Parmenide e Zenone sophoi ad Elea – ROSSETTI (RA)

ROSSETTI, L. Parmenide e Zenone sophoi ad Elea. Pistoia: Petite Plaisance, 2020. Resenha de: MONTAGNINO, Marco. Revista Archai, Brasília, n.30, p 1-16, 2020.

«… queste pagine sono state scritte per permettere a tutti di capir bene, anche a chi “non è del ramo”» (p. 14),1 quanto siano «ancora più grandi e più creativi di quel che comunemente si pensa” (p. 13) due antichi sapienti, Parmenide e Zenone, la cui

«immagine tradizionale […] si è come ingessata, se non incartapecorita, per cui da tempo l’attenzione viene portata solo su poche cose, le solite, e di conseguenza la loro fisionomia è sbiadita paurosamente» (p. 15)

Questa, nelle sue pagine di «benvenuto» (p. 13-17),2 la promessa del Rossetti a chi si accosta al suo «volumetto» (come egli stesso lo definisce) e possiamo dire fin da subito che essa verrà mantenuta. Il libro mette bene in evidenza le «tante idee folgoranti» (p. 124) elaborate dai due sophoí di Elea e come esse abbiano indicato molte «piste», che «a distanza di millenni sono tuttora aperte, tuttora vitali e tutte hanno un futuro» (p. 137). Anche chi ha già letto gli altri studi che l’Autore ha dedicato ad entrambi i sophoí non mancherà di trovare in questa «conversazione» (come egli vi si riferisce nelle conclusioni, p. 136) spunti d’interesse significativi.

A proposito dei contributi che l’Autore ha già dedicato ai due sapienti, egli stesso avverte subito (p. 16, e lo ricorda nuovamente a p. 141) che questo libro assomiglia solo superficialmente a quello che aveva scritto nel 2009, dal titolo «quasi uguale» – I sophoi di Elea: Parmenide e Zenone – ma allo stesso tempo sottolinea come da allora «‘tutto’ è cambiato» perché, specialmente nell’ultimo decennio, le indagini su di essi hanno fatto emergere «aspetti nuovi o addirittura impensati dei due antichi maestri». Effettivamente i due testi sono significativamente diversi tra loro ed il nuovo titolo, che riprende quello del 2009 scambiandone i termini, vuole forse già evocare lo stravolgimento”prospettico avvenuto con lo «tsunami», sempre nelle parole dell’Autore, scatenato dagli studi di questi ultimi anni.

La prima parte del primo capitolo (p. 21-29) è dedicata al «luogo dove si sono miracolosamente formate due menti strepitose», e racconta perciò sia la fondazione che il territorio di quella che fu prima Yele, poi Elea, quindi Velia, ed oggi Ascea Marina, nella provincia di Salerno, dove dal 2004 si svolgono periodici incontri di studio sui due sophoí e sull’eleatismo, denominati appunto Eleatica. Un luogo di pellegrinaggio, gli scavi di Elea-Velia, dove si recano «“pellegrini”un po’ speciali […] dagli angoli più diversi del pianeta”(p. 21).

Molto suggestivo, in questa “cartolina”, il richiamo alla possibilità che nel proemio del poema parmenideo possano essere stati cantati alcuni luoghi della città: «è come se, vicino Firenze, ci fosse ancora la ‘selva oscura’ di Dante e si potesse visitare» scrive il Rossetti (p. 21), che spiega meglio quanto intende più avanti nel testo (p. 77-81), come vedremo.

Poche pagine, dimensionate del resto all’economia del testo, che però rendono bene l’idea che chiunque voglia capire il pensiero di Parmenide e di Zenone non possa disinteressarsi non solo delle loro personali vicende ma anche della storia dei luoghi in cui essi vissero, una storia molto complessa sulla quale le scoperte archeologiche di questi ultimi anni hanno gettato nuova luce. Seguono poi alcune pagine (p. 30-35) per raccontare qualcosa delle vite dei due sapienti: colpisce in particolare il paragrafo «Elea vista da Parmenide”(p. 3032) in cui Rossetti ci invita a «metterci nei panni del figlio di un foceo arrivato ad Elea da pochi anni» (p. 30).

Il capitolo si conclude con la spiegazione della «bizzarria» (nelle parole dell’Autore) di voler cominciare dall’allievo e non piuttosto (come anch’egli ha fatto nel Rossetti, 2009) dal maestro. Ma il libro è concepito in modo da poter passare al successivo capitolo su Parmenide e poi ritornare indietro. Pensiamo che questa scelta editoriale sia funzionale alla tesi, sviluppata dal Rossetti in questo studio, che il libro di Zenone sia stato concepito indipendentemente dal pensiero di Parmenide e non per difendere il maestro dalle critiche mosse al suo poema, come Platone ci tramanda:

Zenone ha ben poco in comune con gli intellettuali che poté conoscere bene, e perfino con Parmenide. Certo, Parmenide può averlo instradato nel costruire i suoi sofisticati ragionamenti […] ma tutto il resto fu estraneo al mondo mentale del maestro, fu cioè farina del sacco di Zenone (p. 45)

I paradossi zenoniani, inoltre, ad avviso dell’Autore, sono «così innovativi da meritare l’anticipazione”sugli «insegnamenti”del maestro,3 anche se Zenone al contrario non sembra voler insegnare o spiegare alcunché. Un’altra delle tesi che il Rossetti vuole mettere in evidenza è, infatti, che se «Parmenide è stato e si è sentito ‘professore dall’inizio alla fine […] Zenone, […] invece si è addirittura imposto di limitarsi a lanciare idee, senza insegnare”(p. 124).

Il secondo capitolo (p. 39-74), dedicato appunto a Zenone, mette subito in risalto il fatto che questi, con la sua raccolta di paradossi, fa qualcosa che «nessun altro prima di lui aveva fatto … (e veramente nemmeno dopo)”(p. 39). La «possente”e «spettacolare”innovazione che si sarebbe rivelata «a lunga gittata”(i paradossi di Zenone sono attuale oggetto di studio anche in diversi campi scientifici, dalla matematica alla fisica teorica) 4 dei paradossi zenoniani è, infatti, quello di porre «‘possibilità impossibili’» per «innescare ed alimentare una curiosità di lungo corso per ciò che supera i limiti della nostra capacità di percepire”(p. 55) e di concepire le cose.5 Ed in effetti il Rossetti ci descrive Zenone anche come «un prestigiatore della parola e della mente”(p. 63).

I paradossi zenoniani sono presentati in un linguaggio colloquiale ma non per questo meno rigoroso (stile che caratterizza l’intero testo, come premette l’Autore stesso fin dall’inizio, a p. 15) per mostrare la novità dei concetti (spazio, grandezza invisibile, istante, velocità relativa, etc.) che essi introducevano nelle cognizioni tradizionali di chi li udiva o li leggeva:

Nessun altro libro era stato concepito come una collezione di sfide alla nostra intelligenza […] ed è tanto raro che uno si accontenti di delineare un problema, una difficoltà, un ostacolo mentale, un intralcio per poi dirci: “Provate voi a dipanare la matassa! Io mi limito a rappresentarvi la difficoltà”. […] Ecco questo è stato Zenone. Di questo è stato capace solo lui, e per quanto è dato sapere, nessun altro. Nessun altro, né prima né dopo! (p. 68-69).

Eppure quante cose avrebbe potuto insegnare Zenone ma «semplicemente confidava che gli altri ci arrivassero da soli riflettendo”(p. 73-74), constata il Rossetti.

E, in linea con la sua interpretazione, neanche l’Autore si sofferma nelle spiegazioni che sono state proposte dei paradossi zenoniani, né suggerisce la propria: «l’autore di queste pagine preferisce fare come Zenone e lasciare che sia semmai il cortese lettore, la cortese lettrice a interrogarsi e provare a ragionarne con chi vuole”(p. 52). L’invito tra le righe sembra essere quello di “metterci in situazione”, di ritornare a quei giorni in cui Zenone o qualcun altro

leggeva in pubblico il suo libro, aggiungendovi magari «un po’ di mimica gestuale e facciale» per amplificare il «senso di smarrimento”nell’ascoltatore, e ne seguiva una qualche discussione, anche breve, che, è ragionevole ipotizzare, avrebbe potuto coinvolgere l’uditorio.

Queste considerazioni portano l’Autore a concludere (p. 70-74) che una delle cose su cui «non si è detto nulla”a proposito del libro di Zenone è che esso «sarebbe diventato un libro attorno al quale si poteva imbastire un qualche dialogo, prendere la parola, improvvisare, avviare uno scambio con l’autore» (p. 71) o con gli altri presenti. Cosa che né la lettura di un poema o di un altro testo, né la rappresentazione teatrale consentivano. Insomma, conclude al riguardo l’Autore, «Zenone ha tutta l’aria di aver anticipato Socrate e di aver ideato una prima modalità di dialogo (con il suo pubblico) e di invito al dialogo”(p. 73).

Effettivamente, nel suo dialogo Parmenide, Platone ci racconta che gli scritti di Zenone venivano letti in pubblico (dobbiamo immaginare un pubblico “da salotto”, per così dire, non una piazza), anche ad Atene, e che Zenone stesso lo faceva di persona qualche volta. Certo il racconto platonico presenta più di una ragione per metterne in dubbio l’attendibilità6 e per ritenere che né Parmenide né Zenone siano stati mai nella metropoli attica, ma ciò non toglie che i loro scritti fossero ivi letti e studiati. Dunque la proposta del Rossetti non sembra affatto irragionevole (senza che con ciò ci si debba preoccupare per forza di stabilire la paternità dello stile di comunicazione ‘dialogico’).

Nel passare a trattare il maestro di Zenone, l’Autore paragona Parmenide a Dante (p. 77-81): «egli esordisce raccontando un sogno o visione, alla maniera di Dante Alighieri”(p. 77). Il proemio del poema parmenideo, nell’interpretazione del Rossetti, è un esperienza surreale che però rimane “ancorata”ai nostri sensi, attirando la nostra attenzione attraverso i suoni “raccontati”da quegli stessi versi, in

modo  che  «un’autentica  colonna  sonora virtuale  sembra accompagnare la narrazione» (p. 79). « Una colonna sonora » che l’Autore ci racconta passo-passo (p. 78-79) mentre ci propone la lettura del proemio nella trad uzione del Cerri.

Ma al contrario che per la ‘selva oscura’ dantesca, la strada percorsa da Parmenide nel suo viaggio verso la dea che gli rivela i suoi  «insegnamenti», così  come la  porta  che  egli  attraversa, probabilmente esistono su questa terra, proprio ad Elea – ci dice Rossetti riprendendo un’ipotesi che fu di Capizzi, come egli stesso ricorda – e sono ancora visibili presso gli scavi archeologici della città.

A partire da p. 82, l’Autore comincia a parlare degli «insegnamenti”che Parmenide immagina d i ricevere dalla dea. L’interpretazione tradizionale delle parole della dea ha condotto la maggior parte degli studiosi a suddividerli in due «tipi di sapere» e ad assegnare a questi valori diversi. Rossetti “contesta”che se andiamo a verificare questi in segnamenti «scopriamo facilmente che il sapere di scarso pregio semplicemente non c’è da nessuna parte, che cioè gli insegnamenti offerti sono tutti di prim’ordine, anche se sono nettamente diversificati”(p. 82) e, nelle condizioni che egli mette in evide nza nelle pagine seguenti, «l’insegnamento sull’essere [… ] può solo retrocedere a un insegnamento fra gli altri [… ] alcuni dei quali sono veramente formidabili”(p. 85).

Si riferisce ai saperi astronomici e naturalistici che emergono dalla cosiddetta «seconda parte”del poema.

Questa è un’idea cardine dell’interpretazione del pensiero di Parmenide proposta negli ultimi anni dal Rossetti (come chi ha letto il suo Un altro Parmenide sa bene) e si articola nell e tesi che questi non possa essere considerato un filosofo, se non «virtualmente», 7 ed a maggior ragione «il grande filosofo dell’essere», «come ‘tutti’ hanno insegnato per un tempo incredibilmente lungo», perché «il suo insegnamento non si i dentifica con l’ideazione ed elaborazione della sola  nozione  di  essere»  (p. 84). L’Autore procede quindi ad introdurre gli «insegnamenti”parmenidei, cominciando comunque da quello sull’essere (p. 86-89) che è trattato nel frammento B8. Secondo il Rossetti, l’interesse di Parmenide per la nozione di essere sarebbe stato il frutto di un suo «chiodo fisso», l’«inammissibilità» del «non essere», dell’ « assenza totale », del lo « zero assoluto». Quindi sarebbe stata una forma di horror vacui ad aver portato Parmenide ad isola re « il   significato   primario»   del concetto « essere », « assolutizzarlo», e, di riflesso, a trarne delle conseguenze (p. 88).

«Ma noi siamo davvero obbligati a seguirlo?», conclude il Rossetti, e spiega (p. 90-95) come già a partire da Meliss o di Samo ci si sia subito «allontanati moltissimo da Parmenide”e, sino ai nostri giorni, ad Heidegger e Sartre, «abbiamo finito per ignorare la sua ossessione»  (p. 92).  Pagine  densissime dalle  quali  emerge chiaramente (tesi ormai largamente condivisa) co me il pensiero parmenideo sia stato confinato fin da subito dalla tradizione filosofica in una sorta di metafisica, o proto-tale – che da un certo punto in poi è stata “etichettata”«ontologia”(p. 91) – che ha alienato tutti gli altri insegnamenti  che  eme rgono  dal  suo  poema  come  «credenze illusorie».

Il Rossetti  passa quindi a  parlare  degli  «insegnamenti”astronomici di Parmenide (p. 96-99), dei quali purtroppo ci sono giunti pochi versi, forse solo l’indice di quello che si sarebbe apprestato a dire, ma dei quali ci restano importanti testimonianze dossografiche. Si sofferma sulle sue scoperte astronomiche, che a ragione possono dirsi «sbalorditive», e sulle influenze che esse devono aver riscosso nei contemporanei e nei pensatori successivi.

Qui l’Autore, per dimostrare la sua teoria dell’incompatibilità tra « l’insegnamento sull’essere » e gli  «insegnamenti  a stronomic i”ricorre ad un argomento che forse non è così cogente come potrebbe a prima vista sembrare. Scrive, infatti, che la dea (nel frammento B 10 che cita in traduzione), nel passare in rassegna i temi astronomici che andrà a trattare, «lo fa senza introdurre nemmeno un vago riferimento all’essere» (p. 96).

Però, nel frammento B9, che introduce il «secondo tipo di sapere» (come lo chiama il Rossetti), a partire proprio dal frammento B10 citato dall’Autore, è detto chiaramente che vi sono due dynámeis (variamente nominate, da quel che sappiamo dai frammenti e dalle testimonianze, « luce »/« fuoco »/« denso » e « notte »/«r ado »), senza entrambe le quali «c’è il nulla». Un’affermazione che lascia dedurre, come risulta anche dal frammento B12 e dalle testimonianze di diversi dossografi, che gli astri nei cieli – ma potremmo dire ogni cosa, sino a lle creature viventi, a giudicare dagli altri frammenti e dal le tes timonianze – per Parmenide fossero compost i di queste «potenze» mescolate insieme in differenti proporzioni, e quindi, di converso, che ogni cosa fosse “fatta”, per dirla così, di «essere».

Certo neanche i sostenitori del «Parmenide filosofo dell’essere» è detto che siano d’accordo con questa lettura, anche perché in genere “squalificano “tutto il sapere contenuto nei frammenti da B9 in poi come “illusorio”, ma annotiamo che, se anche dalla prospettiva opposta, il Rossetti usa i loro stessi argomenti, in de finitiva, per segmentare i contenuti del poema.

Se non riscontriamo particolari  difficoltà  ad  ammettere  la legittimità della critica d ell’Autore al cliché del «filosofo dell’essere» e d a condividere la necessità di un i mpegno ulteriore nel campo degli studi parmenidei per portare in primo piano ed allo stesso livello del sapere sull’essere gli altri saperi che il poema pur conteneva (tesi sulla quale convengono ormai diversi studiosi), ci riesce, però, difficile condividere l’assunto sulla incompatibili tà e incongruenza reciproca di tali saperi.

Tornando al testo di Rossetti, egli si sofferma (p. 100-105) sulle teorie che Parmenide ha elaborato sulla forma della terra e sulla sua suddivisione  in  zone  climatiche, senz’altro straordinarie ed innovative anc he queste. S eguono (p. 106-108) gli « insegnamenti » sulla fisiologia umana, con particolare riferimento all’embr iologia, ove l’Autore mette in evidenza qualcosa che effettivamente ha avuto, ed ha, poca risonanza nel panorama degli studi parmenidei:.

per molt o tempo, inclusi i tempi di Aristotele, si è pensato e insegnato che la donna non produce un suo patrimonio genetico, ma si limita ad accogliere e nutrire il patrimonio genetico di origine maschile […] Invece Parmenide fu tra i primi e i pochi a sostenere il contrario (p. 106)

L’Autore poi prosegue sottolineando che Parmenide fu tra i primi che elaborò una teoria sul perché certi individui sviluppassero tendenze  omosessuali  e  che  provò  a  spiegarsi  la  condizione fisiologica di chi ha tali tendenze.

Rossetti  definisce  questa  una  «conquista  assolutamente memorabile» e ne conveniamo, ma annotiamo che in queste pagine egli dà pochissimo spazio e risonanza, 8 al contrario di quanto ha fatto nella sua monografia (Rossetti, 2017b, vol. 2, p. 97-112), a quello che egli stesso ha identificato nel poema come una sorta di «proto-femminismo » parmenideo (ivi, 110). Crediamo, infatti, che la cosa più « sbalorditiva », e, aggiungeremmo, scandalosa,  che  poteva emerge re dal poema parmenideo – oltre il pantheon ass olutamente femminile che lo anima – è proprio la tesi che la donna ave sse un ruolo attivo nella riproduzione e non solo quello di ‘fornetto’, che la donn a fosse “fatta”in prevalenza del « rado », quindi di « luce », più che l’uomo, in cui prevaleva il « denso », la materia dell’oscurità (come ci testimonia Aëzio), e che la daímōn di B12, piuttosto che spingere «i maschi a unirsi con le femmine», come prevedeva la themis omerica, dava la “precedenza”a queste ultime.

Nella Grecia del VI-V sec. a.C., ma anche oltr e, la pederastia era una pratica pedagogica quasi “raccomandata”e Platone – che nel Parmenide ci presenta Zenone anche come “amante”di Parmenide – impiega un intero dialogo, il Simposio, 9 per «definire la filosofia come un parto dell’anima maschile legat a all’amore fra uomini», nelle parole del la Cavarero (1990, p. 100).

Una concezione della  filosofia che,  p ossiamo  dirci  certi, difficilmente  poteva  essere condivisa da Parmenide, la cui «ovvia e trasparente venerazione del Maestro  per  il  Principio  Femminile»,  come  sottolineava  De Santillana (1985, p. 90), emerge perentoria dal suo poema.

E pensare che il femminismo, che tanto ha insistito a proposito del significato androcentrico della credenza embriologica che fosse solamente il maschio a dare forma alla v ita, si è “distratto”su questa innovativa tesi parmenidea ed ha sempre accusato Parmenide, o meglio «il filosofo dell’essere», di  matricidio filosof ico, senza concedergli alcun appello.

Tornando al la «conversazione» del Rossetti: d opo aver ricordato gli altri «insegnamenti”biologici (p. 109-111) – e segnaliamo in proposito che l’Autore non vede in Parmenide anche un medico (p. 111), come negli ultimi anni è stato fatto da alcuni studiosi – egli torna ai primi 33 versi del frammento B8 (p. 112-117) per parlare di un altro «insegnamento”parmenideo che egli separa da quello dell’essere (per questo lo tratta alla fine degli insegnamenti, agli “antipodi”di quell’altro, che aveva trattato all’inizio: p. 122 n. 23), «ideando  qualcosa  che pervenne  a  sedimentarsi  in  una  forma divenuta standard, si noti, solo quasi due secoli dopo, con gli Elementi di Euclide”(p. 116): il ragionamento deduttivo.

Si  viene  quindi  accompagnati  alle  conclusioni  sugli insegnamenti di Parmenide (p. 118-125, ma anche p. 136-137). «È bello – condividiamo le parole dell’Autore ed il suo entusiasmo – ritornare a prendere coscienza delle tante conquiste legate al nome di questo antico maestro”(p. 119). E concordiamo con la sua critica che «fino a ieri, il Parmenide fi losofo dell’essere ha oscurato con impressionante efficacia tutti gli altri aspetti della sua poliedrica personalità”(ibid.). Tant’è che, l’abbiamo accennato prima, il pensiero femminista non si è mai accorto di quanto fosse “dalla parte della donna”Parm enide. Ma vogliamo qui ricordare che lo «ieri”a cui fa riferimento il Rossetti non sono solamente gli ultimi dieci anni, perché sono stati diversi gli studiosi che fin dal secolo scorso hanno cominciato a leggere il poema non solo “da sinistra verso destra”, per parafrasare una felice espressione con cui Mansfeld (2015) ha intitolato un suo recente saggio, ma anche “da destra verso sinistra ”, cominciando appunto a darne un’interpretazione partendo proprio dal sapere cosmologico e naturalistico che eme rge dalla seconda parte del poema e dalle molte e attendibili testimonianze dossografiche che ne abbiamo.

Ed il Rossetti ha senz’altro contribuito a questa rilettura. Così come, da molti anni, si è cominciato ad approfondire il proemio e la sua relazione c on il resto del poema, cosa che ha fatto anche l’Autore,  che  intravede  una  «congruità  fra  un  Proemio  così accentuatamente politematico e l’elaborata polumathia che il poeta mostra di aver coltivato (con straordinario successo)”(Rossetti, 2017b, vol. 1, p.157).

D’altra parte s iamo completamente d’accordo con l’Autore che Parmenide fosse un sophos e non un filosofo, specialmente non nel senso che intesero Platone, Aristotele e tutti i filosofi ‘metafisici’ (ma qualcuno ancora potrebbe obiettare che la filos ofia è metafisica e nient’altro) che seguirono, sino ai nostri giorni, tra i quali l’Autore non manca di menzionare i più eminenti (p. 90-95). Possiamo condividere senz’altro l’ipotesi che Parmenide fosse un «cultore della polumathia ([…] il sapere molte cose, il fatto di intendersi di molte cose  diverse)» e che  i  diversi  aspetti  della  sua  «poliedrica personalità” non  debbano  essere oscurati dall’attenzione quasi ossessiva al frammento B8 (p. 118-119).

Ma è  più  difficile  condividere  l ’idea che  si  debba necessariamente «circoscrivere» (p. 124) « l’insegnamento sull’essere» per far riemergere gli altri. Forse bisognerebbe capire meglio quello che intendeva P armenide con la sua nozione di essere, che probabilmente non doveva essere, come lo ste sso Rossetti sottolinea, quella che ci  hanno tramandato Melisso, Platone e Aristotele, tra i primi suoi lettori: Gadamer ci aveva già avvisati che l’aldilà che Platone e Aristotele hanno pensato dell’essere, in Parmenide è l’aldiquà (Gadamer, 2018, p. 73-1 34). Forse si può provare a rimettere mano al «’montaggio’ del poema”(p. 112) che la tradizione ha canonizzato finora (qualcuno lo sta facendo già, anche se con altre intenzioni: pe nsiamo, tra altri, a Coxon, Cordero, Kurfess, Laks e Most), e fo rse anche i paradossi di Zenone, la cui autonomia rimarrebbe incontestabile, potrebbero interpretarsi lungo la linea dottrinale tracciata dal poema parmenideo e non solamente in discontinuità con esso.

Allo stesso modo, crediamo, riesce difficile convincer s i che ne l poema di Parmenide «non si nota nessun desiderio di generalizzare offrendo considerazioni riguardanti la totalità […] [e] che questa sua supposta attitudine a rendere conto del tutto non è documentata”(p. 119); o che Parmenide «non ha nemmeno provato a offrire… delle considerazioni  sulla  realtà  nel  suo  complesso”10 (p. 122), specialmente quando è lo stesso Rossetti che ascrive alla capacità di Parmenide di «rappresentarsi l’intero» (p. 113) la sua maestria nell ’or ganizzazione del poema ed il suo rigore deduttivo.

Il testo prosegue con un capitolo dedicato al ‘dopo’ Parmenide e Zenone (p. 127-137) – nel quale si segnala in particolare il paragrafo su Melisso e sul suo ruolo chiave nella fortuna del poema parmenideo e nella nascita dello stereotipo del Parmenide «filosofo dell’essere» (p. 132-135) – e si conclude con una sezione «Per saperne di più», in cui l’Autore propone alcune letture d’approfondimento. S i rimane un po’ perplessi davanti alla dichiarazione che la monografia di Bollack, Parménide, de l’étant au monde, che certo rimane di assoluto rispetto, sia l’unico testo precedente alla monografia del Rossetti, Un altro Parmenide, «in cui si prova a rendere conto sia del Parmenide filosofo dell’essere e grande ra gionatore,  sia  del  Parmenide naturalista”(p. 140). Una validissima indic azione contenuta nella sezione è certamente quella sui volumi pubblicati nella collana Eleatica, che raccolgono gli studi degli omonimi convegni che si svolgono ad Ascea (p. 141), dir etti dallo stesso Rossetti fin dal primo incontro. Rappresentano un a miniera di conoscenze e di idee sul pensiero  di  Parmenide  e  Zenone,  ma  non  solo.  Soprattutto, rappresentano lo “stato dell’arte”della ricerca intorno al loro pensiero.

Per concludere. Parmenide e Zenone sophoi ad Elea è una gradevole e stimolante «conversazione» che effettivamente fa venir voglia di conoscere meglio i due sapienti, è un inno al loro genio, ma anche un invito a recarsi ad Ascea per camminare dove loro hanno camminato due milacinquecento anni fa. Per un lettore solamente curioso, il testo – riprendiamo la conclusione della Gardella nella presentazione allo stesso (p. 12) – si presenta come una sorta di paradosso zenoniano, certo più complesso: propone questioni nodali su co me può essere pensata la realtà (e lo fa attraverso le riflessioni di due menti geniali), lasciando ri flettere su di esse senza dare troppe spiegazioni. Per lo studioso di Zenone, il testo presenta alcune significative novità rispetto alle ipotesi proposte nel 2009, come nel caso di Parmenide, ma su quest’ultimo questo libro rappresenta una ricapitolazione dell’interpretazione che ne dà il Rossetti nella sua monografia,  che  certo  rimane un  fondamentale  strumento  di approfondimento, come poche altre.

Nonostante, infatti, come abbiamo accennato, il Rossetti non sia stato l’unico a rivalutare il sapere contenuto nella cosiddetta «seconda parte”del poema parmenideo, egli non lo fa nella stessa direzio ne perseguita da altri studiosi – che comunque cercano di ric onnettere,  da  varie  prospettive, questo  sapere  con  quello s ull’essere – ma nel considerare il sapere della «seconda parte”del poema suddiviso a sua volta in saperi diversi, irriducibili tra loro e rispetto al sapere sull’essere (p. 82-85, 96 e 119) e lo stesso «sapere sull’essere» irriducibile  a  quello  sulla  «razionalità  deduttiva”contenuto nello stesso frammento dove è discusso quello. Dunque il Parmenide proposto dal Rossetti è sì «un altro Parmenide”ma non «assolutamente irriconoscibile”(p. 85), se non per chi ne abbia conoscenza solamente dagli studi liceali.

Dal nostro punto di vista, lo studioso già da qualche anno sottopone una certa interpretazione dell’ontologia parmenidea, sedimentatasi con la tradizione metafisica, ad una sorta di “epoch é “(v irgolette d’obbligo), per ridare valore agli altri saperi che sappiamo professava il grande Maestro. Questa sua prospettiva rappresenta un “pol ý deris élenchos “degno di quello che la dea propone a Parmenide nel poema (cfr. il frammento B7), ma d’altra part e rischia di frammentare ulteriormente un pensiero che probabilmente non era così “compartimentato”come sembra concludere l’Autore.

Chiunque  voglia  approfondire  il  pensiero  di  Parmenide, qualunque  sia  il  suo  approccio  ad  esso, non  può perciò non confronta rsi con l’interpretazione che ne propone il Rossetti. Sia infatti che si tratti di Parmenide sia di Zenone (la cui interpretazione di ogni studioso non può che dipendere da come questi avrà letto il poema parmenideo) le sue letture hanno radici ben struttu rate e la forza di un’ argomentazione congrua.

Ovviamente il testo che abbiamo provato a raccontare può dare solo una pallida idea della profondità degli studi condotti da l Rossetti ma il palpabile entusiasmo con cui l’Autore ci racconta Parmenide e Zenone, che emerge da ogni pagina, dà anche u n’idea della passione che ha accompag nato questi studi in tanti anni e questo, anche da solo, crediamo valga la sua lettura.

Notas                   

1 Il libro qui recensito, «con piccole modifiche», come precisa l’Autore stesso a p. 7, è l’edizione italiana di un testo pubblicato in spagnolo l’anno precedente (Rossetti, 2019).

2 Queste pagine, l’indice, la presentazione di Mariana Gardella Hueso ed alcune pagine del secondo capitolo, si possono leggere in un estratto del testo che la casa editrice rende disponibile online all’indirizzo: http://blog.petiteplaisance.it/wpcontent/uploads/2020/01/Invito-alla-lettura_Parmenide-e-Zenone-sophoi-adElea.pdf (consultato il 22 luglio 2020).

3 Che non sono certamente da meno, come evidenzia l’Autore stesso ad ogni occasione. Per esempio, rispetto alle scoperte astronomiche di Parmenide, sottolinea il Rossetti, le teorie cosmologiche elaborate da Aristotele appaiono «tutte fantasie prive di qualunque riscontro”(p. 118).

4 Per farsi un’idea della ricchezza della «possanza», per dirla con l’Autore, epistemologica e scientifica che essi continuano ad avere, segnaliamo due testi, tra l’altro molto diversi tra loro: uno di Hofstadter (1984), in cui i personaggi zenoniani Achille e la Tartaruga accompagnano il lettore lungo tutto il libro in quella che l’autore definisce fin dal sottotitolo «Una fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll»; l’altro di Mazur (2019).

5 “Piacevole”(p. 40-49) la spiegazione della differenza tra paradossi ed enigmi che punta a far capire come l’essenza di un paradosso, che ne garantisce la longevità, sia proprio la sua irresolubilità.

6 Per il Rossetti è «una mera fantasia» (p. 33) anche se sembra tenerne conto nell’indicare la cronologia di Parmenide (p. 30, n. 1).

7 Per l’approfondimento del concetto di «filosofia virtuale» nella terminologia rossettiana si rimanda a Rossetti, 2017 a.

8 Neanche vi fa cenno nelle conclusioni (p. 136) dove annota solo la «conquista» dell’interessamento a ll’omosessualità e le sue conseguenz e.

9 Ove il noto ‘mito della mela’ non vuole essere altro che la dimostrazione della superiorità dell’uomo sulla donna e dell’amore omosessuale maschile su ogni altro.

10 In questo  senso l’Autore, piu ttosto  che  accomunarlo  ad  Anassimandro, Anassimene, Eraclito, o Senofane, scrive che Parmenide «ha qualcosa in comune con Talete» (p. 124) il quale «difficilmente pervenne ad elaborare un suo modo di rappresentarsi la totalità» (p. 120-121).

Referências

CAVARERO, A. (1990). Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica. Roma, Editori Riuniti.

DE SANTILLANA, G. (1985). Fato antico e fato moderno. Milano, Adelphi.

GADAMER, H. G. (2018). Parmenide.A cura di C. Saviani. Traduzione di G. Bongo. Napoli, La scuola di Pitagora.

HOFSTADTER, D. H. (1984). Gödel, Escher, Bach: un ’Eterna Ghirlanda Brillante. Milano, Adelphi.

MANSFELD, J. (2015). Parmenides from Right to Left. Études platoniciennes 12, e ID=699.http://journals.openedition.org/etudesplatoniciennes/699.

MAZUR, J. (2019). Achille e la tartaruga. Il paradosso del moto da Zenone a Einstein. Milano, Il Saggiatore.

ROSSETTI, L. (2017 a). La filosofia virtuale di Parmenide, Zenone e Melisso. Uno sguardo a lle prossime Lezioni Eleatiche. Archai 21, p. 297-333.

ROSSETTI, L. (2017b).Un altro Parmenide. 2 vols. Bologna, Diogene Multimedia.

ROSSETTI, L. (2019). Parménides  y  Zenón, sophoí en  Elea. Traducción de Alejandro Mauro Gutiérrez et al. Buenos Aires, Teseopress.

Marco Montagnino – Università degli Studi di Palermo – Palermo – Italia. E-mail: marco.montagnino@unipa.it

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Venticinque studi sui preplatonici – CASERTANO (RA)

CASERTANO, G. Venticinque studi sui preplatonici. Pistoia: Petite plaisance, 2019. Resenha de: SANTOS, José Gabriel Trindade. Revista Archai, Brasília, n.30, p 1-7, 2020.

A Obra em apreço é uma coletânea de estudos, publicados entre 1976 e 2015, dedicados aos pensadores habitualmente chamados “presocráticos”, aqui acompanhados pelos sofistas. Precedida de quatro ensaios que abordam temas e questões relativas à Antiguidade, a Obra inclui estudos sobre Escolas filosóficas e pensadores avulsos: Epiménides, Jónicos, Pitagóricos, Parménides, Heraclito, Empédocles, Demócrito e Górgias, terminando com um ensaio sobre “Hegel e os sofistas”.

Deve se advertir o Leitor de que não se encontra perante um trabalho escolástico, de introdução à filosofia grega, pensado para cobrir as problemáticas mais relevantes nas obras dos pensadores da tradição, mas como uma recolha de textos, importantes pela sua qualidade e pela relevância da problemática tratada. Como cada um deles documenta uma empresa original de pesquisa nas temáticas eleitas pelo A., todos guardam ainda hoje uma frescura que os preserva da desatualização. Mesmo os dedicados a Empédocles, anteriores ou contemporâneos da onda de publicações que registram as primeiras conclusões atingidas pelas tentativas de reconstrução do “papiro de Estrasburgo”(2004-2005),  são  aceitáveis,  embora continuem a se referir aos Poeta-filósofo como autor de “dois poemas”.

Por outro lado, o rigor científico que os caracteriza, assinalável n a  riqueza  e  atualidade  das  referências  bibliográficas  que incorporam, não mascara o envolvimento pessoal do A. na pesquisa, revelando não apenas uma prática docente atenta e responsável, mas uma visão genuinamente filosófica, animando o diálogo mantido que r com as fontes originais, quer com a bibliografia secundária.

Dois  aspectos  que  cumpre  salientar  nestes  ensaios  são  o equilíbrio e o bom-senso exigidos a um docente e investigador, quando se sente obrigado a tomar publicamente partido na avaliação de teses envolvidas em controvérsia. Anos passados sobre algumas das muitas polêmicas que nalgum momento dominaram os estudos de Filosofia Antiga em muitas Universidades, a sobriedade dos juízos oportunamente emitidos pelo A. sobre as questões em debate faz a inda hoje prova da sua clarividência. São disso excelente exemplo alguns ensaios, aqui trazidos à estampa, como “Tempo, movimento e morte nella filosofia degli Ionici”(1989), ou “ΠΙΣΤΟΣ ΛΟΓΟΣ ed AΠΑΤΗΛΟΣ ΚΟΣΜΟΣ ΕΠΕΩΝ in Parmenide di Elea”(1976), “Orfismo e pitagorismo in Empedocle”(2000) e “L’ambigua realtà del discorso nel Peri tou me ontos di Gorgia”(1995).

Este traço crítico avulta no debate sobre as interpretações de que tem sido objeto o Poema de Parménides, iniciado pelo primeiro dos estudos citados acima. Neste ponto, a posição do A. é exemplar, pela defesa que fez da necessidade de repensar a caracterização de Parménides como “o filósofo do ser”e levar na devida conta o extenso material coletado, relativo à Opinião (doxa). Resumindo a posição as sumida em Parmenide: il metodo, la scienza, l’esperienza (1978), os argumentos enumerados nas “Noterelle parmenidee”(1989) e espalhados por outros estudos insistem num conjunto de recomendações às quais só muito recentemente (depois de 2012) a Crítica começou sistematicamente a prestar atenção:

  1. é necessário liberar  a  nossa  interpretação  dos presocráticos, em particular de Parménides, das leituras a que são submetidos por Platão e de Aristóteles (este, pouco claro com Parménides e clamorosamente injusto par a com Melisso: ver “Aristotele critico di Parmenide”: 2009), e descontar o peso e a influência que exercem nas tradições doxográfica e historiográfica;
  2. é necessário analisar  e esclarecer o  protagonismo concedido à entidade designada como o “ser de Parménides”, objeto perseguido por dezenas de comentadores, “praticamente como se a segunda parte do Poema não existisse”;
  3. é necessário criticar e superar a liquidação, como ”erro”, “ilusão”, “mera opinião”, do questionamento crítico desenvolvido por Parménides nos fragmentos relativos aos eonta.

Outro texto em que a acurada leitura do A. se revela atual é, por exemplo, “Logos e nous in Democrito”(1980), no qual aponta a profunda coerência entre as teses físicas e as éticas, defendendo a interpretação  de  um  pensador  que  não  pode  ser  considerado “materialista”, nem “racionalista”– no sentido que atribuímos hoje a essas categorizações –, apesar de ter decisivamente contribuído para elas e como tal tenha sido entendido na tradição.

Não se pode, porém, deixar de prestar a maior atenção aos estudos que dedica aos dois maiores sofistas: Górgias e Protágoras. Em “Astrazione ed esperienza: Parmenide e Protagora”(1988) compara duas concepções sobre a doxa, profundamente interligadas pelo nexo entre sensações e juízos, porém, bem distintos nas estratégias que propõem para aceder à realidade.

A Górgias – que, como Parménides, se acha presente em diversos outros ensaios – são dedicados dois notáveis estudos. No primeiro, acima referido, toda a argumentação do sofista, no tr atado Do não-ser, é pacientemente escalpelizada e apontada à epistemologia eleática, contra a qual sustenta as suas três teses capitais: nada é; se alguma coisa é, não é compreensível pelo homem; se alguma coisa é compreensível, é incomunicável e inexplicável.

Mas é em “Verità, errore e inganno in Gorgia”(1999), que é mais profundamente  estudada  a  estratégia  argumentativa  do  sofista. Através da análise do Elogio de Helena, nos são fornecidos dados sobre a lógica dos argumentos por ele usados. Pois, é mediante a análise a que são submetidos os conceitos operatórios dos quais lança mão que se entende a ’verdade’, como ‘ornamento’ e prova do ‘decoro’ do discurso, e o ‘engano’ como em tudo diferente do ‘erro’. Pois, enquanto o primeiro constitui um caso de “boa persuasão”, porque tem o poder de mover a alma, o segundo é utilizado para “enganar a opinião”, induzida pela aceitação de um discurso falso. Finalmente,  é  pela  harmonização  da  relação  dialética  entre  a qualidade e  os efeitos do  discurso – incompreendida já  por Aristóteles –, que pode se ter acesso ao kosmos do discurso gorgiano. Kosmos que é um erro, seguindo Parménides, interpretar pela tácita aceitação da identidade de ser e pensar, uma vez que, Górgias deixa bem claro que uma coisa é o objeto “fora de nós”, outra é “em nós”o objeto do discurso (Sobre o não-ser §84).

Bom  exercício  de  autocrítica  sobre  a  nossa  percepção  do fenômeno sofístico será enfim colhido pelo estudo atento do difícil ensaio “Hegel e i sofisti”(2000), que encerra a coletânea aqui apreciada. Pois, se algumas das concepções do filósofo alemão podem nos fazer sorrir, pelo fato de só se compreenderem na relação que mantêm com o todo da sua concepção da História da Filosofia, como poderá a nossa própria avaliação escapar a essa mesma crítica?

A terminar, dos estudos ainda não abordados aqui, gostaria de salientar dois. O primeiro, intitulado “Piacere e morte in Eraclito (“Una filosofia dell’ambiguità ”: 1983), ultrapassa claramente os contornos e exigências a que deve atender um estudo analítico sobre a filosofia do Efésio, pela sua estatura filosófica e qualidade poética.

Depois de ter relacionado, não menos de quarenta e sete fragmentos do pensador, envolvendo-os nas teias tecidas pelos comentadores que cita, o A. defende que – à semelhança dos outros termo atrás estudados – o filósofo usa o termo ‘morte’ em diversos sentidos:

[… ] intencionalmente  obscuros,  ambíguos,  mas decerto não privados da sua coerência interna [… ] implantando uma lógica do contraste-identidade (e não  uma  da  não-contradição,  como  Parménides) (281).

É então, partir desse momento, que, seguindo os próprios passos do filósofo ao qual dedicou atenção, o A. inicia o seu percurso sobre os sentidos de ‘vida’, para terminar com uma reflexão “filosófica”sobre a morte.

O homem vive num mundo que não foi dado por si e que nenhum deus lhe ofereceu: já organizado nas suas estruturas físicas… constituído por fenômenos e ritmos [… ] como são, eram e serão eternamente [… ], também nas estruturas políticas e sociais.

Lançado nesse mundo, o homem pode viver a sua vida dormindo, ou vivo, no sentido forte, [… ] estruturando a sua vida a partir de regras de conduta éticas e políticas, pelas quais será um aristos [… ] que, ao afrontar a morte, embora thnetos, é como se fosse athanatos: pois, vi vendo a sua morte, é como se morresse a sua vida (281).

Destacado dos outros, vive, de modo a, com o seu phren e o seu noos, se elevar à compreensão do kosmos e do diakosmos em que vivem os outros, até atingir o logos, pelo qual se torna philosophos. Até, no mais alto do seu ser consciente, se tornar consciente da desaparição definitiva da sua consciência (281-282).

É  então  que,  refletindo  filosoficamente  sobre  a ambiguidade e contrariedade do real, que o senso-comum,  tal  como  o  conhecimento  científico consideram simples, linear e não contraditório, chega a compreender que este mundo fugirá sempre em qualquer parte à captura pelo nosso pensamento, porque o significado e valor deste mundo residem numa lei eterna e universal, uma lei que não poderá jamais ser completamente compreendida e dominada, que é a lei da morte (283-284).

O segundo texto que quero destacar culmina a série de três estudos dedicados a Empédocles. Na sua análise da narrativa do poeta-filósofo de Agrigento (“Amore e morte in Empedocle”: 1999; e “Orfismo e Pitagorismo in Empedocle”: 2000), o A. debate-se com o problema motivado pela coexistência, em dois ou num único Poema, de duas cosmologias dificilmente compatíveis. Surpreendentemente, opta por superá-lo projetando o mito na lenda sobre a v ida do seu autor. Todavia, como a tensão que anima o texto se dissolve no comentário, opto por traduzi-lo, não integralmente, como merece, mas me limitando aos seus dois primeiros parágrafos.

Uma vez fui arbusto e mudo peixe no mar Era uma vez um homem que não tinha sempre sido um homem, mas árvore, pássaro, peixe, fera, deus. Era um deus que era também um homem, venerado, amado, bendito. As criaturas infelizes se aproximavam dele, carentes de uma palavra que soubesse lhes fazer sonhar num amanhã de paz e tranquilidade. Por ser esse homem que era também um deus e tinha sido garoto e garota, árvore, peixe, que tinha ainda sido um deus, uma árvore, um garoto, uma garota, um peixe, era capaz de ver aí onde dez e vinte gerações de homens não conseguiam ver, via no passado e via no futuro. Porque a sua mente, que era o seu corpo, que era todas as mentes e todos os corpos que tinham vivido,  que  viviam  e  teriam  vivido,  permanecia solidamente  ancorada  no  seu  seio,  forte  na  sua mobilidade, ágil na sua firmeza.

Esse homem tinha vivido na Sicília, na loura cidade de Ácragas, que em Fevereiro era circundada pela neve e pelas amendoeiras em flor (e brancas eram as mechas que  lhe  cingiam  a  fronte),  que  em  Junho  era circundada pelo ouro das espigas maduras (e douradas eram a s vestes que lhe envolviam o corpo). Esse homem era um mago: sabia acalmar os ventos; era um físico: sabia como e de quais raízes são constituídas as coisas do mundo; era um filósofo: sabia o ser e o não-ser do pensamento; era um médico: sabia curar os mal es do corpo e os da alma. Uma vez, o seu nome era Empédocles (359).

Referências

CASERTANO, G. (2019). Venticinque  studi  sui  preplatonici. Pistoia, Petite plaisance.

José Gabriel Trindade Santos – Universidade Federal do Ceará – Fortaleza – CE – Brasil. E-mail: jtrin41@gmail.com

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