out of two strands of originally European thought: Existenzphilosophie and Marxism. Hägglund does not detain himself with the matter of those strands’ past conflicts but charges ahead to demonstrate how they might cooperate in the liberation of our personal and collective time.
In this review essay, I want to simultaneously express empathy for Hägglund’s account of mortality, sympathy for his argument on behalf of democratic social- ism, and deep doubts about his presentation of religion as an effort to transcend this world, which I think is historically underinformed, perhaps on purpose. But first I want to note something curious about his idea of “secular faith.” In asking us to treat our mortality itself as the source of revelatory experiences that compel us to reorganize our lives, Hägglund may ask for too much. Certainly, reminders of one’s mortality are a constant feature of life. I write this review essay during the COVID-19 pandemic, which has killed about half a million people worldwide as of late June 2020. The news recalls to us each day our mortal fragility and our literal ability to kill one another by transmitting a lethal virus. Because so many COVID-19 carriers are nonsymptomatic, we may not even know we’re doing it. But the news is still full of reports of people taking stupid risks by socializing in public without wearing masks. Even during less fraught times, it seems surprising that human mortality doesn’t motivate us more than it does. Many people have difficulty getting much Du mußt dein Leben ändern out of everyday reminders of aging, like grey hairs, wrinkles, and the chorus of “Mother’s Little Helper” by The Rolling Stones (“What a drag it is getting old”).[3] This is why I became so intrigued by the idea of life expectancy protests, an entirely counterfactual notion that would involve people organizing collectively in hopes of living a little (or a lot) longer, thus making our mortality into a feature of our politics. Hägglund hopes that entirely secular accounts of mortality, such as the one he offers, can motivate us to make radical change. As Knox Peden points out in a review of This Life, in Hägglund’s view, the question underlying any normative determina- tion we make is, “what should I do with my time?” [4] Hägglund describes himself gazing out at the landscape of his ancestral home in northern Sweden, seagulls flapping against the horizon. “The horizon” is one of Hägglund’s terms for our mortality, too, and the visible horizon is readily recruited as a figure for a limit to life, encompassed by the human gaze in a way that the totality of an individual’s experiences cannot be (200). But horizons are tricky. I borrowed this essay’s epigraph from the song “Do You Realize??” by the band The Flaming Lips; the song is about mortality and the ineluctable passing of life. But as the song sug- gests, human perspectives have their limits. The horizon isn’t really the edge of the world. The sun doesn’t actually go down—“It’s just an illusion caused by the world spinning ‘round.” The fact that life ends may occasionally fill us with a sense of urgency, but mortality can’t tell us what to do. The book opens with an image of the Hägglund family’s house on the Baltic sea: “The dramatic landscape—with its sweeping forests, ragged mountains, and tall cliff formations looming over the sea—is carved out by the descent of the ice from the last glacial period, twelve thousand years ago.” “The rocks under my feet are a reminder of the geological time in which we are but a speck,” Hägglund explains (3). Anyone who is familiar with Heidegger’s interest in landscape and place may feel a certain resonance. From there, Hägglund introduces his book’s core argument on behalf of “secular faith”: “To have secular faith,” he writes, “is to be devoted to a life that will end, to be dedicated to projects that can fail or break down” (5-6). Secular faith is juxtaposed against religious faith because, according to all religions, our finitude is a lack or imperfection that heaven or nirvana will eventually fix. The proper objects of secular faith are the kinds of things that would disappear without our effort: “the object of devotion does not exist independently of those who believe in its importance and who keep it alive through their fidelity” (7). To put this a bit differently, the essence of secular faith is personal commitment to norms and activities that we define and embrace consciously because they serve our needs and purposes. One obvious example is a marriage bond, which is supported by the secular faith of those wedded; another is the current wave of support for democratic socialism in the US, which is mani- fest in the rise of the Democratic Socialists of America after the 2016 presiden- tial election. To our freedom to choose what we embrace through secular faith, Hägglund gives the label “spiritual freedom,” as opposed to the merely natural freedom of animals like seagulls. All we have is secular faith, spiritual freedom, and the time of our lives itself.
“Secular faith” may seem plausible enough as a model for personal commit- ment and a principle on which to lead a life of worldly purpose, but there is a twist: much depends on how much freedom we retain to do anything besides committing ourselves. If Hägglund’s secular faith means that we have a kind of obligation, in the face of our mortality, to the particular style of valuation and commitment that his secular faith implies, then we aren’t fully free at all. And here the tone of Hägglund’s book is worth mentioning. If given only one word to describe it, I would choose “insistent.” He seems to enjoin the reader to embrace his mode of valuation, but I couldn’t help but experience the constant injunctions to involvement, attachment, and engagement as limiting rather than enhancing my spiritual freedom. Drawing energy and interest from worldly pleasures and human connections, as I do, does not make me think that they can be the sum of my freedom. I can, for example, find value in the very ascetic and world-tran- scending projects Hägglund seems to abhor. Or I can find value in things without naming them as substantial commitments worthy of a lofty term like “secular faith.” If I enjoy listening to pop music or baking bread, the way that I enjoy them matters; I like to do them without thinking to myself, “life is too short for this, I ought to be reading Kant.” Not all of our preferences and desires have much to do with the motif of authentic commitment implied by “secular faith,” and it isn’t obvious that activities are better for us when authenticity motivates and organizes them. “In the prison of his days / Teach the free man how to praise,” W. H. Auden wrote in “In Memory of W. B. Yeats,” but we prisoners do more than praise.[5] This is not our failure to commit but rather a sign of our greater emotional range. In a response to This Life, Robert Pippin noted that Hägglund seems to be asking for “a massive transformation of the emotional economy of the human soul.” [6] This is exactly right.
The book is in two parts. The first, which is titled “Secular Faith,” meditates on the implications of the idea of secular faith, in part through close studies of Augustine and Kierkegaard. The second, titled “Spiritual Freedom,” is more primarily concerned with our freedom in the world we share, and it contains an extended reading of Marx, focusing on the idea of human time as the source of all value, and the claim that this idea can set us free. The book concludes with a Hegelian reading of Martin Luther King Jr.’s activism as a form of “secular faith,” surprisingly (and for some, I imagine, offensively) against the grain of King’s self-presentation as a man of God whose activism—indeed, whose social- ism—was an extension of his ministry rather than in conflict with it. It is not so much religion itself that seems to trouble Hägglund as religion as the promise of otherworldly salvation, which he thinks distracts us from worldly engage- ment. In the midst of all this, he seems to argue that even religious faith must, in essence, be secular faith, essentially because we are temporal beings who are incapable of caring for anything (including redemption) that unfolds outside of time.[7] Hägglund’s readings of texts are nuanced and scholarly, and they include stirring meditations on the experience of time, a topic Hägglund has treated in previous works.[8] Especially notable is his examination of Knausgaard’s My Struggle, which he establishes as a response both to Augustine’s Confessions and to Marcel Proust’s In Search of Lost Time. Hägglund’s meditations on the way the fragility of our lives seems to demand care are often quite moving; reading him, I was sometimes reminded of Emmanuel Levinas, a student of Heidegger who constructed an ethics out of the vulnerability of other people.
In the second half of the book, Hägglund—through a prolonged reading of Marx—argues that capitalism is the form of life in which we fail to understand what really matters, which is our time itself. A crisis of value results from this, and the idea of freedom “demands that we overcome the social form of wage labor” (237). However, socialism alone does not resolve the problem because merely changing the way the fruits of our labor are distributed among us cannot resolve that crisis of value; it is democratic socialism that allows us to state our values and work together to understand what norms we should collectively share. That’s the utopian hope beneath This Life. Socialism, for Hägglund, is the eman- cipation of our time, which capitalism forces us to sell off and which religion, as the opiate of the masses, once encouraged us to simply give away. Indeed, Hägglund’s argument could be understood as a logical extension of Marx’s view that all criticism begins with the criticism of religion. Fredric Jameson called Marxism “the collective struggle to wrest a realm of Freedom from a realm of Necessity.”[9] Hägglund seems to hope that we can accomplish something similar, understanding mortality as the ultimate substrate of “Necessity.” Democratic socialism, Hägglund thinks, is the kindest and wisest answer to the brevity of life.
It is over the problem of secular versus religious faith that Hägglund often sacrifices nuance. Hägglund reduces all religious thought and experience to the devaluation of this world in preference of the next one. “To have religious faith,” he writes, “is to disown our secular faith in a fragile form of life” (52). As Peter E. Gordon has pointed out in his own review of This Life, even traditions that seem fixated on overcoming death through the salvation of the soul, such as Christianity, have more complicated histories than this suggests.[10] Christianity incorporates not only God’s incarnation in a mortal body but also the Divine experiencing finitude through the suffering of Christ, Jesus. “Even the eternal,” Gordon writes, “cannot remain unscathed.” The resulting attunement to mortal suffering has inspired many Christians to aid the poor and even to conceive of Christianity as having a special option for the poor. The Vatican contains many treasures, but Latin American liberation theologians like Gustavo Guittiérez have led a movement that speaks of wealth inequality as a systematic sin and calls for the faithful to push against that sin—and all this without rejecting the notion of salvation. Other examples abound in other traditions Buddhism, Islam, and Judaism all have their engaged, worldly activists. That Hägglund ignores this fea- ture of religion cannot be a sign that he is ignorant of it—liberation theology, for example, is quite well known—but perhaps it is simply inconvenient for his argu- ment. Or maybe Hägglund wants something that the history of religion seldom provides: a consistency between philosophical intention and worldly practice, a kind of total authenticity—something Heidegger also praised. For Hägglund, the deeds of religious charities are actions taken in bad faith, especially in light of do-gooders’ failure to abjure the world to come. Did I call Hägglund’s book “insistent”? Another word to describe it would be “devout.”
As Gordon also argues, Hägglund often appears to have elevated death to the status of an ens realissimum in the place of God. This, in turn, suggests that he still operates within the metaphysical structures (if not the content) established by Christianity, just as his tone and his key term “secular faith” suggest. This sheds light on the way the idea of “secular faith” seems to secularize an originally religious style of value-claim. I think this is a line of thought worth developing. Gordon seems to imply that Hägglund, for all his avowed atheism and material- ism, still has a tacit metaphysics, one in which there is still something transcen- dental (death, rather than God) that we grant dominion over our lives. This yields a rather flat picture of our moral universe and of our moral options. Since Hägglund writes as though his truth-claims simply outflank those of the religious, this sim- ply makes his truth-claims the inverse of the claims that religious orthodoxies use against unbelievers. This is secularism as dogmatism, so we are entitled to ask questions. I understand that, in Hägglund’s terms, it is because of death that our time seems to have value. But why should our eventual death be the measure of our actions in this life? Does this mean that those actions are not praiseworthy in and of themselves but are so only because they allow us to pursue our desired ends? I don’t think that Hägglund wants to open the door for a consequentialist morality, in which the value of our actions registers in their effects (he is too attached to the idea of the value of our will for this to be the case), but I found myself alert to the possibility. It’s odd when a tacit metaphysical argument opens the way to a form of consequentialism, but the history of philosophy has contained stranger things.
Hägglund seems to turn an is (our mortality) into something with the force of an ought. Or to reason through it more slowly, our mortality gives us a power- ful incentive to turn our various worldly desires, and especially what Hägglund suggests is our spiritual freedom to pursue them, into oughts. All normative determination, he tells us, should stem from our mortality, from our sense that life is too short. But again, mortality doesn’t tell us what’s right any more than it tells that to the seagulls. Perhaps more importantly, it isn’t clear that we’re at our best when dealing with the vertiginous prospect of our mortality; some clas- sic midlife recommitments are the equivalent of a flashy motorcycle or a poorly chosen affair. And sometimes invocations of mortality are a rhetorical cudgel. Life may be too short for bad coffee, but “life is too short for bad coffee” is still an advertising slogan.
What would life look like under Hägglund’s version of democratic social- ism? Although This Life doesn’t spell this out, it is clear that we would reorga- nize our means of production, and social reproduction, in ways that yield more freedom. It’s thus appropriate that late in the book Hägglund engages in a criti- cal reading of Theodor W. Adorno’s essay “Free Time.” [11] In this essay, Adorno observes that in the developed West, our free time has increased and seems likely to continue increasing; industrialization and technological change are the unnamed but implied lever of change. But Adorno finds free time on its own quite inadequate. He calls it “vacuous.” [12] For Adorno, real freedom isn’t just free time; it’s free time plus the material and social resources to pursue activi- ties that are ends in and of themselves rather than forms of consumer behavior. Real freedom isn’t defined by hobbies, however much I enjoy my bread baking or pop music listening (the former may, in fact, be what Adorno calls a “pseu- do-activity,” a parody of productive behavior).[13] Instead, it involves activities in which we have something personally at stake because in their fulfillment we recognize something of ourselves. At the end of his essay, Adorno claims to detect, in people’s pleasure at free-time entertainments, an element of disbelief or reservation. He hopes that this might be a sign of maturity (Mündigkeit) and the ability to eventually move from free time to freedom. As Pippin puts it, “What we need is not mere free time. In Hegelese that would be mere negative freedom within an insufficiently determinate institutional structure. Rather, we need socially significant and productive (and respected) work, loving rela- tionships and genuine mutuality.” [14] We need time, yes, but it takes more than time and free will to learn to recognize ourselves in our activities and through reciprocal relationships with our activity partners. Indeed, our finitude isn’t jus our mortality but our other personal limitations, and out of those limitations comes our need for other people. Taken to its fullest extension, an account of our interdependence might produce a picture of the human as simply not fully human outside of the polis, a current in philosophy that runs from Aristotle to Hegel and beyond.
Was I right, earlier in this essay, to say that there’s no such thing as a life expectancy protest? Yes and no. As I write this review, one particular political slogan is very much in circulation: “Black Lives Matter.” Although it’s true that people don’t organize politically in order to live longer or make equality of life expectancy their central issue, a concern for life and its fragility have stood behind the protests that have swept the US following the police killing of a Black man named George Floyd on 25 May 2020. The slogan “Black Lives Matter” is explicitly particularist rather than universalist (the universalist version is “All Lives Matter”) for good reason. Black Americans suffer disproportionately from violence, including at the hands of the police; because of the correlations between race and income distribution, they often have shorter life expectancies too. All this demands recognition. Solidarity in support of the struggles of Black Americans isn’t about the length of life, of course; Black Lives Matter isn’t a life expectancy protest. But it certainly involves protesting the unequal degree to which many Black Americans are exposed to violence, and violence is one way to make life itself an unevenly distributed good. This is one of the most remarkable waves of political protest this country has seen in support of Black lives, even as the COVID-19 pandemic rages. One must imagine Hägglund happy.
Notes
- The Flaming Lips, “Do You Realize??” by Wayne Coyne, Steven Drozd, Michael Ivins, and Dave Fridmann, track 9 on Yoshimi Battles the Pink Robots, Warner Brothers, 2002.
- David Leonhardt and Yaryna Serkez, “America Will Struggle After Coronavirus,” New York Times, 10 April 2020.
- The Rolling Stones, “Mother’s Little Helper,” by Mick Jagger and Keith Richards, track 1 on Aftermath, Decca, 1966.
- Knox Peden, “Philosophy in Troublous Times,” Sydney Review of Books, 26 May 2020.
- W. H. Auden, “In Memory of W. B. Yeats,” in The Norton Anthology of English Literature, ed. M. H. Abrams, 6th ed. (New York: W. W. Norton and Company, 1993), 2:2269.
- Robert Pippin and Martin Hägglund, “Limited Time: Robert Pippin and Martin Hägglund on This Life,” The Point, 22 May 2019.
- See Peden, “Philosophy in Troublous Times,”
- See, for instance, Martin Hägglund, Dying for Time: Proust, Woolf, Nabokov (Cambridge, MA: Harvard University Press, 2012).
- Fredric Jameson, The Political Unconscious: Narrative as a Socially Symbolic Act (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1981), 19.
- Peter E. Gordon, “Either This World or the Next,” The Nation, 23 September 2019.
- Theodor W. Adorno, “Free Time,” in The Culture Industry: Selected Essays on Mass Culture, ed. J. M. Bernstein (London: Routledge, 2001), 187-97.
- Ibid., 191.
- Ibid., 194.
- Pippin and Hägglund, “Limited Time.”
Benjamin Aldes Wurgaft – Cambridge, Massachusetts.
HÄGGLUND, Martin. This life: secular faith and spiritual freedom. New York: Pantheon, 2019. 464.p. Resenhado por: WURGAFT, Benjamin Aldes. Seagulls! On MartinHägglund’s This life: secular faith and spiritual freedom. History and Theory, v.60, n. 1, p.177-184, mar. 2021. Acessar publicação original [IF].
Éramos iglesia… en medio del Pueblo: El legado de los Cristianos por el Socialismo en Chile 1971 – 1973 | Michael Ramminger
Próximo de completar 50 anos em setembro de 2020, o processo de transição do capitalismo ao socialismo no Chile, proposto pela Unidad Popular (UP) de Salvador Allende Gossens, recebe mais uma contribuição teórica. A obra de Michael Ramminger – publicada originalmente em alemão sob o título “…Wir waren Kirche … inmitten der Armen: Das Vermächtnis der Christen für den Sozialismus in Chile von 1971-1973” – oferece um aporte significativo para a compreensão do desenvolvimento do catolicismo de esquerda chileno nos anos 1960 e 1970.
O autor busca reconstituir a experiência histórica dos Cristianos por el Socialismo (CpS) por meio de diversos temas que permearam seu curto período de atuação, oficialmente entre setembro de 1971 a setembro de 1973. Seu propósito é o de “devolver a atualidade da história dos Cristãos pelo Socialismo” (2019, p. 13), pois em sua interpretação, ao retomarem o tema, os pesquisadores à direita do espectro político e a Igreja Católica escrevem uma história a partir de seu próprio interesse, em geral, de deslegitimação do movimento. O empreendimento do autor vai na contramão dessa perspectiva: além de examinar as cartas circulares e as declarações públicas, Ramminger, utiliza a metodologia da História Oral, para retomar a história dos CpS com a análise das narrativas da base, a partir da entrevista com ex-membros e simpatizantes do movimento. Leia Mais
Éramos iglesia…en medio del pueblo. El legado de los Cristianos por el Socialismo (1971-1973) | Michael Ramminger
Michael Ramminger, teólogo del instituto de Teología y Política en Munster, Alemania, mezcla en el presente libro dos intereses ya manifestados en investigaciones previas, el estudio histórico del cristianismo rebelde y el interés por el Tercer Mundo. En este caso, se adentra en un análisis crítico y extenso acerca del grupo de los Cristianos por el Socialismo (CPS). De entrada, hay que reconocer que la obra de Ramminger es un aporte para la comprensión de una parte de la historia de Chile, desde una perspectiva política y social. Entrega luces sobre un movimiento nacido en el Chile de la Unidad Popular (UP) que, si bien era minoritario, no era marginal dentro del mundo eclesiástico. El autor hace un largo barrido por la historia del siglo XX profundo chileno e incluso se remonta hasta 1925 para hallar los antecedentes de los Cristianos por el Socialismo en Chile. Junto a esto, el autor propone, por un lado, que el grupo encuentra sus raíces en otros dos procesos, en el nacimiento del cristianismo social chileno en los ’50 y, por otro, en los esfuerzos reformadores de la Iglesia Católica Romana y la nueva teología de liberación. Para el alemán, el grupo está ubicado en la avanzada de esta teología rebelde. Como postulado central el autor plantea que los CPS no alcanzaron ni desarrollaron una eclesiología propia, no obstante, en la práctica sí esbozaron una nueva forma de entender el cristianismo. A pesar de esto, el autor señala que no fracasaron por este motivo, sino porque la jerarquía católica no renunció a su eclesiología imperial y por la ejecución del golpe de 1973. Leia Mais
7 Ensayos sobre socialismo y nación (incursiones mariateguianas) | Diego Giller
Las conmemoraciones suelen ser ocasiones propicias para reconfirmar ciertas adhesiones y dar nuevo impulso a compromisos políticoafectivos. Estas fechas, cuando se enlazan a un nombre propio, a la obra de un pensador, se convierten, además, en oportunidades para recrear su herencia, reactualizar un legado o resignificar la tradición que lo alberga. Los tres gestos convergen en la reciente publicación llevada a cabo por Diego Giller quien, bajo el título de 7 Ensayos sobre socialismo y nación, conmemora los 90 años transcurridos desde la primera publicación de uno de los pocos libros concebidos como tales por José Carlos Mariátegui, 7 Ensayos de interpretación sobre la realidad peruana (1928). La variación en el título es uno de los tantos guiños que el autor nos hace, a nosotros, sus lectores. El libro se compone de siete ensayos, cuatro de ellos del propio Mariátegui, de los cuales dos aparecieron en 1924, el primero en la compilación Peruanicemos al Perú, y el segundo en Temas de nuestra América. Los dos restantes se encuentran, uno, en 7 Ensayos… (1928) y otro, en Ideología y política, libro póstumo que reúne distintas intervenciones del pensador peruano además de ésta fechada en 1929. Los otros tres ensayos que suman siete, corresponden a figuras emblemáticas de nuestro acervo intelectual: René Zavaleta Mercado, Oscar Terán y José María Aricó. El artículo de René Zavaleta representa una gran novedad, pues habiendo sido hallado por Giller en la biblioteca Aricó de Córdoba fue cedido a la editorial boliviana Plural quienes, a su vez, autorizaron su inclusión en el presente volumen. El libro se completa y abre con un muy documentado “Estudio preliminar” a cargo de su compilador. Esta introducción es una invitación amorosa –e inteligente– a la vida y obra de José Carlos Mariátegui. En ella, Giller, nos recuerda los obstáculos que el amauta debió sortear en su intensa y breve existencia. Desde su exilio en Italia, pasando por sus dolencias físicas, hasta las persecuciones sufridas y el encarcelamiento a su regreso a Perú. Ninguno de estos avatares, no obstante, opuso la fuerza suficiente como para disuadirlo de realizar gran parte de su proyecto político intelectual. En efecto, hacia 1926 funda la casa editorial Amauta, en ese mismo año se une a la Alianza Popular Revolucionaria Americana (APRA) comandada por Haya de La Torre con quien rompería hacia1928 para participar de manera activa en la creación del Partido Socialista Peruano (PSP). Como señala Diego Giller, la resistencia a cambiar el nombre de este flamante partido por Partido Comunista, junto a las provocativas tesis mariateguianas sobre la articulación entre realidad nacional peruana y “un socialismo que debe partir del reconocimiento del comunismo incaico” (p. 14), le valieron la enemistad con la Internacional Comunista. Estas circunstancias, entre otras, contribuyen a explicar tanto su voluntad de radicarse en Buenos Aires –interrumpida por el temprano final que encontró su vida–, como el penoso proceso de “‘desmariateguización’ de la izquierda peruana” (p. 17) que siguió a su muerte. Un proceso que implicó el re bautismo del PSP por Partido Comunista Peruano, el cierre de Amauta, y la no reedición de sus obras por varias décadas. La exhumación de su pensamiento se realizó al compás de las inflexiones de la historia. Así, como nos narra Giller en las primeras páginas del libro, una de las primeras reediciones de los 7 Ensayos…coincide con la “crisis del estalinismo” del año 1956; la publicación de su obra completa tiene lugar en Perú, pocos años después de la Revolución Cubana; en vísperas del mayo francés se traduce a aquella lengua los 7 Ensayos; por esa misma época y al calor del gobierno de Velazco Alvarado y Sendero luminoso, su obra es reivindicada en su tierra natal. Y así podríamos continuar, glosando el detallado periplo de estas interpretaciones sobre la realidad peruana. De todo este relevamiento, una fecha en particular se vuelve, para nosotros y para el libro que estamos reseñando, significativa: 1978. Año del 50 aniversario de los 7 Ensayos y, otra vez, ocasión privilegiada para la actualización de un legado. Los nombres del argentino José María Aricó y los peruanos Aníbal Quijano y Flores Galindo, así, en ese orden –en virtud de un criterio cronológico que señala la aparición de distintas obras dedicadas a Mariátegui–, serán fundamentales. Como no podía ser de otro modo, este redescubrimiento se realizará también al compás de otra inflexión histórica, esta vez, menos feliz que la de las revoluciones de la década del ‘60: la derrota del movimiento nacional popular en América Latina. “Es el tiempo del reflujo,” –señala Giller– “los exilios, la crítica de las estrategias foquistas y la lucha armada, la ‘crisis del marxismo’ y la emergencia del eurocomunismo” (p. 20). Este paisaje alojará parte de la obra de este pensador heterodoxo, bajo una clave singular de lectura: el problema de la nación y su articulación con el socialismo y el indigenismo. Una cuestión no del todo elaborada por la tradición del marxismo, una pregunta poco atendida sino subestimada por los referentes del comunismo, y un tema, sin duda, clave, en la disputa por la construcción de hegemonía en nuestros países latinoamericanos. Quién mejor, entonces, que un marxista esquivo y moderno para dar oxígeno a un debate pendiente de la izquierda latinoamericana, y quizás, sobre todo, de la izquierda argentina. Como expone Giller con agudeza “ese mismo problema que lo había convertido en un pensador maldito para sus contemporáneos, lo devolvía, a cincuenta años de su muerte, al centro de la escena” (p. 21). Se trata, podemos decir, de un “centro descentrado”, o bien, de un encuentro ocurrido en ocasión de un violento desplazamiento de quienes tomarían la posta –quizás un poco tardía– de Mariátegui: Aricó, Zavaleta y Terán. Los tres exiliados de sus respectivos países por motivos políticos. Los pormenores que informan cada una de estas biografías, los encontrará el lector en los apartados II, III y IV del “Estudio Preliminar”. Allí se ofrece, en la lengua de una sociología de los intelectuales, un semblante de estos militantes pensadores que hicieron escuela y abrieron surcos en la tradición de los estudios del marxismo latinoamericano. En esas páginas nos reencontramos con el imprescindible rol que Aricó desempeñó en la difusión y renovación “del pensamiento marxista en general y del mariateguiano en particular” (p. 21). Una tarea llevada a cabo mediante su inestimable labor en la revista Pasado y Presente (1963-1965), secundada luego por la editorial Cuadernos de Pasado y Presente (1968-1983) y por su función en la filial argentina de Siglo XXI que se extiende desde comienzos de los años ‘70 hasta el golpe cívico-militar de 1976 que lo obliga al exilio mexicano. Será en estas latitudes donde Aricó dará continuidad –por distintas vías– a su labor intelectual y se abocará a la obra de José Carlos Mariátegui. Aunque su incursión en los textos del peruano data de 1959 –según leemos en el texto de Giller– será hacia 1978 en adelante cuando esta vinculación se intensifique. En aquel año reúne un conjunto de artículos en un volumen titulado Mariátegui y los orígenes del marxismo latinoamericano; doce meses después auspiciará la publicación del libro de Robert Paris La formación ideológica de José Carlos Mariátegui. Junto a Terán organizarán un dossier para la revista Buelna sobre la obra del peruano que “ofició como preludio del Coloquio Internacional ‘Mariátegui y la revolución latinoamericana’” (p. 23) realizado en la Universidad de Sinaloa en 1980 y del cual participaron junto a un puñado de intelectuales de renombre. “El Mariátegui de Aricó es el traductor. Es la figura señera para que el marxismo deje de estar en América Latina y pase a ser de América Latina” (p. 28), afirma Giller. Una vez pasado por el tamiz gramsciano, Mariátegui resulta un pensador desprejuiciado, inquieto, preocupado por la unidad nacional y, luego, por la construcción de lo nacional-popular en un movimiento contra-hegemónico y socialista. El espíritu de Aricó es el de redimir a Mariátegui de la violencia de la operación de “ortodoxia” a la que fue sometida su obra. Aricó se da a la tarea de liberar los significados subordinados en ella para que fulgure –afirma– su lección de método y de realismo, “su manera de proceder para que un saber se abriera al mundo de lo concreto y permitiera develarlo” (p. 156). Si Aricó es el responsable de la publicación del libro de Robert Paris, Terán será el encargado de su traducción. Sus reflexiones en torno a la obra del fundador del PSP darán nacimiento al libro Discutir Mariátegui que, escrito y publicado en 1985, tendrá que esperar a 2017 para reeditarse y estar al alcance de los lectores. 7 Ensayos sobre socialismo y nación ofrece uno de sus capítulos “Discutir la Nación”. En él, Terán, luego de visitar algunos pasajes de la vida de Mariátegui, señala los años 1925-1928 como el período de ruptura al interior de su pensamiento y de tematización del “problema de la nación”. Introduce en su planteo una importante distinción: la preocupación de Mariátegui –ausente en su par Argentino Aníbal Ponce– no es la “cuestión nacional”, entendida como la autonomía de las nacionalidades, sino “la cuestión de la nación”, es decir, el enigma de la identidad nacional (p. 121). Un tema acuciante para todos aquellos países asentados “sobre la base de realidades heterogéneas y muchas veces centrífugas” (p. 122). A él lo desvelará el esfuerzo por fusionar intereses populares agrarios con intereses urbanos, la búsqueda de respuestas a demandas indígenas insatisfechas, la caracterización del problema del indio como un problema económico-social antes que político o moral. En medio de estas preocupaciones adquieren relevancia la función del mito soreliano –y su resignificación mariateguiana–, las afinidades entre los desarrollos del peruano y la tradición del populismo ruso, sin descuidar los modos en que su prosa anticipa o es simultánea a las posiciones desplegadas por Mao Zedong. “Decir la nación” será para el Mariátegui de Terán una forma de conjurar el pecado de la conquista replicado por la fallida República. René Zavaleta Mercado completa esta constelación de artículos que dan cuerpo a las incursiones mariateguianas. Intelectual y dirigente político boliviano, compartió junto a tantos otros latinoamericanos, el destino del exilio mexicano, sólo que su condición de exiliado fue más precoz, pues ya en 1964, con la asunción del General René Barrientos, debió dejar Bolivia y emprender otros rumbos (Uruguay primero, Inglaterra después, de nuevo Bolivia, para partir a Chile y terminar en México). La suerte que corre desde entonces es retratada con gran destreza por Diego Giller en las páginas introductorias de este libro. Allí leemos, además: “Como el ‘Perú de Mariátegui’ –la expresión es de Flores Galindo– la Bolivia de Zavaleta también descubre los problemas profundos de la nacionalidad a partir de una derrota bélica” (p. 44). No obstante, no es solo esta circunstancia la que los aproxima, sino que son, sobre todo, las semejanzas socio-históricas de ambos países lo que lleva a Zavaleta a afirmar que “tal vez [Mariátegui] al pensar en su país, pensaba ya en todos nosotros” (p. 96). Esa interpelación de la que se hace eco Zavaleta comprende la pregunta incómoda por la relación siempre contradictoria entre lo universal y lo local condensada en la cuestión de la identidad nacional. La ventaja de Mariátegui está en haber planteado este dilema por fuera de los términos abstractos, en general, tan a la mano. Su osadía radica en disputarle a la oligarquía peruana los sentidos, valores y significados de la nación para reinscribirlos en una gramática estructurada en torno a la “conexión entre lo nacional, lo indígena y lo agrario” (p. 103). Hablar la nación, dirá Zavaleta, es hablar el indio, hacer hablar a las mayorías y, hablar, por fin, la cuestión agraria. 7 Ensayos sobre socialismo y nación nos entrega así, en un “juego de espejos”, como propone Giller, tres miradas sobre un mismo objeto que refractan sobre nuestro presente. Tres puntos de vista que, puestos uno al lado de otro, producen un efecto iluminador de gran potencia y valor. Se vuelve a Mariátegui, así, con la intuición de que algo en ese entramado de textos de (y en torno a) un autor derrotado “puede asistirnos” –como quisiéramos junto a Diego Giller– “en la tarea de pensar las urgencias y los peligros de nuestro tiempo, que es también un tiempo de derrota –aunque ninguna derrota, lo sabemos, es definitiva” (p. 53). Leia Mais
Textbooks as Propaganda: Poland under Communist Rule: 1944-1989 – WOJDON (IJRHD)
WOJDON, Joanna. Textbooks as Propaganda: Poland under Communist Rule: 1944-1989. Routledge, 2018. Resenha de: VAJDA, Barnabas. International Journal of Research on History Didactics, n.40, p.265-260, 2019.
How did a Communist political system, the Polish one, deal with primary school textbooks? How did it try to influence teaching and learning through Marxist political messages? How did it deliberately distort the content of all school textbooks in order to make an impact on the minds and thinking of future generations? Joanna Wojdon’s Textbooks as Propaganda. Poland under Communist Rule, 1944- 1989 gives us a thorough and detailed explanation which goes well beyond Poland’s historical experience. Even if her starting point is that ‘schools were supposed to install communist ideology and a positive attitude toward the Soviet Union’ (p. 140), in fact, I am convinced that the lessons we can learn from this book stretch far beyond the post-Communist countries.
Certainly, we have already known many things. In fact, there is no need to prove that communist regimes wanted schools to indoctrinate young people even from the very first grades. And Joanna Wojdon’s book gives us a substantial amount of proof that neither the Polish nor other Eastern European communist regimes even tried to hide their intentions. On the contrary, they openly declared their ideological goals. She rightly touches upon a general rule as an overall context for communist textbooks: ‘The term “doing a textbook” was coined to characterize the flow of many lessons’, i.e.
to follow the book step by step, and she reaches an extremely important conclusion that ‘textbooks, not curricula, were what teachers and pupils actually “did”’ (p. 1).
It has also long been known that Eastern European communist school systems used to have a significant amount of teaching content in textbooks inserted purely for political reasons. Anybody with just the slightest experience form those pre-1989 years could remember the achievements of the Soviet natural sciences and especially space research, the presentation of workers’ achievements of those times – and not only in history textbooks! And this is one of the features that places Joanna Wojdon’s book on the top of our bookshelves, i.e. ‘She explores the ways in which propaganda was incorporated into each school subject, including mathematics, science, physics, chemistry, biology, geography, history, Polish language instructions, foreign language instructions, art education, music, civic education, defense training, physical education, and practical technical training.’ (p. i) Joanna Wojdon has rightly chosen primary textbooks as the source and subject of her research since she reconstructs the universal message of the communist regime aimed at ‘the youngest citizens’ who as the youngest readers are vulnerable and ‘therefore more susceptible to propaganda messages’ (p. 2). The author who is an Associate Professor of History at the University of Wroclaw, Poland, and who follows in the steps of her earlier book The World of Reading Primers: The Image of Reality in Reading Instruction Textbooks of the Soviet Bloc’(2015), nicely explores the most significant ideological strategy of the times, the all-present and omnipotent workers’ perspective which used to be the foundation of mass-oriented communist indoctrination. This one-sided world view, where the imaginative ‘worker’ was the alpha and the omega of all arguments, produced for instance ‘in the history of the Roman Empire the reason for its collapse was reduced to, the characteristics of its social classes and the rebellions of its slaves’ (p. 111).
Since Joanna Wojdon has researched almost all Polish textbooks of the selected time period (from 1944 to 1989), we can be curious to know if there was a special ideological stress in history textbooks? There certainly was. I regard as extremely fascinating how the author explores the great variety of distortions and biases in the books surveyed. Completely distorted topics such as ‘the imperialist First World War’ (p. 111) and the fact that WW I was dealt with from the universal perspective of the constant struggle of the working class rather than from the Polish national(ist) view, perfectly fits into a general pattern typical of most Eastern European communist textbooks. It is no surprise that in these textbooks, often written from the Soviet point of view (p. 118), little attention was paid to Polish national(istic) ideology (p. 114). More precisely, the nationalist layer in the textbooks was intentionally selective. One only needs to look at the fact that while on the one hand the Polish textbook omitted any trends of Russification, on the other hand they massively stress Germanization. But the most interesting discovery by Joanna Wojdon is the constant appearance of pictures of the enemy in communist Poland. It was ‘the Christian church as general, and Jesuits in particular, as exploiters of the workers’ society’ and as stubborn representatives of ‘retrograde conservativism’ (p. 115).
To measure the quality of propaganda is not an easy task, and to research the specific means and methods of propaganda in school textbooks is a huge scientific challenge. Many propaganda tricks are hidden in the language. Selective language (and branding) for national affiliation of some historical personalities was typical. It concerned for instance Charles Darwin as a ‘famous English biologist’, Dmitri Mendeleev as a ‘great Russian chemist’, and Wilhelm C. Roentgen who was left without a nationality (p. 117).
It is even more difficult to spot and identify latent language structures, i.e. deliberate omissions, or as I call them, the ‘structures of silence’. Let us be no naive, language tricks happened on purpose, deliberately and in a systematic way (p. 140). In Polish textbooks researched by Joanna Wojdon there are many well-known omissions, such as the system of Gulags or the Katyn massacre, eastern borders of Poland, as well as dozens of other ‘sensitive’ issues. As the author puts is: ‘The textbooks’ narratives […] did leave out certain historical facts, figures, processes and phenomena’ (p. 108). The same tendency to deliberate omission is true for the imagological apparatus. As a result one would rarely see church buildings as illustrations is many Eastern European textbooks. And I think that all these ‘structures of silence’ contribute to the general amnesia and harmful silence about social and historical problems.
Probably the greatest challenge for any researcher identifying the ideological burden in a history textbook is of a semiotic character, as the author puts it, ‘propaganda motives, topics and techniques intertwined in the text’ (p. 119). In other words, spotting covert messages, and especially those which are hidden not in the text but in the didactical apparatus (questions, tasks, photo captions, etc.) of the textbooks, that make both descriptive text and didactical apparatus almost cognitively indigestible. In this field Joanna Wojdon rightly states that in methodological terms, Polish communist ‘textbooks made clear judgements on everything from the past, and left children with no doubts or ambiguity’ (p. 109). It may sound weird but it is my own experience that the Marxist ideological burden was palpable in the text, nevertheless it is very, very difficult to prove it scientifically. And yet, it was a pre-calculated effect which contradicted the true nature of history as a science because for professional history ‘either – or’ situations, disquieting questions and constant doubts are fundamental. What can we say about a school textbook which entirely switches off critical thinking or multiperspectivity over people and their deeds in the past, and compels a one-sided worldview? No contradictory opinions were allowed (p. 143) in order to change societal opinion en masse, and in order to attempt to change cognitive structures from where divergent thinking is excluded (p. 143).
Since the time period selected by Joanna Wojdon is the era of the Cold War, it is worth asking how did these textbooks handle the superpower rivalry? To what extent did Polish communist textbooks present anti-Western orientation or indoctrination? What about anti- Americanism? As the author states, ‘The world as presented in geography textbooks was thus bipolar, black and white. It was an arena of battle between capitalism and socialism’ (p. 78), and there is no doubt that ridiculous comparisons between the USA and the USSR were present: ‘What monstrous amounts of pollution New York, Chicago and Los Angeles must produce each year!’ versus ‘On the wide and clean streets of Moscow there is much traffic at all hours of the day’ (p. 76). And this leads us to a contemporary question regarding current East-West cultural tensions. Was the Communist ideology in the textbooks intentionally anti-Western? If it was, has it contributed to the tensions that can be observed between current Western and Eastern Europe? Joanna Wojdon’s book is a very valuable contribution to general and international textbook research, reaching well beyond the Polish experience. In fact, she gives us a clear list of typology of the specific means of ideological indoctrination: Marxism, socialism, enemies of the system, presentist interpretations, politechnization, etc. (These are Joanna Wojdon’s expressions from pages 109-110.) I would be curious to know if these are common Eastern European patterns? There are surely subtle similarities that strongly offer themselves for international comparative textbook research. There is evidently much to offer for Eastern European readers, especially for those who are engaged in comparative analysis of history textbooks. Giving just one example: On the level of phraseology, for instance, in Poland the abbreviations ‘Before Christ’ and ‘Anno Domini’ were replaced with ‘before our era’ and ‘of our era’. The same kind of de-Christianized terminology in communist Czechoslovakia used ‘before’ and ‘after our time’. Joanna Wojdon’s typology is surely a useful ‘toolbox’ for coming-soon textbook researchers. Clearly the author is well aware of less of those textbooks research involving Tatyana Tsyrlina-Spady & Alan Stoskopf (2017), Milan Olejník (2017), Karina Korostelina (2009), Ibolya Nagy Szamborovszkyné (2013a, 2013b) and others, who have produced very valuable books and papers on textbook propaganda in the Soviet Union and its political orbit.
Joanna Wojdon’s book ends with a short and poignant Conclusion (p. 140-148) in which she raises one of the most neglected section of textbook research, i.e. ‘the question of the effectiveness of textbook propaganda is most problematic’ (p. 145). For many pupils textbooks are ‘boring’; formal schooling is not omnipotent; and education has never been only limited to schools. What’s more, we know that quite a lot of contemporary teachers did refuse to follow senseless ‘ideological rules’ (p. 147), and this kind of disobedience has had a rather strong impact on many pupils – as it is shown in some rare interview based research materials. If one considers the deep and general social apathy in Soviet bloc countries in the 1970s and 1980s (p. 145) (definitively in Czechoslovakia and Hungary), the failure of overwhelming indoctrination at schools seems to be quite clear.
There might be no doubt that the communist school textbook system, with its no-choice and competition-free textbook regime, all around Eastern Europe, was an integral part of a carefully designed social engineering system. Similar propaganda content and similar patterns ‘can be observed in other countries of the Soviet Bloc’ (p.
143) which leads us to a very contemporary problem: How should we consider those European countries where the state is the major (sometimes exclusive) sponsor of school textbooks; where there is a limited (if not entirely closed) textbook market; and where the teachers’ choice is limited to the one and only available textbook? And I think Joanna Wojdon knows this exactly. For in places she winks at us when she writes that ‘school history is notorious for being used as a tool of indoctrination, not only in Poland and not only under Communism’ (p. 108).
At least one extremely illuminating message of Joanna Wojdon’s book is clear: Democratic school systems have to maintain the power of schools (in fact, teachers) to choose their textbooks because this is the only real and significant professional force in and around schools that can compensate for any ideological push that may occur from time to time.
References
Korostelina, K. (2009) ‘Defining National Identities – The Role of History Education in Russia and Ukraine’, Lecture at Woodrow Wilson Institute, Washington, D.C., 9.02.2009.
Olejník, M. (2017) Establishment of communist regime in Czechoslovakia and an impact upon its education system, Košice: Centrum spoločenských a psychologických vied SAV, Spoočenskovedný ústav Košice.
Szamborovszkyné Nagy, I. (2013a) Oktatáspoitika és történelemtanítás a Szovjetunióban és Ukrajnában. I. rész, Szovjetunió 1945-1991 [Education policy and history teaching in the Soviet Union and Ukraine. Part 1., The Soviet Union 1945-1991], Ungvár: Líra Poligráfcentrum.
Szamborovszkyné, Nagy, I. (2013b) Oktatáspoitika és történelemtanítás a Szovjetunióban és Ukrajnában. II. rész, Ukrajna 1990-2010 [Education policy and history teaching in the Soviet Union and Ukraine. Part 2, Ukraine 1990-2010], Ungvár: Líra Poligráfcentrum.
Tsyrlina-Spady, T. & Stoskopf, A. (2017) ‘Russian History Textbooks in the Putin Era: Heroic Leaders Demand Loyal Citizens’, in: J. Zajda, T. Tsyrlina- Spady & M. Lovornet (eds) Globalisation and Historiography of National Leaders: Globalisation, Comparative Education and Policy Research, Dordrecht: Springer, 15-33.
Barnabas Vajda
[IF]
Do socialismo à democracia: tática e estratégia na Reforma Sanitária Brasileira – DANTAS (TES)
DANTAS, André V. Do socialismo à democracia: tática e estratégia na Reforma Sanitária Brasileira. Rio de Janeiro: Editora Fiocruz, 2017. 319p. Resenha de: MENDES, Áquilas; CARNUT, Leonardo . Decifra-me ou te devoro! Estado, capital e a urgência do debate crítico na Saúde Coletiva. Revista Trabalho, Educação e Saúde, v.16, n.3, Rio de Janeiro, set./dez. 2018.
Em tempos de tantos embates no movimento do capital contemporâneo, sob o comando do capital fictício, e seus reflexos perversos nas políticas sociais, em geral, e na saúde, em particular, promover uma reflexão crítica radical acerca dos rumos do Movimento da Reforma Sanitária Brasileira (MRSB) constitui tarefa intelectual e política fundamental para traçar os desafios da Saúde Coletiva. Essa possibilidade certamente é materializada por meio do livro de André Dantas.
A grande contribuição desse autor refere-se à crítica a respeito da estratégia tomada pela Reforma Sanitária a partir da década de 1990. O movimento perdeu sua radicalidade – reivindicando o socialismo – e tentou assegurar os ganhos obtidos nos anos anteriores, insistindo no pleito da cantilena democrática burguesa (Marx, 2012). Porém, esse movimento optou seguir o caminho institucional do reformismo, defendendo um sistema de proteção social, desvinculado dos ideais antagônicos que o forjaram até a década de 1980.
Sobre esta situação, o trabalho de Dantas nos remete a uma indagação que permanece central na contemporaneidade, essencialmente para todos os que defendem a saúde pública no país: é possível apostar na construção institucional, ou seja, promover reformas no Estado Social, 1 como forma de superação da crise atual na saúde?
Historicamente, a esquerda sanitária veio trilhando apenas a institucionalidade das ‘reformas’ por iludirem-se com a ideia de que o Estado social existente possa estar a serviço da produção do ‘bem comum’ (Correia, 2015). Em nossa percepção, aproximada à visão de André Dantas, um passo promissor na constatação dos limites do Estado é reavivar, na memória da Saúde Coletiva, sua ‘intrincada’ relação com o modo de produção capitalista.
Para entender a dinâmica da crise capitalista e seus efeitos na saúde, consideramos importante, antes de tudo, (re)decifrar a natureza do Estado capitalista. Em última, instância, o Estado constitui expressão de uma sociabilidade determinada, assumindo as relações de poder e de exploração nas condições capitalistas. A assunção disso remete à análise do capital como uma relação social de produção – uma ‘forma social’ – e como a ‘forma política’ (estatal) que se associa a essa dinâmica (Hirsch, 2017). Por isso, desconsiderar que o Estado brasileiro, na medida em que é parte integrante das relações capitalistas de produção e sua consonância com a dinâmica mundial do capital, é um deslize crasso e que pôs em risco toda estratégia e tática delineada pelo Movimento da Reforma Sanitária até hoje.
Trata-se, então, de considerar que a relação Estado/capital é orgânica. Neste sentido, não existe separação (nem relativa, que dirá absoluta!) entre o Estado e o capital. Apoia-se aqui na contribuição do debate alemão da derivação do Estado dos anos 1970 que deduz a ‘forma jurídica/política’ (Estado), ou ‘forma contratual’ das contradições da dinâmica do capital. Esta relação atribui ao Estado sua natureza capitalista, assegurando a troca das mercadorias na sua forma-valor e a própria exploração da força de trabalho (Bonnet e Piva, 2017).
Cabe mencionar, nessa reflexão, principalmente a ilusão do processo atravessado pela Reforma Sanitária, a esfinge que os reformistas subestimaram, que nosso autor Dantas se debruçou de forma profícua e que Pachukanis 2 nos ajuda a desmitificar sua essência.
Dantas inicia seu livro explicitando o argumento de Hirsch em que “a maneira pela qual o Estado age para assegurar a reprodução é determinada, em seu conteúdo, pelo movimento do capital e pelas lutas de classe e, em sua forma, pela sua transposição ao nível do aparelho de Estado” (Hirsch apud Dantas, 2017, p. 20). Desse modo, o raio de manobra da burguesia para promover sacrifícios vem se reduzindo, e daí a dificuldade de manter presente a aposta política em relação ao caráter emancipatório da democracia burguesa. É justamente nesse contexto que Dantas indica a retomada do debate tático-estratégico de classe, essencialmente da classe trabalhadora dos anos 1970 para os dias atuais, tendo como central o processo político construído ao redor do Movimento da Reforma Sanitária, no sentido de avaliar os seus desdobramentos.
A tese central do livro polemiza com o que o autor considera o processo de absolutização da democracia no contexto de luta de classes daquele período, compreendida como ‘valor universal’ (Coutinho, 1979), isto é, aspecto nodal da estratégia sanitária e que serviu para que ela fosse ‘devorada’. Dantas adverte que “tal processo em torno da fetichização da democracia” expressa uma divinização ou, sendo fiel a suas palavras, “a absolutização do Estado na consecução da tática do movimento sanitário pela reforma do sistema de saúde” (p. 24). Nessa perspectiva, Dantas não poupa críticas: “a centralidade que crescentemente ganhou a questão democrática deslocou o verdadeiro debate estratégico em nome do socialismo, uma vez que – fosse para promover a autocrítica da esquerda; fosse para lutar contra a ditatura; fosse, enfim, para lutar pelo socialismo – o caminho a percorrer parecia ser o mesmo” (p. 24).
Na primeira parte do livro, o autor concede especial atenção a um panorama teórico-político sobre o Estado e a questão democrática segundo a tradição marxista. De forma geral, nos mostra como Marx e Engels elaboram sua crítica ao Estado burguês, indicando o descaso da burguesia com a questão democrática conforme o avanço das forças produtivas e a imposição de sua dominação no contexto do acirramento da luta de classes. No âmago dessa disputa, Dantas não deixa de ilustrar na base de discussão do papel do Estado, na tradição marxista na virada do século XIX, o debate sobre mais reforma e menos revolução, capitulado pela social-democracia alemã, resvalando em resquícios sobre o pensamento da esquerda marxista, em geral e da esquerda sanitária, em particular.
No segundo capítulo, Dantas se aproxima do debate brasileiro sobre a questão democrática, em sintonia com a temática da revolução. Nessa discussão, percorre o caminho que vai das principais questões ancoradas nas interpretações da formação social brasileira, acerca das quais havia se construído a Estratégia Democrática Nacional (EDN) à elaboração da Estratégia Democrática-Popular (EDP). É dada ênfase a crítica de Caio Prado Jr., Florestan Fernandes e Carlos Nelson Coutinho à primeira Estratégia e, posteriormente, como esse último autor foi privilegiado pelo Movimento da Reforma Sanitária e influenciado nos esboços da nova estratégia das classes trabalhadoras que viria a ter no Partido dos Trabalhadores (PT) a sua mais forte vocalização.
Entre vários aspectos nessa discussão, Dantas nos possibilita a compreensão de que o MRSB abandonou a crítica importante de Florestan Fernandes à reflexão profunda do papel e da função do Estado capitalista brasileiro. Dantas destaca a ideia-síntese de Florestan em seu clássico, A revolução burguesa , de que “o Estado não só era incontornavelmente de classe, capturado precipuamente pelos interesses imperialistas e de suas burguesias locais” (…) “como atuava de fato como comitê executivo da burguesia, sem espaços para concessões, uma vez que sob um registro dependente” (p. 113).
Por sua vez, o MRSB priorizou o ensaio de 1979 de Carlos Nelson Coutinho, intitulado “A democracia como valor universal”, em que para além de fazer a crítica à estratégia etapista democrática-nacional, possibilitava as linhas gerais do que viria a ser a EDP liderada pelo PT – esquerda democrática – na década de 1980 e a mola-mestra da trajetória priorizada pelo movimento sanitário: o caminho institucional das reformas por dentro do Estado.
Na segunda parte do livro, Dantas explora as características estruturais e o sentido mais geral da Reforma Sanitária, desde sua ação nos anos 1970 até a atualidade. Destaque é dado às lutas travadas no campo da saúde em que tiveram prioridade a atuação pelo enfrentamento setorial em relação à luta mais ampla no âmbito da sociabilidade das relações capitalistas. Daí o autor mencionar a prioridade da estratégia sanitária se fazer muito mais pela via da institucionalidade, por um lado, e por outro, pela reclamação constante da ausência da classe trabalhadora na defesa de sua agenda.
Dantas chama a atenção, nessa parte, para o destacado papel do Centro Brasileiro de Estudos de Saúde (Cebes) e da Associação Brasileira de Saúde Coletiva (Abrasco) – ambas instituições nascidas na década de 1970 – na formulação das concepções e táticas do MRSB. O legado dessas instituições marcou os desafios conjunturais e os posicionamentos estratégicos assumidos pelo movimento. Nesse sentido, Dantas nos lembra, não por coincidência, o famoso documento do Cebes de 1979: “A questão democrática na área da saúde” (p. 182). Assim, o autor nos mostra que, nesse ambiente de ‘programa democrático’, o Estado passa a ser lócus preterido para desempenhar papel decisivo na formulação tático-estratégica que se desenhava no interior do MRSB. Por isso, Dantas insiste na ideia do “empenho dos sanitaristas na tática institucional de ocupação de postos na máquina estatal” (p. 183) nesse período.
Integra, ainda, nesta parte do livro, a importância a respeito da agenda democrática do movimento sanitário, nos anos 1970, por meio da pauta prioritária do Movimento Popular em Saúde (MOPS) e que foi elemento de destaque na 8ª Conferência Nacional de Saúde, na Comissão Nacional da Reforma Sanitária e na Assembleia Nacional Constituinte: a questão da participação social. Essa discussão Dantas desenvolve no capítulo 4, sob a forma de uma indagação provocativa, “Reeducar o Estado?”. O objetivo desse pleito foi o de se enfrentar a herança patrimonialista e clientelista da formação do Estado brasileiro, tendo como diretriz a institucionalização do ‘controle social’ na saúde, por meio dos conselhos de saúde nos três níveis de gestão do SUS. Dantas faz um balanço crítico desse mecanismo de democratização do Estado, evidenciando que o resultado do ‘controle social’, até os dias atuais, se resumiu a um processo altamente institucionalizado, distante da força de luta da classe trabalhadora. O autor chama a atenção para o caráter problemático da atuação desses conselhos.
No quinto e último capítulo, intitulado “Reforma Sanitária, SUS e socialismo: questão de princípios”, Dantas insiste na análise do debate estratégico da Reforma Sanitária, alertando para os riscos de suas formulações estratégicas que, por um lado, valorizavam a democracia burguesa, mas, por outro, se afastavam do reconhecimento do caráter capitalista do Estado. Aqui, o destaque do autor é para o desconhecimento dos fatores limitantes da forma e função dessa estratégia sanitária que acabou reforçando a ideia-síntese, ‘saúde é democracia’ (que até hoje é lema em congressos da Abrasco, por exemplo) e também para o não reconhecimento dos obstáculos de sua realização no interior da lógica do modo de produção capitalista.
Na conclusão, o autor discute alguns aspectos que contribuem para uma reflexão mais geral sobre a crise em que o movimento sanitário se encontra, conjuntamente com a dita ‘esquerda democrática’. Daí o título dessa parte ser extremamente provocador: “Da democracia ao socialismo”. Não resta dúvida, nesta parte, que Dantas reconhece os resultados devastadores que a contraofensiva neoliberal provocou a partir da década de 1990, principalmente contribuindo para o esvaziamento do debate estratégico da esquerda brasileira, mas também não escapa de sua análise a fragilidade dos desafios apontados para a luta por essa ‘esquerda democrática’, especialmente no contexto de pós-participação de seus quadros-chave nos postos de comando do governo federal. Dantas delimita bem sua síntese: “O essencial é o deslocamento que ela promoveu, ou pretendeu promover, da centralidade do socialismo para a centralidade da democracia” (p. 281). Para caminhar no sentido contrário, Dantas nos oferece uma alternativa: “Mais do que nunca é preciso que afirmemos que a democratização burguesa não se constitui como alternativa ao socialismo” (p. 282).
O mais importante para a reflexão acerca dos desafios do movimento sanitário é que Dantas não deixa, em nenhum momento, de articular muito bem a necessidade de um debate estratégico que se apoie firmemente numa crítica ao capital e suas formas de exercício de dominação, mantendo presente o socialismo no discurso e na prática democrática. Sem dúvida, trata-se de um livro essencial para ampliar o horizonte do campo da saúde coletiva e que instiga a autocrítica sem desqualificar o empenho dos sanitaristas na luta política do perverso tempo social em que se encontravam. Contudo, ainda assim, isso não nos exime de repensar as estratégias e táticas sobre o alcance de uma outra sociedade. Portanto, não há como fazer isso sem encarar o Estado como ‘a grande Esfinge’. Se não soubermos decifrá-la politicamente, seremos fatalmente devorados mais uma vez.
Referências
BONNET, Alberto; PIVA, Adrián. Prólogo . In: BONNET, Alberto; PIVA, Adrián. (Compiladores). Estado y capital: el debate alemán sobre la derivación del Estado. Ciudad Autónoma de Buenos Aires: Herramienta, 2017 . [ Links ]
BOSCHETTI, Ivanete. A ssistência social e trabalho no capitalismo. São Paulo: Cortez, 2016 . [ Links ]
CORREIA, Marcus O. G. Por uma crítica imanente sobre os limites das políticas públicas de direitos sociais e o Estado na produção do bem comum no modo de produção capitalista. Saúde e Sociedade , São Paulo, v. 24, n. S1, p. 55-65, 2015 . [ Links ]
COUTINHO, Carlos N. A democracia como valor universal. In: SILVEIRA, Ênio. Encontros com a Civilização Brasileira. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, 1979 . p. 33-47. [ Links ]
HIRSCH, Joachim. Elementos para una teoría materialista del Estado. In: BONNET, A; PIVA, A. (Compiladores). Estado y capital: el debate alemán sobre la derivación del Estado. Ciudad Autónoma de Buenos Aires: Herramienta, 2017 . [ Links ]
KARL, Marx. Crítica ao Programa de Gotha. São Paulo: Boitempo, 2012 . [ Links ]
PACHUKANIS, Évgueni. A teoria geral do direito e o marxismo e ensaios escolhidos (1921-1929). São Paulo: Sundermann, 2017 . [ Links ]
Notas
1 A denominação ‘Estado Social’ se apoia em Boschetti (2016), que busca captar a regulação econômico-social por meio de políticas sociais, atribuindo ao Estado capitalista suas determinações objetivas, explicitando que a incorporação dessas políticas pelo Estado não extrai dele sua característica essencialmente capitalista.
2 Evguiéni B. Pachukanis, jurista soviético, escreveu na década de 1920 seu livro Teoria Geral do Direito e Marxismo, desenvolvendo uma ideia original no interior do pensamento marxista no tocante ao papel do direito e do Estado na sociedade capitalista e pós-capitalista. O autor propõe uma investigação sobre o direito com base no método da obra de maturidade de Marx e que se refere especialmente ao texto de O capital. Para mais informações, ver Pachukanis (2017).
Áquilas Mendes – Universidade de São Paulo , Faculdade de Saúde Pública , São Paulo , SP , Brasil. E-mail: aquilasmendes@gmail.com
Leonardo Carnut – Universidade Federal de São Paulo , Centro de Desenvolvimento de Ensino Superior em Saúde , São Paulo , SP , Brasil. E-mail: leonardo.carnut@gmail.com
[MLPDB]O socialismo de Oswald de Andrade: cultura, política e tensões na modernidade de São Paulo na década de 1930 – CARRERI (RHH)
CARRERI, Marcio Luiz. O socialismo de Oswald de Andrade: cultura, política e tensões na modernidade de São Paulo na década de 1930. Curitiba: CRV, 2017. 164p. Resenha de: SOTANA, Edvaldo. Política e literatura: um estudo sobre Oswald de Andrade. Revista História Hoje, v. 7, nº 13, p. 248-252 – 2018.
O livro intitulado O socialismo de Oswald de Andrade é fruto da tese de doutorado desenvolvida por Marcio Carreri no Programa de Pós-graduação em História da Pontifícia Universidade Católica de São Paulo (PUC-SP). Algumas indagações motivaram a pesquisa do professor do curso de história da Universidade Estadual do Norte do Paraná (Uenp). Dentre elas, destacam-se: “Que contribuição um homem da cultura pode dar para as ideias políticas?” e “É possível situar Oswald de Andrade como um socialista, primeiramente como escritor e também como homem de ação e, fundamentalmente, reconhecer sua contribuição para o pensamento social brasileiro?” (Carreri, 2017, p.16). Leia Mais
Die Idee des Sozialismus: Versuch einer Aktualisierung – HONNETH (K)
HONNETH, A. Die Idee des Sozialismus: Versuch einer Aktualisierung. Berlim: Suhrkamp, 2015. 168 p. Resenha de: CAUX, Luiz Philipe de. Kriterion vol.58 no.137 Belo Horizonte Mayo/Aug. 2017
Referindo-se à sua tentativa de renovação da teoria crítica da sociedade a partir de uma teoria do reconhecimento, os mais precipitados críticos de Axel Honneth costumam caricaturá-lo como um teórico que, em face do sempre crescente enrijecimento das relações sociais de dominação no mundo contemporâneo e da imensa dificuldade de retomar de maneira promissora a sua crítica, prescreve tão somente que deveríamos “nos reconhecer mais”. Ocorre que cada nova obra de Honneth parece jogar mais água no moinho de tais críticos e tornar essa caricatura cada vez mais realista.
Em outubro de 2015, foi publicado pela Suhrkamp seu mais recente opúsculo, “Die Idee des Sozialismus”, uma tentativa, como reza o subtítulo, de atualização da ideia de socialismo, ideia envelhecida, para Honneth, desde o momento em que perdeu o amparo histórico que encontrava nas sociedades ocidentais de economia industrial do século XIX. Honneth esforça-se por mostrar que a ideia é velha, por certo, mas não caduca. Para isso, no entanto, precisa retraçar seus contornos com tal inventividade que, ao cabo, não lhe assusta que poucos dos “partidários” do socialismo estariam prontos para reconhecê-lo em sua nova imagem (p. 163). Mas Honneth não acredita estar desfigurando, mas apenas depurando de contingências históricas e trazendo a ideia a um nível de abstração mais elevado. A expectativa, por paradoxal que pareça, é que, nessa nova forma altamente abstrata e quiçá irreconhecível, a ideia ganhe força motivacional, alcance novamente a “virulência” que teria perdido (p. 20).
O novo livro é admitidamente motivado pela recepção do livro anterior, “O Direito da Liberdade”, recentemente traduzido para o português.1 Numa resposta aos debatedores de um simpósio sobre o livro realizado em Londres em maio de 2014, Honneth relata seu estranhamento em se ver reconhecido, após “O Direito da Liberdade”, não como um hegeliano de esquerda, como entende a si próprio, mas como “um daqueles hegelianos de direita dos quais eu nunca tive problemas em explicitamente me afastar”.2 O livro de 2011, uma atualização bastante direta das “Linhas Fundamentais da Filosofia do Direito” para o mundo contemporâneo, que, contra o espírito hegeliano, trata a tripartição de esferas sociais do livro de Hegel como um esquema formal passível de ser aplicado como que do exterior a uma sociedade incomparavelmente mais complexa, foi recebido por parte da crítica como uma virada de orientação de Honneth em direção a uma perspectiva mais conservadora ou não afinada com os objetivos de uma teoria crítica da sociedade.3 Ao partir da premissa de método (em sua assim chamada reconstrução normativa) de que uma teoria crítica da sociedade precisaria ancorar-se apenas nos valores superiores aos quais a integração social remete sempre já como sua condição de possibilidade, Honneth expôs-se à acusação justa de ter se colocado do ponto de vista da mera reprodução do estado de coisas existente. Assim, o novo opúsculo é escrito em parte como um esclarecimento ou uma tentativa de desvincular-se de tal imagem e de filiar-se a um mais progressista revidierter Sozialismus, um “socialismo revisado”. O primeiro passo será a busca da ideia do socialismo no momento mesmo de seu nascimento, para, num procedimento contraditório que vai à origem para negá-la, desembaraçar a ideia não apenas das distorções que teria vindo a sofrer, mas também já de seus Geburtsfehler, de suas, digamos, malformações congênitas.
A ideia de socialismo nasce, para Honneth, como consequência do mal-estar da impossibilidade da efetivação simultânea dos três ideais da Revolução Francesa tão logo ela se completa. Na medida em que a forma individualista de liberdade da recém-instaurada esfera do mercado capitalista se põe no caminho tanto da efetivação da igualdade material e não apenas jurídico-formal quanto da fraternidade ou da solidariedade, levando ao risco da anomia, à efetiva pauperização e aos consequentes sentimentos de aviltamento, vergonha e injustiça da parte dos trabalhadores e suas famílias, surge o socialismo, ou antes, sua ideia, como uma “reação normativa” (p. 27). Como já espera o leitor a ele familiarizado, Honneth quer enfatizar o caráter moral, e não apenas econômico-utilitário do socialismo. Os primeiros socialistas, os denominados socialistas utópicos (alcunha que Honneth evita), teriam todos concebido a futura forma comum, não privada, da propriedade não como um fim em si, mas como um pressuposto para fins morais já estabelecidos – que poderiam, portanto, ser perseguidos por outros meios por um socialismo revisado. Na medida em que, para os primeiros socialistas, o egoísmo privado instaurado no mercado, fundado por sua vez na propriedade privada dos meios de produção, é fonte da incompatibilidade constatada entre os três princípios da Revolução de 1789, cabe superá-lo numa nova concepção de liberdade, não compreendida mais como a limitação recíproca que permite a mera compatibilização externa das vontades individuais, mas como a complementação mútua e internamente vinculada das vontades, em que a realização das finalidades de um indivíduo é vista por todos como condição para a realização de suas respectivas finalidades. Honneth apenas reencontra, em suma, sua noção de liberdade social como já reconstruída em “O Direito da Liberdade”, noção que ali estrutura as esferas de “eticidade democrática” (a dos “relacionamentos pessoais”, a da “ação numa economia mercado” e a da “formação democrática da vontade”).4 A ideia de socialismo, como grafado na contracapa do livro, seria, de fato e propriamente, a ideia de liberdade social. O primeiro dos erros dos socialistas seria tê-la tentado efetivar apenas em uma das três esferas socialmente diferenciadas na modernidade nas quais ela já estaria inscrita, em detrimento das outras duas. Ela seria, todavia, mais ampla do que os primeiros socialistas teriam percebido. Os três ideais da referida revolução burguesa compatibilizar-se-iam na noção de liberdade social; e o socialismo, que não é senão o movimento cujo objetivo é sua realização, seria, assim, uma “crítica imanente” do capitalismo (p. 33), isto é, no sentido de Honneth: uma busca de realização de suas promessas não cumpridas.
O próximo passo de Honneth é mostrar de que modo o espírito das sociedades industriais do século XIX teria contaminado a ideia central de liberdade social com certas “ficções da ciência” (p. 101), desveladas na era de um dito capitalismo pós-industrial. No entanto, o socialismo cujas características são recusadas por Honneth é, de fato, um “cachorro morto”, para o qual dificilmente se encontrariam defensores, mesmo no mais ortodoxo dos partidos comunistas. Sua refutação não apenas é supérflua, como cumpre na argumentação o papel pouco leal de deixar na penumbra todo o pensamento socialista (ou, mais amplamente, o de inspiração marxiana em geral) que igualmente recusa os pressupostos aduzidos, ou, quando os aceita, oferece justificações razoáveis e não consideradas por Honneth. São três os pressupostos do socialismo na era industrial repelidos por Honneth: a) a centralidade da esfera econômica, a consequente recusa da gramática dos direitos na luta social e o déficit democrático do movimento; b) a vinculação reflexiva da teoria a um portador, o proletariado, cujos interesses objetivos representados são presumidos sem verificação empírica; e c) a concepção determinista de história como um processo regido por leis e para o qual a ação livre humana é indiferente. Não cabe aqui discutir nenhum dos três “descaminhos” do socialismo pintado por Honneth, aliás, correspondente, de fato, a uma concepção outrora existente e que os assumia de modo enfático. O que importa é o que essas três recusas dizem sobre Honneth, pois ele as faz para a cada vez assumir uma posição diametralmente oposta. Em primeiro lugar, ad a) o autor considera absolutamente irrenunciável em quaisquer condições futuras ou imagináveis o recurso ao código do direito, aplicável coercitivamente pelo Estado. Direitos subjetivos são, para Honneth, uma conquista histórica inultrapassável e definitiva, que em nenhuma condição poderá se tornar obsoleta. Em segundo lugar, ad b) Honneth veda-se metodologicamente a imputação de quaisquer interesses objetivos a indivíduos ou grupos sociais; isso significa, por um lado, que apenas devem valer como interesses aqueles verificados empiricamente por declaração do agente e, por outro lado e mais importante, que, por princípio, os agentes não podem estar enganados acerca dos próprios interesses (ou seja, não existem ilusões socialmente necessárias). Por fim, ad c) o processo histórico como pensado por Honneth não é influenciado por tendências materiais, mesmo que fracas; o avanço técnico não condiciona de nenhum modo o desenvolvimento moral. Este último é tomado por um fato, possui autonomia e é impulsionado por sua própria força, uma tendência espontânea interna às próprias relações intersubjetivas pela progressiva eliminação de seus bloqueios e coerções de toda espécie (mesmo que essa tendência histórica afirmada dogmaticamente por Honneth, com ajuda de Dewey (p. 100), carregue um ônus metafísico tanto maior do que aquela que constituiria a crença dos socialistas).
Com isso, chega-se ao terceiro passo, propriamente propositivo, da argumentação do opúsculo. Sublimada de seus acidentes, a ideia de socialismo não seria senão a ideia de liberdade social, que precisa ser atualizada para as condições sociais do século XXI. A palavra socialismo ganha agora um sentido totalmente novo, mas não inesperado para o leitor de Honneth. O socialismo não é agora senão a realização do social, o “tornar-se social da sociedade” (p. 89). A formulação causa espécie caso não se compreenda o sentido do adjetivo em Honneth,5 que aparece plenamente explícito no novo opúsculo. O social é um conceito normativo para Honneth, ou antes, descritivo-normativo, pois designa não um dever-ser externo, mas a normatividade estruturante da sociedade (p. 105). A sociedade é social, “no sentido pleno da palavra” (p. 166), quando as relações de reconhecimento recíproco estão plenamente desenvolvidas, sem bloqueios à comunicação, em todas as esferas de ação por elas estruturadas. Apenas a sociedade socialista de Honneth é uma tal “sociedade social”.
Mas como alcançá-la? Honneth não se preocupa em apontar quais são os obstáculos sistemáticos que se opõem à realização da liberdade social, mas antes delega a tarefa de sua superação a um “experimentalismo histórico”. Em razão de sua ontologia social normativista, Honneth é incapaz de apontar causas materiais para as patologias sociais e desenvolvimentos normativos desviantes que constata. Apesar de contarem de saída com um empuxo transcendental em direção à emancipação, as lutas por reconhecimento não a alcançam, e isso, em Honneth, como que por mero acaso: deveria acontecer, mas não acontece.6 O mundo social de Honneth é frouxamente estruturado: ainda aqui, a concepção marxiana de capitalismo como uma totalidade, na qual certas determinações estão interna e logicamente interligadas, é recusada em prol de uma afirmação vazia e implausível de que o mercado capitalista não é mais do que um agregado de componentes absolutamente díspares e artificialmente conjuntados (pp. 91 e 109-110). Assim, a solução “experimentalista” de Honneth tampouco chega a surpreender. Experimentar novas configurações sociais a fim de romper barreiras e obstáculos à comunicação e à inclusão de novos atores em esferas de liberdade social é algo que está à disposição dos atores para Honneth, que desconsidera o fato de que justamente tais barreiras e obstáculos impedem tal experimentalismo de ter algum sucesso significativo. Em todo caso, apoiado na ideia mecânico-naturalista e ao mesmo tempo especulativa de John Dewey de que, em todos os âmbitos da realidade (do físico-químico ao social, passando pelo biológico e pelo psíquico), o aumento do volume das interações entre os seus elementos (no caso do âmbito social, os indivíduos) leva à efetivação de potenciais ali já existentes (no caso, à efetivação da liberdade social), Honneth considera que apenas o contínuo experimentalismo, isto é, a repetida variação das formas de interação pode progressivamente levar ao socialismo.
Assim, é marcante que Honneth não se pergunte, por exemplo, por que o capitalismo precisa necessária e logicamente engendrar sua crescente financeirização, mas antes proponha impotentemente que experimentemos um mercado não financeirizado; que afirme a incompatibilidade normativa entre, de um lado, as noções de mérito ou de recompensa do desempenho diferencial que estrutura o mercado e, de outro, os ganhos nele obtidos por meio da especulação financeira, sem se perguntar que tipo de processo material leva a que uma tal contradição real possa subsistir (pp. 108-109). O horizonte da crítica de Honneth, seu “end in view” (Dewey) é uma pouco definida noção de “socialismo de mercado”, pelo que não se deve entender, como de costume, algo como o sistema econômico vigente na China contemporânea (de resto, obviamente capitalista), mas simplesmente uma economia estruturada pelo mercado (que conta em qualquer caso como uma esfera de eticidade, i.é., de liberdade social) e que não seja, ao mesmo tempo, capitalista, se é que isso é conceitual e empiricamente possível. Honneth não deseja sequer definir de antemão se seu “socialismo de mercado” deverá se estruturar como um livre mercado (à la Smith), como uma “associação de produtores livres” (Marx) ou como uma espécie de capitalismo de Estado, desde que, em qualquer destas configurações, esteja garantida a realização recíproca e complementar dos fins individuais, como prescreve a liberdade social, na ação econômica (pp. 94-95). Não lhe parece um passo necessário investigar se sua liberdade social é de fato compatível com qualquer destas três formas de organização econômica.
Por fim, a ideia do socialismo revisado determina ainda a efetivação da liberdade social não apenas na esfera econômica, mas nas outras duas esferas de eticidade hegeliana atualizadas por Honneth em “O Direito da Liberdade”. Não apenas no mercado, mas no âmbito das relações pessoais íntimas e no das relações políticas é preciso fazer valer o mesmo princípio de complementação mútua das liberdades. Para Honneth, os primeiros socialistas, localizados num momento de desenvolvimento histórico ainda incipiente, não foram capazes de notar o movimento de diferenciação funcional em esferas de ação distintas na modernidade (embora seja curioso que Honneth apenas replique, em contraposição, uma diferenciação social mínima constatada por Hegel numa Prússia ainda semifeudal). A acusação é obviamente injusta, na medida em que, por exemplo, a elaboração teórica já do jovem Marx tem início justamente a partir de uma reconceituação da diferenciação moderna entre Estado e sociedade civil-burguesa em Hegel. Em todo caso, é porque ou não teriam notado essa diferenciação funcional ou não a teriam apreendido como um objetivo a ser alcançado, isto é, como uma injunção pela busca da efetiva autonomização tanto das relações privadas quanto das relações políticas em relação à sobredeterminação econômica, que os primeiros socialistas teriam apreendido o socialismo apenas como uma forma de governo e não, como quer Honneth, como uma abrangente forma de vida.
Na mesma réplica aos debatedores do supracitado simpósio de Londres sobre “O Direito da Liberdade”, Honneth oferece uma surpreendente releitura da tese de Hegel sobre o fim da história. Questionado por Jörg Schaub acerca da impossibilidade por parte do método da reconstrução normativa de dar conta de revoluções normativas, isto é, de abalos fundamentais na própria estrutura normativa da sociedade,7 Honneth recorre à abominada tese hegeliana, a fim de aceitar a objeção e insistir sobriamente em sua posição.
E se Hegel não quisesse realmente avançar a estranha e certamente falsa ideia de que, com o começo da era da subjetividade institucionalizada, as lutas sociais teriam chegado a um fim, mas antes estivesse avançando o argumento distinto e mais fraco de que somos completamente incapazes de imaginar um futuro no qual o princípio da subjetividade livre é substituído por um princípio superior, mais elevado? A fala sobre o ‘fim da história’ significaria então que temos uma boa razão para eliminar a possibilidade de uma ‘revolução’ na estrutura normativa da sociedade; e que, na medida em que as lutas e os amargos conflitos ao redor da implementação correta de nossos princípios modernos fundamentais possam continuar, eles não excederão o horizonte normativo da sociedade moderna.8
Mais do que seu mestre Habermas, que defende até razoavelmente que ainda nos movemos no horizonte da modernidade,9 Honneth acredita que nunca o iremos ultrapassar, mas apenas realizar progressivamente os seus potenciais. Se é verdade, com e contra Honneth, que os movimentos socialistas de toda espécie visaram e ainda visam uma superação do capitalismo não apenas como estrutura de distribuição material, mas sobretudo como horizonte ético-normativo (basta pensar n’ “A Questão Judaica” ou na “Crítica ao Programa de Gotha”), então o socialismo de Honneth, como mal consegue disfarçar, não passa, em qualquer de suas versões, de um derrotismo resignado. Se, segundo um de seus historiadores, o traço teórico marcante da assim chamada Escola de Frankfurt foi a sua impressionante capacidade de “imaginação dialética”, a falta, ou antes, a renúncia à imaginação por parte de seu atual representante oficial, que termina até na adesão à tese da inultrapassabilidade da estrutura normativa da modernidade, justifica o seu crescente reconhecimento não como representante desta tradição, mas, malgré lui, como legítimo herdeiro dos velhos hegelianos.
Notas
1HONNETH, A. “O direito da liberdade”. São Paulo: Martins Fontes, 2015.
2HONNETH, A. “Rejoinder”. Critical Horizons, Vol. 16, Nr. 2, p. 205, 2015.
3Para citar alguns exemplos: HEINS, V. “Zwischen Habermas und Burke: Axel Honneths Kritikstil in Das Recht der Freiheit”. In: ROMERO, J. (ed.). Immanente Kritik heute: Grundlagen und Aktualität eines sozialphilosophischen Begriffs. Bielefeld: transcript, 2014, pp. 143-156; MOHAN, R. “Normative Reconstruktion und Kritik: Die Subsumtion der Gesellschaftsanalyse unter die Gerechtigkeitstheorie bei Axel Honneth”. Zeitschrift für kritische Sozialtheorie und Philosophie, Vol. 2, Nr. 1, pp. 34-66, 2015; SCHAUB, J. “Misdevelopments, pathologies, and normative revolutions: Normative reconstruction as method of critical theory”. Critical Horizons, Vol. 16, Nr. 2, pp. 107-130, 2015; WILDING, A. “The problem with normative reconstruction”. In: 6th International Critical Theory Conference. Comunicação, Roma, Itália, maio de 2013. Disponível em: https://www.academia.edu/5115504/The_Problem_With_Normative_Reconstruction. Acesso em 3 de agosto de 2016.
4HONNETH, A. “O direito da liberdade”, op. cit.
5Cf. DE CAUX, L. Ph. “Contorno e limites do conceito do social em Axel Honneth”. Revista de Filosofia Moderna e Contemporânea, Vol. 3, Nr. 1, pp. 28-48, 2015.
6DE CAUX, L. Ph. “Um mundo que, por acaso, não é como deveria ser: crítica e explicação em Axel Honneth”. Cadernos de Ética e Filosofia Política, 2017 (no prelo).
7SCHAUBE, J. “Misdevelopments, pathologies, and normative revolutions”, op. cit.
8HONNETH, A. “Rejoinder”, op. cit., p. 209.
9HABERMAS, J. “O discurso filosófico da modernidade: doze lições”. São Paulo: Martins Fontes, 2000.
Luiz Philipe de Caux – UFMG. luizphilipedecaux@gmail.com
O socialismo de Oswald de Andrade: cultura/ política e tensões na modernidade de São Paulo na década de 1930 | Marcio Luiz Carreri
Obra originária de pesquisa para obtenção do título de doutor em história-social pela Pontifícia Universidade Católica de São Paulo – PUC/SP no ano de 2017. O livro “O socialismo de Oswald de Andrade: cultura, política e tensões na modernidade de São Paulo na década de 1930”, partindo da capa e seus contraste em preto e branco em que o autor destaca seus personagens principais que compõe sua narrativa histórica, como a Pagú, Mario de Andrade e sobretudo o Oswald tendo por base a foice e o martelo em vermelho, e acima de todos a figura emblemática de Marx.
Trata-se de escrita leve e fluente, sem o peso do academicismo que se exige para uma tese de doutorado em história, porém com o rigor metodológico dela. Marcio em seu trabalho consegue perfeitamente trafegar entre duas linhas tênues e belas que é a da confluência entre literatura e história, com o mérito de trafegar por essa zona quente sem se esquecer do metier, do construto da história. Dessa forma a literatura entra como pano de fundo para o fazer historiográfico de uma época de “tensões na modernidade de São Paulo” como diz o título. Leia Mais
O socialismo de Oswald de Andrade: cultura/ política e tensões na modernidade de São Paulo na década de 1930 | Marcio Luiz Carreri
Obra originária de pesquisa para obtenção do título de doutor em história-social pela Pontifícia Universidade Católica de São Paulo – PUC/SP no ano de 2017. O livro “O socialismo de Oswald de Andrade: cultura, política e tensões na modernidade de São Paulo na década de 1930”, partindo da capa e seus contraste em preto e branco em que o autor destaca seus personagens principais que compõe sua narrativa histórica, como a Pagú, Mario de Andrade e sobretudo o Oswald tendo por base a foice e o martelo em vermelho, e acima de todos a figura emblemática de Marx.
Trata-se de escrita leve e fluente, sem o peso do academicismo que se exige para uma tese de doutorado em história, porém com o rigor metodológico dela. Marcio em seu trabalho consegue perfeitamente trafegar entre duas linhas tênues e belas que é a da confluência entre literatura e história, com o mérito de trafegar por essa zona quente sem se esquecer do metier, do construto da história. Dessa forma a literatura entra como pano de fundo para o fazer historiográfico de uma época de “tensões na modernidade de São Paulo” como diz o título. Leia Mais
Camaradas, Clientes e Compadres. Colonialismo, socialismo e democratização em São Tomé e Príncipe / Gerhard Seibert
Aqui está um estudo sobre um pequeno país africano de língua portuguesa, pouco conhecido no Brasil. Apesar de em tempos idos termos tido uma relação bem forte com este arquipélago, hoje pouco sabemos sobre São Tomé e Príncipe. Sua história contemporânea traz em si uma vertente do que o mundo tem sido desde os tempos de extremadas bipolaridades estendendo-se à globalização atual. Estudar o arquipélago de São Tomé e Príncipe, nas suas experimentações do socialismo e, mais recentemente, de convívio com neoliberalismo, requer um estudo de grande fôlego. Ao estudar essas etapas da história são-tomense recente, o autor, Gerhard Seibert, se propõe analisar o curso da mudança política e seu impacto sócio-econômico.
E ele vai mais longe, focalizando especialmente a transição do socialismo de partido único ao chamado sistema pluripartidário. A intenção, diz Seibert, é avaliar essas mudanças à luz da cultura política local existente.
Para trilhar esse percurso o livro inicia com uma longa retomada da história remota, desde o período da abertura atlântica, com a chegada dos portugueses às ilhas. Como se deu a formação das suas populações e as suas diferenças em relação aos africanos continentais, são pontos cruciais para entendermos a peculiaridade são-tomense. Uma sociedade nascida mestiça, no fluxo das chegadas de africanos e portugueses. Quanto ao tipo de população branca que migrou para o arquipélago, com certeza não há grandes diferenças se comparada com aquela que foi para Angola, Moçambique e Guiné. Há uma grande semelhança com Cabo Verde, ambas são sociedades com pendor insular. Os são-tomenses, com um traçado social diferenciado entre forros, angolares, tongas, cabo-verdianos, constituem um painel de diversidade social no arquipélago. Todos, bem ou mal, foram confrontados com as formas de trabalho forçado nas plantações de açúcar primeiro, e cacau depois, nas fases diferenciadas do colonialismo português implantado no arquipélago.
O livro está sempre pontuado, ao caracterizar o arquipélago, pela comparação com as ilhas do Caribe em termos de população, comércio e situação política, resultando da comparação um menor desenvolvimento econômico e maior instabilidade política e social nas ilhas africanas.
Em julho de 1975 nasceu o Estado independente de São Tomé e Príncipe sob a presidência de Manoel Pinto da Costa, liderando o Movimento pela Libertação de São Tomé e Príncipe (MLSTP). Mas a luta pelo poder dentro da cúpula do partido foi levando o modelo político para uma tendência radical socialista. Por outro lado, a manutenção da velha economia de plantação, agora gerida pelo Estado, apenas exacerbou as discrepâncias sócioeconômicas.
Antigos conflitos entre forros e trabalhadores das roças (grandes plantações) persistiram, fossilizando mais ainda as diferenças entre os forros e os trabalhadores migrantes africanos.
A atitude do Estado, investido de todas as funções que levariam à prosperidade ocupando o lugar de empresário de todas as atividades do país, não funcionou. A falta de pessoal com formação mínima para desempenhar os cargos administrativos justifica, junto com os demais fatores, o fraco desempenho econômico. Embora os direitos de todos fossem iguais, pondo fim à era colonial de cerradas barreiras socioculturais, restava ainda integrar as populações das plantações aos grupos citadinos, preferencialmente alocados nos cargos administrativos. A disputa pelos recursos do Estado por e posições dentro do Partido levou, cada vez mais, a um poder centralizado e ao encastelamento dos parentes e familiares do presidente nos principais postos de poder. Tudo isso mostrava a ineficiência organizacional e institucional do governo.
A ÉPOCA DA VIRADA
Depois de dez anos de regime de partido único, São Tomé e Príncipe inaugurou, entre as jovens nações africanas, o pluripartidarismo. A aproximação com o bloco de países ocidentais incluiu retomar o diálogo com os dissidentes do regime e a abertura da economia. Uma direção indispensável foi o projeto de “reajustamento estrutural”, um programa concebido pelo Banco Mundial e pelo FMI visando o desenvolvimento econômico para o período da década de 90. O governo são-tomense não alcançou as metas estipuladas pelos organismos internacionais. O autor enfileira uma série de razões: desde as debilidades institucionais e as expectativas por demais pretensiosas, até a cultura política do clientelismo, a corrupção endêmica, a escassez de pessoal qualificado. Tais razões, anota ele, podem explicar o fracasso dos governos sãotomenses na efetivação da prosperidade anunciada. Apesar da ajuda externa e dos empreendimentos de nações estrangeiras, que são propalados medidores dos organismos internacionais, o crescimento econômico real não aconteceu.
A população continua em estado de pobreza e o aumento da dívida externa é o fato mais concreto desde 1991. São Tomé e Príncipe continua a ser um país pobre com um Produto Interno Bruto de 41 milhões de dólares (dados de 1996).
Mas, se aquelas questões citadas acima explicam o fracasso dos empreendimentos para chegar à prosperidade em São Tomé e Príncipe, como explicar a presença desses mesmos fatores negativos por toda a África? Posso repetir aqui a pergunta de um embaixador africano em uma reunião de comemoração do dia da África na UnB: será que os africanos não se adaptaram à modernidade? Ou, indo mais longe, o que explicaria o fracasso do FMI e do Banco Mundial também em outros cantos do mundo, como a Rússia, Argentina e por toda África? O livro de Seibert não tenciona responder as estas perguntas, mas a outras de menor alcance, porém nem por isso de menor importância.
Ele procura a explicação da complexidade da crise desse país africano pela perspectiva da cultura política. Analisa a disputa partidária e a consistência de seus programas, o debate e o desempenho na campanha eleitoral, os tipos de candidatos, assim como as expressões políticas nos diferentes partidos. Chega a concluir que as diferenças são poucas e que “as relações patrono-cliente têm desempenhado um papel importante na disputa partidária”. Uma atitude personalista na política tem predominado no jogo da disputa pelo poder.
Assinala também, nesse campo, o quanto o fazer político em São Tomé e Príncipe ainda é uma atividade masculina, com um reduzido percentual de participação feminina.
Mas apesar disso, o cenário político mostra transições pacíficas e derrotas de candidatos com desempenho insatisfatório no teste das urnas.
A leitura deste livro permite um mergulho no universo africano e no mundo contemporâneo com suas questões candentes, e nos propõe repensar o nosso lugar na globalização.
Selma Pantoja – UNB, Universidade de Brasília.
SEIBERT, Gerhard. Camaradas, Clientes e Compadres. Colonialismo, socialismo e democratização em São Tomé e Príncipe. Lisboa: Veja, 2002. Resenha de: Pantoja, Selma. Textos de História, Brasília, v.16, n.1, p.185-187, 2008. Acessar publicação original. [IF]
Economia Contemporânea em Moçambique: sociedade linhageira, colonialismo, socialismo, liberalismo | Beluce Belucci
O livro, elaborado por um pesquisador que trabalhou por mais de uma década com projetos de desenvolvimento em Moçambique, apresenta um panorama da formação da economia contemporânea do país, cuja inserção na divisão internacional do trabalho, desde a exploração colonial portuguesa, até a guerra de libertação do regime salazarista, passando pela experiência socialista do governo da Frelimo, hoje encontra-se frente ao impasse das exigências de uma “globalização” que possui todas as características de mais uma rodada espoliativa dos países centrais junto à periferia e índices de desenvolvimento humano que revelam que a opção pela liberalização da economia, feita sob a chantagem do Banco Mundial e do F.M.I. na década de 1980, deu-se muito mais como opção política ― inclusive da classe dirigente de Moçambique ― do que uma questão de julgar-se a eficiência ou viabilidade da economia planificada socialista. Leia Mais