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City of beasts: how animals shaped Georgian London | Thomas Almeroth-Williams
Durante a Era Georgiana (1714-1830), Londres consolidou sua posição como centro financeiro mundial. A cidade se expandia com a construção de edifícios, de ruas e avenidas e a criação de parques e jardins. No porto, as grandes docas fervilhavam com embarcações nacionais e estrangeiras, trazendo produtos e mercadorias vindos de diferentes partes do globo. A cidade se tornara uma metrópole, com mais de 700 mil pessoas, mas a população de viventes era ainda maior. Invisíveis à primeira vista, os animais possuíam importante papel na conformação social, econômica e urbana, como assevera Thomas Almeroth-Williams (2019), pesquisador associado do Centre for Eighteenth Century Studies da Universidade de York, em seu livro City of beasts: how animals shaped Georgian London.
Fruto de uma pesquisa de 10 anos, Almeroth-Williams expõe a contribuição dos animais no cenário londrino e os desafios enfrentados por esses e por seus senhores. Londres, no começo do século XVIII, consumia semanalmente cerca de três mil ovelhas e bois, em conjunto com toneladas de outros gêneros alimentícios. Na época, era considerada uma cidade que a tudo e a todos devorava. Além do trânsito desses animais para abate, mais de 31 mil cavalos e milhares de cães e gatos circulavam em seus parques, ruas e avenidas. Números impressionantes, mas que não obtiveram a atenção por parte da historiografia britânica, como observado no Cambridge urban history of Britain e em outras biografias da cidade. A preocupação dessas e das demais pesquisas sobre o tema, segundo o autor, residia nas questões associadas à crueldade animal e ao surgimento do apelo humanitarista. Leia Mais
US public diplomacy in socialist Yugoslavia 1950-70. Soft culture cold partners | Carla Konta (R)
Carla Konta | Foto: Narod HR |
Dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, un numero crescente di studi ha affrontato il tema delle relazioni internazionali da una prospettiva diversa, non limitata alla dimensione della diplomazia tradizionale, ma diretta ad esaminare aspetti in precedenza trascurati, relativi ad esempio all’uso della cultura come strumento per promuovere l’immagine di un paese all’estero e quindi come risorsa essenziale nell’ambito della politica internazionale. La public diplomacy, insieme al soft power di cui questa rappresenta una delle principali espressioni, è così diventata la protagonista di un ricco filone di ricerche, animato in gran parte dalla storiografia anglosassone. Facendo spesso riferimento ai noti lavori di Joseph Nye, numerosi ricercatori hanno sviluppato su diversi versanti geografici e cronologici il tema del soft power, declinandolo principalmente attraverso la prospettiva della diplomazia culturale o, appunto, della public diplomacy, il cui rapporto con la cultural diplomacy è stato interpretato in modo non sempre univoco [1]. Una parte importante degli studi prodotti si è occupata, prevedibilmente, anche se non in modo esclusivo, del caso statunitense nel periodo della Guerra fredda: a tale proposito, il soft power, la diplomazia culturale e la public diplomacy erano visti come indispensabili risorse a disposizione della superpotenza americana per aumentare la propria influenza all’estero soprattutto in funzione di contenimento e contrasto dell’Unione Sovietica [2].
È in questa cornice che si colloca il volume di Carla Konta, ricercatrice formatasi alle Università di Fiume (Croazia) e Trieste, che ha già dedicato diversi studi in particolare alle relazioni fra Stati Uniti e Jugoslavia socialista, da una prospettiva spesso metapolitica, interessata in special modo alla dimensione culturale e all’interazione di idee e ideologie nella proiezione di una determinata immagine degli USA in Europa [3]. Il filo conduttore del volume, che analizza i rapporti fra Stati Uniti e Jugoslavia dal 1950 al 1970, è il soft power esplicato dalla public diplomacy statunitense nelle sue diverse articolazioni, ma in modo particolare l’azione esercitata dalle due agenzie protagoniste della propaganda culturale americana in Jugoslavia, l’USIA (United States Information Agency), che elaborava le linee strategiche da Washington, e l’USIS (United States Information Service), che operava sul territorio jugoslavo. Il volume fa in parte riferimento al filone di studi, ben rappresentato dalla storica serba Radina Vučetić, relativo al «Coca-Cola Socialism», ovvero alle modalità dell’adozione di alcuni aspetti del consumismo occidentale e in particolare americano nel contesto della Jugoslavia socialista, soprattutto negli anni Sessanta [4].
Il terminus a quo temporale da cui muove l’indagine è l’espulsione della Jugoslavia di Tito dal Cominform nel giugno del 1948 e il conseguente avvicinamento agli Stati Uniti, il cui obiettivo sarà, specialmente nella fase più acuta della Guerra fredda, durante le amministrazioni Truman e Eisenhower, di sostenere la Jugoslavia in funzione antisovietica [5]. Gli Stati Uniti però non si limitarono a supportare il regime di Belgrado dal punto di vista finanziario e militare, ma avviarono un’articolata politica di public diplomacy nel paese socialista, allo scopo di trasmettere una certa immagine dell’occidente filtrato attraverso il prisma dell’american way of life. Non si trattava di un compito semplice, perché la macchina del soft power doveva dimostrare la superiorità del modello americano, rappresentato sostanzialmente dal connubio fra libertà politiche e libertà economiche, senza tuttavia criticare direttamente il modello opposto, quello del socialismo pianificato. Condivisibile è l’impostazione del volume, per cui le attività di public diplomacy, che avevano effettivamente finalità di carattere propagandistico – portate avanti in modo spesso indiretto e allusivo – non possono essere sbrigativamente e superficialmente ridotte ad una manifestazione dell’imperialismo americano. Si trattava piuttosto di un delicato gioco delle parti fondato su un complesso equilibrio, per cui gli Stati Uniti tentavano di fare leva sulla diversità jugoslava e sulla sua peculiare collocazione internazionale per attirare a sé, per mezzo degli strumenti della cultura, la società e parti dell’intelligencija e della classe politica più giovane e aperta alle novità che giungevano d’oltreoceano. D’altra parte, la Jugoslavia accettava le attività americane in quanto aveva bisogno dell’appoggio di Washington e poiché teneva a dimostrare all’occidente le proprie peculiarità – l’autogestione, il «socialismo dal volto umano» –, che la distinguevano dal conformismo filosovietico dei paesi del «socialismo reale».
Tramite un approfondito lavoro di ricerca condotto principalmente negli archivi americani, serbi e croati e basato inoltre su un’ingente mole di documenti diplomatici editi, su una serie di interviste e sulla consultazione di periodici e letteratura specialistica, Carla Konta ricostruisce in modo puntuale e dettagliato l’evoluzione della public diplomacy americana in Jugoslavia, attraverso sei capitoli, più l’introduzione e la conclusione, in cui vengono analizzati tutti gli strumenti impiegati dalla propaganda culturale americana. Fra questi strumenti, gestiti dagli uffici dell’USIS attivi in Jugoslavia, vi erano le biblioteche americane, la distribuzione di riviste quali «Life», «Time», «Newsweek», oltre a riviste di moda – si scopre fra l’altro che degli abbonati alla stampa americana vivevano anche nei piccoli centri di campagna –; inoltre, la diffusione di musica americana (la sound diplomacy), attraverso le trasmissioni radio di Voice of America. L’atteggiamento delle autorità jugoslave era mutevole, per cui pur permettendo l’esplicarsi delle attività culturali americane, a volte si tendeva a stringere le maglie, ad esempio nei momenti di maggiore tensione internazionale, quando più forti erano le pulsioni antioccidentali alimentate dalla propaganda governativa: nel 1953-54 per la questione di Trieste o, successivamente, durante la guerra del Vietnam [6].
Uno dei maggiori pregi del volume di Carla Konta è proprio quello di evidenziare l’ambivalenza del rapporto fra Stati Uniti e Jugoslavia sul piano delle relazioni culturali: se da un lato ad esempio i film e le canzoni americane ebbero un grande successo – Tito stesso amava i film western e apprezzava la musica jazz e rock [7] –, dall’altro le autorità diffidavano di quel crescente successo in ampli strati della popolazione e in modo particolare fra gli studenti e gli intellettuali. L’appeal esercitato dagli Stati Uniti interessava gruppi sociali variegati: ad esempio, le donne che alla fiera americana di Zagabria potevano ammirare gli elettrodomestici di ultima generazione e i supermercati american style o gli studenti che grazie alle borse Fulbright o della Ford Foundation potevano entrare in contatto con gli ambienti più dinamici del mondo culturale e universitario statunitense.
Proprio il fatto che la Jugoslavia fosse una realtà socialista diversa e più aperta rispetto ai regimi comunisti dell’Europa orientale implicava quindi una maggiore possibilità di penetrazione dell’influenza americana – in particolare dal punto di vista culturale –, ma questo fatto a sua volta portava ad alimentare la diffidenza di una parte dei funzionari di partito per un’attività che minacciava di influenzare in senso filo-occidentale e anticomunista particolarmente le giovani generazioni. Tuttavia – sottolinea a ragione l’autrice – nonostante i dibattiti di carattere ideologico che caratterizzavano la parte più ortodossa del partito sull’incompatibilità fra marxismo e consumismo occidentale, era pur vero che proprio il consumismo, cui guardava l’economia di mercato socialista varata in Jugoslavia alla metà degli anni Sessanta, rendeva il modello americano particolarmente interessante agli occhi del regime di Tito. Non a caso, i primi supermarket aperti in Jugoslavia fra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta – la «supermarket revolution» di cui parlava Dennison Rusinow [8] – si ispiravano precisamente a quel modello. Dopotutto, probabilmente fu in gran parte l’adozione dei paradigmi consumisti occidentali e quindi il raggiungimento di un relativo benessere, specialmente se paragonato agli standard di vita medi del «socialismo reale», ad aver consentito alla Jugoslavia di vantare, fra gli anni Sessanta e Settanta, una coesione interetnica che la crisi degli anni Ottanta avrebbe compromesso, dando il via alla dinamica che avrebbe successivamente portato all’implosione degli anni Novanta, lungo le linee di frattura dei contrapposti nazionalismi [9].
I rischi insiti nell’uso della categoria euristica del soft power, fra cui quello di sopravvalutare gli effetti della public diplomacy o della diplomazia culturale sulle realtà cui si rivolgono, sono evidenti [10]; d’altra parte, è necessario tener presente l’osservazione di Joseph Nye, secondo il quale lo scopo del soft power è di creare determinate condizioni che possono essere poi sfruttate sul piano politico, benché i concreti risultati politici delle attività culturali non siano agevolmente quantificabili [11]. Ad esempio, nel volume si evidenzia come molti importanti esponenti della dissidenza jugoslava, riunitisi fra gli anni Sessanta e Settanta intorno alla rivista «Praxis», avessero trascorso soggiorni di studio negli Stati Uniti, entrando così in contatto con pensatori marxisti quali Herbert Marcuse e Howard Parsons, che fra l’altro avevano a loro volta partecipato a un’edizione della scuola estiva organizzata dalla rivista sull’isola dalmata di Curzola [12]. Ma in quale misura questi e altri contatti fra intellettuali jugoslavi ed esponenti della cultura americana possano aver contribuito ad orientare i primi verso il dissenso politico non è dato appurare. Carla Konta dimostra di essere ben consapevole delle cautele epistemologiche indispensabili nel momento in cui ci si accosta a categorie concettuali quali il soft power e la public diplomacy, rendendo anche per questo motivo convincente l’impianto metodologico del suo lavoro, che contribuisce decisamente ad arricchire le nostre conoscenze sulla “diplomazia informale” statunitense nella Jugoslavia socialista.
Notas
1. SCHNEIDER, Cynthia P., «Cultural Diplomacy: Hard to Define, but You’d Know It If You Saw It», in The Brown Journal of World Affairs, XIII, 1/2006, pp. 191-203; GOFF, Patricia M., Cultural Diplomacy, in COOPER, Andrew F., HEINE, Jorge, THAKUR, Ramesh (edited by), The Oxford Handbook of Modern Diplomacy, Oxford, Oxford University Press, 2013, pp. 419-435; MELISSEN, Jan, Public Diplomacy, cit., pp. 436-452.
2. NYE, Joseph S., Soft Power. The Means to Success in World Politics, New York, Public Affairs, 2004; MELISSEN, Jan, The New Public Diplomacy. Soft Power in International Relations, London, Palgrave Macmillan, 2005; GRAHAM, Sarah Ellen, Culture and Propaganda. The Progressive Origins of American Public Diplomacy, 1936-1953, London-New York, Routledge, 2016; HART, Justin, Empire of Ideas. The Origins of Public Diplomacy and the Transformation of US Foreign Policy, Oxford-New York, Oxford University Press, 2013; GIENOW-HECHT, Jessica C.E., DONFRIED, Mark C. (edited by), Searching for a Cultural Diplomacy, New York-Oxford, Berghahn Books, 2010; CUMMINGS, Milton C., Cultural Diplomacy and the United States Government. A Survey, Washington D.C., Centre for Artists and Culture, 2003.
3. Ad esempio: KONTA, Carla, Eleanor Roosevelt in Yugoslavia Between Wedge Strategy and Cold War Internationalism, in FAZZI, Dario, LUSCOMBE, Anya (edited by), Eleanor Roosevelt’s Views on Diplomacy and Democracy. The Global Citizen, London, Palgrave Macmillan, 2020, pp. 65-82; ID., Nice to Meet You, President Tito… Senator Fulbright and the Yugoslav Lesson for Vietnam, in SNYDER, David J., BROGI, Alessandro, SCOTT-SMITH, Giles (edited by), The Legacy of J. William Fulbright: Policy, Power, and Ideology, Lexington, University Press of Kentucky, 2019, pp. 241-260.
4. VUČETIĆ, Radina, Coca-Cola Socialism. Americanization of Yugoslav Culture in the Sixties, Budapest-New York, Central European University Press, 2017 [ed. or.: 2012].
5. LEES, Lorraine M., Keeping Tito Afloat. The United States, Yugoslavia, and the Cold War, University Park (PA), Pennsylvania State University Press, 2005.
6. SLUGA, Glenda, The Problem of Trieste and the Italo-Yugoslav Border. Difference, Identity, and Sovereignty in Twentieth-Century Europe, New York, SUNY Press, 2001; MARK, James, APOR, Péter, VUČETIĆ, Radina, OSEKA, Piotr, «‘We Are with You, Vietnam’: Transnational Solidarities in Socialist Hungary, Poland and Yugoslavia», in Journal of Contemporary History, L, 3/2015, pp. 439-464; VUČETIĆ, Radina, «Yugoslavia, Vietnam War and Antiwar Activism», in Tokovi istorije, 2/2013, pp. 165-180.
7. KONTA, Carla, US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70. Soft culture, cold partners, Manchester, Manchester University Press, 2020, pp. 64, 95.
8. RUSINOW, Dennison, Yugoslavia. Oblique Insights and Observations, essays selected and edited by Gale STOKES, Pittsburgh (PA), University of Pittsburgh Press, 2008, pp. 26-41.
9. LUTHAR, Breda, PUŠNIK, Maruša (edited by), Remembering Utopia: The Culture of Everyday Life in Socialist Yugoslavia, Washington, New Academia Publishing, 2010; PATTERSON, Patrick Hyder, Bought and Sold: Living and Losing the Good Life in Socialist Yugoslavia, Ithaca, Cornell University Press, 2011.
10. Ad esempio si veda KEARN, David W., «The hard truths about soft power», in Journal of Political Power, IV, 1/2011, pp. 65-85.
11. Cit. in KONTA, Carla, US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70, cit., p. 171.
12. Ibidem, pp. 157-158.
Stefano Santoro è ricercatore (RTDb) in Storia dell’Europa Orientale al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste, con abilitazione scientifica nazionale come professore associato. Fra le sue pubblicazioni: L’Italia e l’Europa orientale. Diplomazia culturale e propaganda 1918-1943 (Milano, FrancoAngeli, 2005), Dall’Impero asburgico alla Grande Romania. Il nazionalismo romeno di Transilvania fra Ottocento e Novecento (Milano, FrancoAngeli, 2014); a curato, con F. Zavatti, Clio nei socialismi reali. Il mestiere di storico nei regimi comunisti dell’Europa orientale (Milano, Unicopli, 2020).
KONTA, Carla. US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70. Soft culture, cold partners. Manchester: Manchester University Press, 2020, 193p. Resenha de: SANTORO, Stefano. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.45, n.1, mar. 2021. Acessar publicação original [IF].
The politics of vaccination: a global history | Christine Holmberg, Stuart Blume e Paul Greenough
A literatura recente do campo da saúde tem se dedicado amplamente ao debate sobre a relação entre proposições que ganham o tom de “medidas globais” e as tensões referentes à aplicação de tais modelos em nível local. A ideia de que determinados agravos e temas podem ser pensados em termos de uma “saúde global” impõe a gestores, profissionais da ponta e pesquisadores reflexões sobre os limites da relação entre o aspecto local das práticas de saúde e suas conexões com outras instâncias. Nesse sentido, um ponto central parece emergir: como articular estratégias globais a contingências e caracteres locais? Ou melhor, quais os limites das políticas e práticas no contexto da saúde global? As perguntas são importantes em um momento no qual as vacinas estão no centro de críticas e ataques de grupos negacionistas, sobretudo religiosos. Ponderações eloquentes a esses questionamentos e ao negacionismo científico contemporâneo estão na base da coletânea The politics of vaccination: a global history , organizada por Christine Holmberg, Stuart Blume e Paul Greenough.
O livro é dividido em três partes temáticas e prioriza estudos que versam sobre as décadas de 1950 em diante, abrangendo, assim, experiências de regiões pertencentes a Ásia Oriental, África Ocidental, Américas e Europa. A primeira seção, “Vaccination and national identity”, acompanha políticas de vacinação e sua contribuição para o fortalecimento das identidades nacionais. Nela se destacam três estudos. Paul Grennough investiga a contribuição do combate à varíola no Paquistão Oriental em 1958, durante a Guerra Fria, para o modelo de erradicação global da doença. Em seguida, Niels Brimnes contextualiza os movimentos de oposição à campanha contra tuberculose (BCG) na Índia nos anos seguintes à independência. Posteriormente, Dora Vargha Examina a ação dos Estados comunistas da Europa Oriental e aponta como o combate contra a poliomielite na Hungria, em 1959, serviu de inspiração à OMS, no ano seguinte. Leia Mais
The European Union in Africa: Incoherent policies/ asymmetrical partnership/declining relevance? | Murizio Carbone
African and European affairs are intimately and historically entwined. The twentieth first century, however, has been characterized by the ascension of a relatively new player: the European Union (EU). It was not until the 1990s, with the advent of a Common Foreign and Security Policy (CFSP) and the Common Security and Defence Policy (CSDP), which were added together with more traditional external policies, such as trade and development, that the EU acquired a “proper” foreign policy dimension.
With these characteristics in mind, “The European Union in Africa”, originally released in 2013 and re-released in paperback in 2016, is a collection of papers written by different experts on the field of European studies. It is edited by Maurizio Carbone1 and endeavours to evaluate the EU’s foreign policy in Africa in the twenty-first century. The volume aims to challenge traditional views enclosed in the subtitle: “incoherent policies, asymmetrical partnership, declining relevance?”. Leia Mais
European Empires and the People: Popular responses to imperialism in France, Britain, the Netherlands, Belgium, Germany and Italy – MACKENZIE (LH)
MACKENZIE, John M. European Empires and the People: Popular responses to imperialism in France, Britain, the Netherlands, Belgium, Germany and Italy. Manchester: Manchester University Press, 2011, 242 pp. Resenha de: REIS, Célia. Ler História, n.67, p. 190-193, 2014.
1 Há várias décadas que o editor deste livro, John M. Mackenzie, se dedica a estudar as manifestações do imperialismo na vida cultural da metrópole e da identidade nacional e aqui continua nesse campo de trabalho. Se isto é, incontestavelmente, importante, este volume da série «Studies in Imperialism» (dirigida pelo mesmo) ainda se mostra mais relevante ao seguir uma linha que não é habitual: a comparação entre os casos de seis países, França, Grã-Bretanha, Holanda, Bélgica, Alemanha e Itália. Com esse fim, em Julho de 2009, MacKenzie reuniu à sua volta – em todo o sentido da palavra porque o encontro ocorreu na sua própria casa – quatro investigadores de vários países (a exceção foi apenas Giuseppe Finaldi, impossibilitado pela sua estadia na Austrália) e com eles discutiu as diversas questões que resultaram nesta obra; o trabalho continuou depois através dos novos meios de comunicação. Encontramo-nos assim perante o que o editor considerou mais uma coautoria do que uma coleção de ensaios (p. 16).
2 O resultado foi um livro cujo tema central é, como se encontra logo na introdução, a “colonização da consciência” (‘colonisation of consciousness’) e o “imperialismo internalizado” (‘internalised imperialism’), expressões que MacKenzie foi buscar às obras de Comaroff e D. A. Low (p. 1), usadas inicialmente noutros contextos mas que aqui correspondem, fundamentalmente, ao desenvolvimento da ideia imperial entre as próprias populações de cada Estado, entre os finais do século XIX e a primeira metade da centúria seguinte. Com efeito, como se assegura, o imperialismo correspondeu a um processo múltiplo, que se alargou não só às populações indígenas e colonos mas igualmente aos habitantes metropolitanos (p. 6). Assim, a leitura proporciona-nos a análise de situações diferenciadas mas que, no seu global, nos situam perante duas abordagens principais: a procura da conciliação entre os efeitos económicos do imperialismo e os seus resultados sociais, canalizando as tensões internas para outra dimensão; a apreciação das particularidades culturais e de propaganda do imperialismo, a parte com maior destaque na sucessão das páginas do livro. Ou, visto numa outra via, e considerando que a realidade é mais complexa, numa infiltração entre o social e o cultural (pp. 4-5).
3 A conjugação de todos estes elementos tem na sua base um aspeto não menos relevante: o «outro». Para além do nativo dos territórios ultramarinos, sobre quem se desenvolveram teorias raciais da diferença integradas no contexto do darwinismo social, ou do colono, o imperialismo teve como pano de fundo as relações intereuropeias. Com efeito, estava-se perante um facto transnacional, desenvolvido numa teia de relações muito diversas entre os Estados. Apesar das rivalidades, evoluíram no mesmo processo, fomentando formas e teorias comuns – «learned from and copied each other» (p. 7); mesmo os americanos e japoneses assumiram estes modelos. E, não obstante as variantes nacionais, os diversos capítulos apelam frequentemente ao uso de meios similares. Mas em relação ao «outro» cresceram também as competições, os ressentimentos e o medo, dos «inimigos» tradicionais (entre a França e a Inglaterra, por exemplo), ou dos novos, criados pelas ambições dos competidores e que foram mudando num contexto que em muito alargava as fronteiras ultramarinas.
4 Neste contexto, na obra são consideradas instituições e formas de transmissão da ideia imperial. O período sobre o qual se debruça, aliás, potencializava esta propagação: desenvolvia-se a escolarização, propagavam-se os meios de comunicação de massas, alargava-se o sufrágio, expandiam-se os mercados de consumo, surgiam novas disciplinas e técnicas, etc. As instituições culturais, políticas, religiosas, científicas, educativas, ou outras, assumiram um papel preponderante, com a criação de museus, organização de exposições, realização de cerimoniais, integração dos temas nos currículos escolares, publicação de livros das mais variadas formas, criação de heróis nacionais, difusão de imagens, monumentalização de factos e pessoas, entre outros, de que os diferentes autores vão dando conta. Entre as instituições um papel destacado é concedido às de evangelização das diferentes confissões: para além do seu conhecido e desconhecido papel na pregação e no alargamento da influência dos Estados europeus por terras ultramarinas, o destaque dá-se aqui ao seu papel na difusão do imperialismo nas metrópoles.
5 Estas questões mais gerais ganham lugar na individualidade de cada um dos Estados, considerados em cada capítulo e mostrando que houve diferentes níveis de aceitação dos factos imperiais.
6 Berny Sèbe, em «Exalting imperial grandeur: the French empire and its metropolitan public», mostra como, apesar das dificuldades metropolitanas e da importância dos valores agrários em França, se sustentou o interesse pela expansão ultramarina. Vindo já de épocas anteriores, ele converteu-se numa parte importante das ideias da III República e incrementou-se ao longo do tempo, entrando na cultura popular. Se o período entre guerras conheceu maior incremento, ganhou ainda maior dimensão durante com a II Guerra, como contraponto à fraqueza interna. O momento final do seu colonialismo foi, deste modo, o do seu paroxismo.
7 O capítulo dedicado à Grã-Bretanha, «Passion or indifference: popular imperialism in Britain, continuities and discontinuities over two centuries», é devido ao próprio John M. MacKenzie, que aqui reafirma as suas anteriores proposições sobre o imperialismo na cultura popular: apesar da contestação oferecida por alguns autores, são considerados os sinais que, de formas diversificadas, mostram o encantamento com o império. Na sua conclusão, “apesar nem sempre visível, o imperialismo popular esteve sempre presente” (p. 82) – todavia, apesar da sua expressão desde o século XVIII, foi no final de oitocentos que assumiu maior peso na cultura popular.
8 Envolvida no colonialismo desde o século XVII, ao iniciar-se o século XX a Holanda estava essencialmente ligado a dois espaços, as Índias holandesas e a África do Sul. Ao longo do capítulo três, «Songs of an imperial underdog: imperialism and popular culture in the Netherlands, 1870-1960», Vincent Kuitenbrouwer examina como a ideologia imperial se tornou parte importante no processo de desenvolvimento da afirmação da identidade nacional, ligada à modernidade – apesar da incerteza experimentada por um pequeno país com um grande império colonial (p. 118). Prossegue até aos traumas suscitados pelos efeitos da II Guerra, da descolonização e do apartheid.
9 Matthew G. Stanard escreveu «Learning to love Leopold: Belgian popular imperialism, 1830-1960» onde se dedica ao estudo da alteração de atitudes em torno da figura do rei Leopoldo II, de mal-amado a celebrado, e da relação com os belgas com as suas colónias, da indiferença ao entusiasmo. Em todo este processo, a ameaça alemã proporcionou uma mudança, que se desenvolveu pelas atividades internas, organizadas com este fim.
10 Apesar da Alemanha só ter possuído colónias entre 1884 e 1918, a ideia imperial prolongou-se no tempo, numa aspiração ao que o país deveria ter, como destacou Bernhard Gissibl em «Imagination and beyond: cultures and geographies of imperialism in Germany, 1848-1918» (p. 161). Com efeito, já anteriormente à unificação se constatava o assunto; apesar dos efeitos do Tratado de Versalhes, as fantasias imperialistas resistiram através de uma variedade de formas, almejando a satisfação de necessidades nacionais – embora não se tenham manifestado especialmente para com as colónias durante o nazismo. Porém, a ligação entre o nacionalismo e o colonialismo não foi similar em todos os grupos nem em todo o país.
11 Para concluir, no último capítulo, «’The peasants did not think of Africa’: empire and the Italian state’s pursuit of legitimacy, 1871-1945», Giuseppe Finaldi observa como a ligação entre o imperialismo e o Estado prosseguiu ao longo dos regimes que se sucederam entre a unificação e a II Guerra Mundial: o império tornou-se essencialmente a mensagem de comunicação Estado/povo, envolvendo a todos numa «cidadania comum» (p. 224), um esforço para ligar o povo com os vários regimes (p. 196). Neste sentido contradiz a frase de Levi que colocou no título, pois considera que o império se tornou, se facto, um sonho generalizado.
12 Apesar da pertinência de toda a sua análise, o livro enferma de algumas lacunas, aliás reconhecidas na própria introdução. Assim, num nível mais geral não é contemplada a descolonização. Mas se esta é uma decisão que engloba todos os países, podemos considerar que a omissão é mais grave deixando a Espanha e Portugal de fora, por razões de espaço. Se o primeiro destes Estados atravessava a sua fase de perda, já o nosso país, não obstante a sua fraqueza, era indubitavelmente um ponto central destas questões no período em causa. E a sua debilidade poderia eventualmente ser confrontada com a posição que Kuitenbrouwer apontou para a Holanda, a de uma pequena nação descobrir o seu lugar como detentora de um vasto império. No nosso caso interno lamentamos também a exclusão de Portugal porque proporcionaria uma conjugação de elementos que já se começaram a fazer e o incentivo ao seu prosseguimento. Esperamos pois que, como John MacKenzie escreveu, haja outra possibilidade de superar essa falta.
13 No contexto europeu seria igualmente de considerar outras possibilidades de alargamento desta análise. Por exemplo, como é que o imperialismo se refletiu na cultura de países que não estiveram diretamente envolvidos mas certamente experimentaram nele as suas consequências. Alguns teriam, provavelmente, uma relação mais intensa devido ao seu passado, como sucedeu com a Dinamarca. O estudo destes fenómenos contribuiria, sem dúvida, para um melhor conhecimento das dinâmicas europeias. E, apesar do imperialismo ter assumido mais destaque no Velho Continente, seria igualmente desejável compreender o mesmo fenómeno para outras potências que foram adquirindo espaço, os Estados Unidos da América e o Japão.
14 Não obstante estas questões, estamos perante uma obra de grande pertinência, levantando questões variadas e linhas de trabalho muito sugestivas, que se espera que venham a frutificar.
Célia Reis – IHC-FCSH/UNL.