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Il bisogno di pátria – BARBERIS (CN)
BARBERIS, Walter. Il bisogno di pátria. [Torino]: Einaudi, 2004 e 2010. 141p.. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
“Come figli di una famiglia senza armonia e senza memorie, gli italiani si sono spesso cresciuti da soli, superando la solitudine con cinismo, con opportunismo, con diffidenza, talvolta con esibizionismo. Ignorando le ragioni e l’utilità di una salvaguardia dell’interesse generale. E’ così che l’idea di patria si è di volta in volta caricata di significati che invece di tendere all’unità hanno accentuato visioni faziose, volte all’esclusione.” (p.7)
Con queste parole W. Barberis ripropone la questione della patria, o meglio della mancanza di un’idea di patria per gli italiani, partendo dalla sua considerazione che tale mancanza non ha inizio, come è stato scritto, l’8 settembre 1943, ma ben più in là, almeno cinque, se non quindici, secoli or sono. Egli sviluppa le sua argomentazioni annodandole intorno a tre temi, o meglio, intorno a tre “bisogni”, a ciascuno dei quali dedica quarantadue pagine: il bisogno di Stato, il bisogno di storia, il bisogno di patria.
Quale patria?
“una patria che non disegni i confini di un’identità chiusa, esclusiva; ma che prenda valore dalla consapevolezza della pluralità storica dei suoi volti. Una patria che non dimentichi di richiedere a chi appartenga alla comunità il rispetto delle tradizionali virtù civiche: l’obbligazione fiscale, l’esercizio della giustizia, la difesa delle istituzioni dello Stato.” (p. 10)
Il libro guarda al futuro, sia pure riflettendo sul passato. Si tratta, infatti, di un libro di storia. Perché, ricorda l’autore, ” è la storia ciò di cui ha bisogno un popolo: qualcosa che rimetta in ordine, oltre lo spirito di parte, la dinamica degli avvenimenti e le loro molteplici ragioni.” La memoria ha uno sguardo parziale e, pertanto, non può nutrire che sentimenti patriottici esclusivi; memorie differenti si contendono lo spazio della patria “una” tendendo ciascuna a farsi storia. E’ proprio questa contesa che una società sana deve evitare. E la storia ha esattamente questa funzione: “affidata a protocolli riconosciuti da una comunità scientifica”, attraverso procedure di analisi e interpretazioni, ha il compito di fornire alla comunità intera uno sguardo generale. Barberis esemplifica tutto questo nelle pagine dedicate a sviluppare il tema del bisogno di storia indicando le linee per la costruzione di una “dotazione storiografica comunitaria – se vogliamo nazionale – … [uscendo] dalle contingenze e dalle urgenze della contemporaneità. L’Italia ha una storia millenaria, tutta utile alla definizione dei suoi caratteri attuali e alla possibilità di emendarli.” E qui vengono ricordati i soggetti necessari a costruire una storia d’Italia: la Chiesa innanzitutto, Roma, i municipi, il Mezzogiorno, la Repubblica, la Costituzione.
La storia ci conferma che una comunità priva di un apparato statuale efficiente e condiviso non è davvero tale, poiché ciascuno in misura più o meno grande inclina infine verso il proprio interesse privato, provocando proprio ciò che tanto spesso è stato incolpato agli italiani: opportunismo, trasformismo, dissimulazione, mancanza di senso dello Stato, appunto. Barberis mostrando la necessità di uno Stato per gli italiani ripercorre la storia della sua formazione a partire dalla risposta alla domanda: perché proprio il Piemonte (e non un altro tra gli Stati d’Italia) unificò la penisola fondando lo Stato italiano?
“Il Piemonte, selvatico e periferico, non aveva conosciuto gli splendori della civiltà comunale e signorile… La certezza delle istituzioni, la loro continuità, la prospettiva di durata della dinastia, il suo radicamento territoriale, fecero ciò che non conobbe il resto d’Italia: assicurarono i sudditi che le loro iniziative erano possibili, che avevano i requisiti minimi di riuscita, primo fra tutti il tempo, garante eccellente di ogni contratto…. non furono simpatia, garbo e cultura; ma senso dello Stato, tecnica amministrativa e militare, e anche un certo patriottismo, il bagaglio eccentrico con cui poi i piemontesi si disposero all’incontro con gli altri italiani.”(p. 21)
Il bisogno di patria, la coscienza di appartenere ad un’unica comunità, furono esigenze che si rappresentarono immediatamente dopo la fondazione dello Stato italiano e sono state preoccupazioni presenti finora nella classe dirigente per tutti i centocinquant’anni dal 1861. All’inizio fu soprattutto la letteratura a svolgere il ruolo più importante, si pensi solo alle poesie di Carducci e al Cuore di De Amicis, ma poi dopo la prova tremenda della Grande Guerra, fu il fascismo a forgiare l’idea di patria sovrapponendola alla retorica della guerra, aiutato in questo dalla letteratura futurista. Così si confuse patria con nazionalismo, aggressione e morte, con la guerra appunto.
Oggi, bisogna ricostruire per gli italiani un’idea di patria che escluda non solo guerra ma anche la sopraffazione degli altri popoli , i quali, al contrario, vanno inclusi in un’idea di patria meticciata, alla quale partecipano tutti coloro che hanno la fortuna di abitare un paesaggio unico al mondo, poiché, ricorda Berberis citando Settis, “il nostro bene culturale più prezioso è il contesto, il continuum nel quale si iscrivono monumenti, opere, musei, città e paesaggi, in un tessuto connettivo ineguagliabile… questo è il tratto identitario degli italiani” (p.111). Se questo è vero, come è vero, vuol dire che insegnare storia d’Italia significa insegnare contemporaneamente geografia d’Italia, poiché ciò che conta imparare, va ribadito, è innanzitutto il contesto, di tempo e di spazio.
[IF]City, Country, Empire: Landscapes in Environmental History – DIEFENDORF; DORSEY (PHR)
DIEFENDORF, Jeffry M.; DORSEY, Kurk (Eds). City, Country, Empire: Landscapes in Environmental History. Pittsburgh: University of Pittsburgh Press, 2005. Resenha de: SEARBY, Rose. Public History Review, v.14, 2007.
Jeffry Diefendorf and Kurk Dorsey’s edited collection of essays, City, Country, Empire: Landscapes in Environmental History, is ambitious in undertaking to broaden the relevance and appeal of environmental history for historians and provide significant directions and challenges for the field. At the heart of the collection of fifteen essays is the examination of the way human societies create concepts of nature and work with them to expand ideas about cities and landscapes.
By dividing the thoroughly researched, strong essays into the topics of cities, countryside and empire, Diefendorf and Dorsey illustrate the diversity of current research in environmental history whilst at the same time establishing a continuum amongst it as they take the reader from ‘specific urban settings, to broader suburban and rural areas, to an international context.’ (p2) The editors’ comprehensive introduction presents a useful overview of the development of the field of environmental history over the past three decades in America which provides a helpful context for the essays. Equally, introductions at the beginning of each of the three parts of the collection also serve to tie together the themes of city, country and empire.
Taken together, however, the essays explore topics that are larger than the sum of their parts. In this respect, the editorial arrangement of the essays is not as effective as it could be, as the essays are also connected through a number of alternative themes.
Four such themes which are prominent in the collection are, firstly, the concept that nature is a force that cannot be overlooked, a significant and persuasive theme, especially considering the editors’ comment that nature ‘has not penetrated the mainstream of historical thinking to the same extent that race, class, and gender have’ (p1). Secondly, ideas on the re-use of land are specifically explored, for example in Ursula von Petz’s essay on the restoration of the Ruhr Valley. A third theme looks at contentions surrounding ideas of land attachment, as explored by Elizabeth Blackmar in ‘Of Rights and Reits’, where she argues that real estate investment trusts reflect absentee ownership and sever connections to the land by putting development in the hands of corporations, thus removing responsibility from the community. And lastly, the idea of the environment as interconnected through process and systems that are ongoing and dynamic is a significant theme that runs throughout all of the essays in the collection while being specifically explored in Andrew Isenberg’s ‘The Industrial Alchemy of Hydraulic Mining’.
Given the editors’ emphasis on the importance of the internationalisation of environmental history and the call by the eminent founder of the field, Alfred Crosby, in the ‘Afterward’ for environmental historians to widen their considerations from the local to the global, some might find the fact that the essays are predominantly focused on American environmental history somewhat surprising and parochial. The editors’ introduction, ‘Challenges to Environmental History’, does, however, provide a necessary widening of the context for the essays, and the discussion of the internationalisation of the field as illustrative of its development and vitality outside America is welcome here.
Environmental history by its nature lends itself to exploring the local with a global perspective and in this respect historians will be able to consider the significance of some of the essays for the Australian context. Nancy Langston in ‘Floods and Landscape in the Inland West’, for instance, explores the complex and contested relationship between farmers, ranchers, irrigation developers and scientists over water rights in the changing landscape of Oregan’s Malheur Basin. Her essay raises questions about how human responses to flood plains and waterways have shaped landscapes and identities, questions that are equally relevant and significant in Australia. Specific to Australia, too, is Thomas R. Dunlap’s ‘Creation and Destruction in Landscapes of Empire’ which examines the interaction between Anglo-American settlers and the landscapes of Australia, New Zealand and North America, and argues that settlement is a continual process of both a natural (physical) and psychological nature.
In the ‘Afterword’ to the collection, Crosby proposes that ‘the greatest challenges facing humans in general in this new millennium are environmental in nature’ (p232).
While historians of the environment have been answering Crosby’s call to understand the relationship of humans to their physical and living surroundings for some time now, the collection reinforces this need and at the same time opens up the relatively recently defined discipline of environmental history to the history profession more generally, emphasising its relevance and interdisciplinary roots. In this respect, the collection is a valuable resource for anyone who seeks to understand how environmental change and ecological processes dovetail with human and non-human histories whilst more specifically providing a well researched and broad ranging introduction to the field of environmental history.
Rose Searby – Faculty of Humanities and Social Sciences, University of Technology, Sydney.
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