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Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale | Maria Luisa di Felice (R)
Maria Luisa di Felice | Foto: FG |
Maria Luisa Di Felice, ricercatrice universitaria in Storia contemporanea presso la Facoltà di Studi umanistici dell’Università di Cagliari, oltre ad avere all’attivo una vastissima produzione scientifica e un percorso formativo e professionale in lettere e archivistica, dal 2009 è responsabile scientifico del progetto di ricerca su «Renzo Laconi, il politico e l’intellettuale. Studio e valorizzazione del pensiero e dell’opera». Un progetto di ricerca che ha realizzato l’obiettivo di recuperare, riordinare e inventariare l’archivio privato di Laconi, portando alla luce la rilevanza nazionale del suo contributo intellettuale e politico negli anni di attività all’Assemblea Costituente e alla Camera dei Deputati. Nel corso di tali ricerche, Di Felice ha pubblicato alcune prime monografie: Renzo Laconi. Per la Costituzione. Scritti e discorsi (2010) e Renzo Laconi, la formazione intellettuale e politica. Dagli anni giovanili alla nascita della Repubblica (2011) [1]. Il volume edito nel 2019 da Carocci – articolato in quindici capitoli e 685 pagine – «ha assorbito in sé anche i due precedenti» [2] e rappresenta l’ultima tappa di un lavoro biografico monumentale, corredato da fotografie e disegni realizzati dallo stesso Laconi, a coronamento di una esaustiva biografia intellettuale e politica sull’esponente comunista sardo. La messa a disposizione dell’archivio privato di Laconi e della sua biblioteca[3] ha contribuito in maniera determinante alla realizzazione dello studio. In particolare, il suo archivio personale – conservato presso la Fondazione Gramsci di Roma – rappresenta un’eredità politica e culturale ricchissima, con i suoi oltre cento Quaderni, definiti come un autentico «archivio nell’archivio». Laconi infatti aveva l’abitudine di annotare le proprie riflessioni, organizzandone in maniera sistematica la conservazione. Tra le fonti complementari si annoverano i fondi non ancora sufficientemente esplorati, come quelli del Gruppo parlamentare del Pci e del Consiglio regionale della Sardegna, accanto ad altri più noti (ad esempio: le carte della Direzione del Pci e dell’Archivio storico della Camera dei deputati). Il volume concretizza l’obiettivo di integrare le diverse opere parziali pubblicate nel corso degli anni [4], fornendo un quadro d’insieme, una visione organica di una biografia intellettuale e politica. I primi capitoli sono dedicati all’infanzia di Laconi a Sant’Antioco (CA), agli anni giovanili e universitari vissuti a Cagliari, dove si laurea in filosofia; al periodo in cui è insegnante a Firenze, all’adesione al Pci nel 1942 e all’esperienza come caporale nell’esercito dal 1943. Il libro si sofferma sul periodo di intenso impegno politico per la ricostruzione del Partito comunista nell’isola, all’indomani della caduta del fascismo: sul ruolo di segretario di federazione a Sassari e sulla partecipazione ai lavori della Consulta regionale sarda. L’opera sottolinea con precisione come il percorso di Laconi sia marcato al contempo dalla scelta di Gramsci come maestro, come guida intellettuale e umana [5], e dalla spiccata sintonia politica con la linea togliattiana. Eletto appena trentunenne all’Assemblea costituente (incarico per cui, nonostante la sua attenzione e sensibilità al movimento dei minatori del Sulcis-Iglesiente [6], lascia la fascia di Sindaco di Carbonia a Renato Mistroni), Laconi partecipa alla Commissione dei 75 nonché ai lavori del comitato di redazione, detto «dei 18», che materialmente ha il compito di tradurre le discussioni, svolte nell’Assemblea e nelle tre sottocommissioni, in puntuali enunciati normativi. Tale esperienza – sottolinea a giusto titolo Di Felice – rappresenta «la chiave di volta del suo percorso politico e intellettuale» [7]. Laconi contribuisce in maniera significativa e originale all’elaborazione della Costituzione italiana, facendosi portatore di idee innovative sul regionalismo e sulle tematiche autonomistiche, rivelatesi anticipatrici anche rispetto alla cultura politica del proprio partito. Dopo l’invito rivolto nell’aprile 1945 da Palmiro Togliatti ai «compagni sardi […] a comprendere che non devono avere nessuna paura di essere loro gli autonomisti, perché l’autonomia è una rivendicazione democratica rispondente agli interessi del popolo sardo» [8], Laconi è tra i pochi comunisti insulari a raccogliere l’esortazione del segretario nazionale, nonostante la posizione ferma e indifferente del Pci isolano. La linea autonomista del Pci diventa netta in seguito all’estromissione dei comunisti dalla coalizione di governo nazionale: nel 1947, sostiene Sircana, il partito diventa «paladino del decentramento regionale, considerandolo un fattore di equilibrio democratico perché avrebbe assicurato all’opposizione la possibilità di accesso alla direzione politica di ampie zone dell’Italia» [9]. La svolta in Sardegna è sancita dal II Convegno regionale dei quadri, tenutosi a Cagliari il 25 e 26 aprile 1947, in presenza del segretario Togliatti. È in questa fase che all’Assemblea costituente Laconi sostiene l’«apertura verso l’ordinamento regionale, purché non di tipo federale né omogeneo su tutto il territorio nazionale; differenziazioni tra le regioni; ostilità verso la frammentazione della potestà legislativa; ampia autonomia a Sardegna, Sicilia e regioni di confine con potestà legislativa primaria su alcune materie, escludendo in primo luogo quelle che avrebbero potuto essere oggetto di riforme strutturali; potestà legislativa più circoscritta alle altre regioni; assemblee regionali costituite nel rispetto della piena sovranità popolare […] contributo dello Stato allo sviluppo del Mezzogiorno attraverso la pianificazione economica» [1]0. Su quest’ultimo punto, a partire dal «Congresso del popolo sardo» nel maggio 1950, Laconi e i comunisti insulari si batteranno costantemente al fine di ottenere l’approvazione del «Piano di Rinascita economica e sociale della Sardegna», previsto dall’articolo 13 dello Statuto regionale, che avverrà soltanto nel 1962.
Per comprendere la rilevanza innovatrice del contributo di Togliatti e di Laconi al regionalismo e all’autonomismo sardo del Partito comunista – problematica alla quale l’opera di Maria Luisa Di Felice fornisce un contributo essenziale – può risultare utile la comparazione con la federazione còrsa del Partito comunista francese [11]. Nell’isola, situata a pochi chilometri a nord della Gallura, la distanza sul tema dell’autonomia è notevole (d’altronde, mentre lo statuto della Regione autonoma della Sardegna viene approvato nel 1948, bisognerà attendere il 1982 per il primo Statut particulier della Corsica). All’epoca della svolta autonomista del Pci sardo, la federazione comunista còrsa è manifestamente centralista e giacobina. L’organizzazione partitica ha raggiunto il suo apice, dopo essersi rafforzata esponenzialmente proprio negli anni della clandestinità e della resistenza, combattendo le pretese irredentiste e l’occupazione fascista dal novembre 1942 al settembre 1943. Tuttavia il Pcf còrso, rispetto alle federazioni del continente, presenta dei caratteri di originalità: l’isola viene definita una «piccola patria» all’interno della «grande patria» francese e, secondo la lettura storica dei comunisti insulari, il popolo còrso – mai sottomesso né all’invasione pisana, né a quella genovese e nemmeno alla Francia monarchica – con la rivoluzione del 1789 ha scelto di propria iniziativa di diventare repubblicano e francese.
Chiusa la breve parentesi comparativa, occorre ricordare che, in seguito all’approvazione della Costituzione italiana, Renzo Laconi si divide tra l’impegno di deputato (carica che ricopre senza interruzioni dalla I alla IV legislatura) e gli incarichi regionali. La sua attività politica è intensa e allo stesso tempo tormentata, segnata dall’aspra dialettica con Velio Spano, rivoluzionario di professione durante la clandestinità e segretario regionale del Pci nel decennio 1947-1957 [12]. Nel mese di dicembre del 1957 Laconi gli succede alla carica di segretario e resterà alla guida del Comitato regionale sardo fino al novembre 1963, periodo ampiamente documentato e descritto nei capitoli conclusivi della biografia. Laconi scompare prematuramente a Catania all’età di 51 anni, nel 1967.
Con un lavoro imponente, curato e approfondito, Maria Luisa Di Felice mette a disposizione degli studiosi quest’opera che rappresenta il «degno traguardo di numerosi anni di studio»13. La lettura non sempre è agevole, il testo a tratti risulta fin troppo scrupoloso, con dettagli e precisazioni talvolta evitabili. Ma complessivamente si tratta di un libro indispensabile non solo per la conoscenza biografica di Laconi, ma anche per approfondire la storia politica della Sardegna e del Pci sardo, nonché la questione del regionalismo e dell’autonomismo che ha profondamente marcato la storia insulare e nazionale.
Notas
1. LACONI, Renzo, Per la Costituzione. Scritti e discorsi, a cura di Maria Luisa DI FELICE, Roma, Carocci, 2010; DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi, la formazione intellettuale e politica. Dagli anni giovanili alla nascita della Repubblica, Roma, Carocci, 2011.
2. DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale, Roma, Carocci, 2019, p. 17.
3. LAI, Gianna (a cura di), La biblioteca di Renzo Laconi, Cagliari, Cuec, 2020.
4. LACONI, Renzo, Parlamento e Costituzione, a cura di Enrico BERLINGUER, Gerardo CHIAROMONTE, Roma, Ed. Riuniti, 1969; LACONI, Renzo, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi sulla Sardegna, 1945-1967, a cura e con introduzione di Umberto CARDIA, Cagliari, Edes, 1988; SCANO, Pier Sandro, PODDA, Giuseppe (a cura di), Renzo Laconi, Un’idea di Sardegna, Cagliari, Aipsa, 1998.
5. DI FELICE, Maria Luisa, «Il Gramsci di Renzo Laconi», in Studi e ricerche, I, 2008, pp. 213-228.
6. DI FELICE, Maria Luisa, «Fare politica: Renzo Laconi, i minatori e la lezione di Gramsci», in Le Carte e la Storia, 1/2015, pp. 99-116.
7. DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale, cit., p. 15.
8. Ibidem, p. 97.
9. SIRCANA, Giuseppe, s.v. «Renzo Laconi», in Dizionario biografico degli italiani, vol. 63, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana 2004.
10. DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale, cit., p. 159.
11. Sul tema: DI STEFANO, Lorenzo, Le Pcf en Corse et le Pci en Sardaigne, 1920-1991: implantation militante, histoire électorale, identité insulaire, tesi di dottorato (in corso di redazione dal settembre 2018), UMR CNRS 6240 LISA, Università di Corsica.
12. Sul confronto fra Spano e Laconi: MATTEI, Sebastian, «Autonomia e rinascita. Velio Spano e Renzo Laconi nella Sardegna del secondo dopoguerra», in Studi storici, LIX, 2/2018, pp. 493-523. Su Spano: MATTONE, Antonello, Velio Spano. Vita di un rivoluzionario di professione, Cagliari, Della Torre, 1978; HÖBEL, Alexander, «Velio Spano», in Dizionario biografico degli italiani, Vol. 93, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2018; nonché il libro di memorie: GALLICO SPANO, Nadia, Mabrùk: ricordi di un’inguaribile ottimista, Cagliari, AM&D, 2005.
13. MINNUCCI, Virginia, «Recensione a DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale», in Archivio storico italiano, 2020, pp. 666-667.
Lorenzo DI STEFANO (1989) È dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Corsica “Pasquale Paoli” con una tesi intitolata Le Pcf en Corse et le Pci en Sardaigne, 1920-1991: implantation militante, histoire électorale, identité insulaire. È stato operatore di servizio civile presso la Fondazione Gramsci di Roma, dove si è occupato della catalogazione del fondo librario di Paolo Spriano. Nel 2016 ha conseguito con lode la laurea magistrale in Scienze politiche presso l’Università degli studi di Teramo.
DI FELICE, Maria Luisa. Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale. Roma: Carocci, 2019, 685p. Resenha de: DI STEFANO, Lorenzo. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.45, n.1, mar. 2021. Acessar publicação original [IF].
Sujeitos e Artefatos: territórios de uma história transnacional da educação | Diana Gonçalves Vidal
Nos últimos anos, é crescente o interesse por abordagens transnacionais no campo historiográfico. Diante da frequência com que o termo tem aparecido em títulos de livros, artigos e palavras-chave, Struck, Ferris e Revel (2011) levantam a possibilidade de a história transnacional representar uma mudança metodológica significativa na historiografia, tal como aconteceu com a história social, a partir dos anos de 1950, e com a micro-história, nos anos de 1970 e 1980. Não surpreende, portanto, que venha recebendo atenção de pesquisadoras e pesquisadores do campo da História da Educação, que, pelo menos desde os anos oitenta, têm buscado o alinhamento e o diálogo com a historiografia.
Demonstrando o potencial das abordagens transnacionais para investigações que tomam como tema a educação e a escola, em suas múltiplas perspectivas e interfaces, foi recentemente publicado, em formato E-book, pela Fino Traço Editora, o livro Sujeitos e Artefatos: territórios de uma história transnacional da educação, organizado por Diana Vidal. A obra é parte da Coleção Estudos Brasileiros, do Instituto de Estudos Brasileiros, e resultado de um conjunto de pesquisas que, desenvolvidas no âmbito do projeto temático Saberes e práticas em fronteiras: por uma história transnacional da educação (1810-…), privilegiam os movimentos, a circulação, os intercâmbios de sujeitos e objetos elucidativos de experiências e processos educacionais, ao longo dos séculos XIX e XX [1]. Leia Mais
Capitali senza re nella Monarchia spagnola. Identità, relazioni/ immagini (secc. XVI-XVIII) / Rossella Cancila
En el contexto de los estudios sobre la monarquía hispánica en la primera Edad Moderna y sobre su naturaleza policéntrica, en los últimos años se ha prestado especial atención a la cuestión del papel de las ciudades como elementos neurálgicos de un sistema de poderes complejo y articulado en constante relación con la corte de Madrid, y sobre las dinámicas de representación simbólica de la figura del rey, sobre todo en los territorios no europeos. El libro Capitali senza re nella Monarchia spagnola es parte de este floreciente debate historiográfico desarrollado a partir de las ciudades, brindando importantes avances sobre algunas realidades urbanas de particular interés tanto por sus características intrínsecas como por el papel desempeñado fuera del reino e internacionalmente. Tal y como explica en la introducción Rossella Cancila —profesora titular de Historia Moderna en la Universidad de Palermo y editora del libro—, el conjunto de trabajos se propone indagar aspectos vinculados a la conformación, en ausencia del rey, de las ciudades como capitales de los distintos virreinatos, a la dialéctica entre centros y periferias y al despliegue de formas y representaciones del poder en el espacio público, con particular atención a los momentos festivos.
Capitali senza re nella Monarchia spagnola. Identità/ relazioni/ immagini (secc. XVI-XVIII) (T)
La obra presenta los resultados de la decimocuarta reunión anual de la Red Columnaria (XIV Jornadas de Historia de las Monarquías Ibéricas), encuentro que tuvo lugar del 27 al 29 de septiembre de 2018 en la Universidad de Palermo, y que formaba parte además de las iniciativas de celebración de la ciudad siciliana como Capital italiana de la Cultura durante ese año. Nacida en 2005, Columnaria es una de las más destacadas y prolíficas redes de investigación de la Edad Moderna, que reúne investigadores europeos y americanos con diferentes enfoques disciplinarios en torno a los espacios policéntricos de las monarquías, basadas en la presencia e interrelación de soberanías múltiples, cada una de ella expresión de los distintos poderes locales en relación con el central. Su estructura se articula a partir de 19 macroáreas de investigación, entre ellas el Nodo Italia Sur, que incluye algunos de los historiadores involucrados en las jornadas palermitanas y en el producto editorial que aquí se presenta.
Se trata de un total de veintitrés trabajos, divididos en dos volúmenes que corresponden a dos grandes vertientes temáticas, siendo la primera la identidad política y social de las ciudades, mientras la segunda corresponde a las estrategias de representación del poder (y poderes) que toman forma en los campos culturales (literario, ceremonial y arquitectónico). Aunque el italiano es el principal idioma adoptado, debido tal vez al origen de dos tercios de los autores y a la propia sede del encuentro, no faltan contribuciones en español, portugués e inglés. Las ciudades de interés pertenecen a diferentes contextos territoriales, y no se refieren solo a los dominios españoles: Palermo, Messina, Nápoles, Cagliari, Milán, Granada, Zaragoza y los otros centros del Reino de Aragón, sino también Lisboa, Goa, Lima, Santiago de Guatemala y Palma. En efecto, no se hace referencia solo a las ciudades con función de capital en aquellos territorios que conformaban los virreinatos, tal y como parece evocar el título, sino también incluye urbes que, pese a no ser capitales, tuvieron un papel destacado en relación con otras poblaciones de un mismo territorio y con centros de poder externos. Por otro lado, llama la atención la escasez de casos específicos del contexto colonial hispanoamericano, a pesar de que fueron contemplados en algunas ponencias presentadas en las jornadas, y a las cuales deseamos que encuentren su pronta publicación. En cualquier caso, está claro que el propósito del libro ha sido, más que pretender abordar la totalidad de las ciudades capitales, enseñar los resultados de las investigaciones sobre algunas de ellas.
El primer bloque comienza con un trabajo de Juan Francisco Pardo Molero sobre los principales centros de la Corona de Aragón, donde pone a Zaragoza en relación con Barcelona, Valencia, Cagliari y Mallorca y analiza el uso y función de los edificios designados como sede de gobierno virreinal. La ciudad de Granada y el papel del linaje de los Mendoza en el control de la Capitanía General es el tema del texto firmado por Antonio Jiménez Estrella, centrado en la fase posterior a la batalla de Alpujarras y en un momento de inflexión de la ciudad granadina frente al desarrollo de otros centros como Málaga. Elisa Novi, Giulio Sodano y Giuseppe Mrozek dedican su atención al Reino de Nápoles, respectivamente al proceso de edificación de los Quartieri spagnoli, al papel de las autoridades locales (Eletti della città y Seggi) en el gobierno del virreino, y a la actividad del Parlamento hasta 1642. Durante el reinado de Felipe IV, Palermo y Messina se enfrentaron en distintas ocasiones para ejercer su control sobre la isla siciliana, tal y como detalla Rossella Cancila en su contribución, asunto que se relaciona con el siguiente tema de Stefano Piazza sobre la conformación urbana de la ciudad de Palermo.
A continuación, tres trabajos se dedican a poner el acento en las peculiaridades económico-financieras de dos ciudades estrictamente relacionadas con la monarquía.
Matteo Di Tullio, Davide Maffi y Mario Rizzo presentan un pormenorizado análisis de la fiscalidad de Milán en relación con otros centros del ducado. Como demuestra Giovanna Tonelli, Milán era una destacada capital del comercio local e internacional; sin embargo, por su favorable posición geográfica, fue sin duda la ciudad lisboeta el principal puesto de comunicación hacia el Atlántico y en el Mediterráneo, así como explica Benedetta Crivelli. Las últimas dos contribuciones del primer volumen presentan dos significativos casos de declive y ascenso de dos capitales fuera del contexto europeo, Goa y Santiago de Guatemala. Ángela Barreto y Kevin Carreira se ocupan de la primera, aportando una nueva lectura del proceso de cesación de su rol como ciudad global, pero sin perder al menos su importancia regional. Por el contrario, la capital guatemalteca se convirtió durante el siglo xvi en sede de la Audiencia y de la Caja de Hacienda Real, según muestra Martha Atzin.
Las mismas ciudades examinadas en la primera parte de la obra, retornan como objeto de reflexión en el segundo bloque, pero ahora desde la perspectiva de la Historia Cultural y de las estrategias simbólicas vinculadas a las esferas del poder.
Manfredi Merluzzi pone en contexto la Historia de la fundación de Lima del jesuita Barnabé Cobo, obra publicada en 1639, y tan central en la configuración de la ciudad como capital del virreinato de Perú. La presencia/ausencia del rey en Lisboa durante las últimas décadas del siglo xvi y hasta la revuelta, es el tema elegido por Ana Paula Megiani mientras realiza una sugerente lectura de la vista de la ciudad fechada 1613 que se conserva en el castillo alemán de Weilburg. Al despliegue simbólico de la ciudad de Granada, sede del Panteón de los Reyes Católicos y de la Real Cancillería, se dedica el siguiente trabajo de Francisco Sánchez-Montes González, mientras que Maurizio Vesco propone una análoga lectura para los edificios públicos de Palermo y Mesina. La ciudad de Cagliari, pese a no ser considerada en la primera parte, recobra aquí la atención que merece, con cuatro ensayos elaborados respectivamente por Nicoletta Bazzano, Carlos Mora Casado, Fabrizio Tola y Alessandra Pasolini, en los que analizan diferentes fuentes literarias, artísticas y ceremoniales relativas a la historia de la capital de Cerdeña a lo largo del siglo xvii.
En cuanto a Nápoles, el trabajo de Valeria Cocozza se centra en el papel del Cappellano Maggiore, figura hasta ahora poco estudiada, y sin embargo fundamental en las dinámicas políticas de la corte virreinal. El tema de las redes diplomáticas entre las ciudades de la monarquía constituye el eje trabajado por Ida Mauro, quien aborda la cuestión a partir de varios episodios que relacionan ciudades italianas y españolas. Finalmente, Eduardo Pascual Ramos analiza el papel del Ayuntamiento de Palma en las Cortes durante la etapa borbónica.
Por lo que respecta a la edición, la obra constituye la trigésimo sexta contribución de la colección Quaderni de la Associazione no profit “Mediterránea”, realidad editorial palermitana que desde su fundación en 2004 está haciendo una encomiable labor en la publicación (impresa y en formato electrónico Open Access) de investigaciones sobre el contexto histórico del área mediterránea desde la Edad Media hasta la actualidad. Instituida por un grupo de académicos de la Universidad de Palermo y con sede en el Dipartimento Culture e Società, se ocupa también de la edición de una revista trimestral llamada Mediterranea – Ricerche Storiche, que en los últimos años se ha convertido en una publicación puntera a nivel italiano e internacional.
Milena Viceconte – Università degli Studi di Napoli “Federico II”. milena.viceconte@gmail.com.
CANCILA, Rossella (a cura di). Capitali senza re nella Monarchia spagnola. Identità, relazioni, immagini (secc. XVI-XVIII). Palermo, Associazione no profit “Mediterranea”. 2020, 2 vols., 542 págs. (Colección Quaderni, 36). Resenha de: VICECONTE, Milena. Memorias – Revista Digital de Historia y Arqueología desde el Caribe. Barranquilla, n.43, p.171-174, ene./abr., 2021. Acessar publicação original [IF].
I sepolti vivi / Gianni Rodari e Silvia Rocchi
Giane Rodari nell’ URSS, 1979. La Repubblica /
“Sotto terra va il minatore, /Dove è buio a tutte le ore “. Sono versi di Gianni Rodari inseriti in I luoghi dei mestieri, ( Torino, Einaudi, 1960), una filastrocca fatta per i bambini, per la scuola, per imparare e anche per divertire. Ma alle spalle di quei versi, come spesso gli accadeva, c’era una storia vera. Alcuni anni prima, nel 1952, nelle vesti di cronista del settimanale “Vie nuove”, egli aveva raccontato lo sciopero dei minatori di Cabernardi, provincia di Ancona, la più grande miniera di zolfo d’Europa. Lì 300 persone si erano asserragliate a 500 metri di profondità per difendere il loro lavoro. Con la diligenza del cronista il giovane Rodari indica i fatti, elenca i numeri, traccia un quadro della politica industriale del colosso Montecatini nel contesto della nuova Europa: produttività, modernizzazione…
Ma a un certo punto del racconto abbandona il filo della cronaca e segue la storia di Ernesto e Maria, due giovani sposi, separati dallo sciopero. Lui chiuso nelle viscere della terra, lei tenuta lontana dalle cure per il loro bambino e per il vecchio padre, ma anche dalla pressione delle forze dell’ordine che impedivano contatti diretti, rendendo pesante perfino la consegna del cibo. Rodari concentra l’attenzione su come quei giovani stessero vivendo non un’avventura, né una disgrazia, ma l’impegno per fare del proprio lavoro il mezzo con cui costruire Il loro futuro. Ma anche il loro disperato bisogno di vedersi, solo per uno sguardo, per una parola e immagina Ernesto rischiare la lunga, faticosa e pericolosa risalita per una ’uscita di sicurezza’ dalla miniera, non controllata dalla polizia perché ritenuta impraticabile. Un cunicolo da percorrere a tratti strisciando, fatto di gradini appena accennati e addirittura di arrampicate con funi, lungo un percorso che sembrava non finire mai e sempre con un rischio incombente. Scrive Rodari : “Cinque ore di strada per nulla fece Ernesto Donini, un giovane minatore di Pergola, domenica, ventidue giugno. Voleva rivedere la moglie, dopo ventiquattro giorni, almeno per un istante. Maria non c’era. Ernesto gridò a qualcuno che l’andasse a chiamare, forse stava attorno alla miniera. Ma alla fine dovette rassegnarsi e ridiscendere”. Per trovarsi all’appuntamento convenuto, la giovane moglie aveva lasciato il bambino di un anno al vecchio padre dalla salute malferma e aveva percorro 12 km a piedi. Ma, al momento opportuno, la polizia impedì loro di incontrarsi e anche solo di parlarsi.
Così Rodari racconta ciò che non era visibile della lotta operaia: l’umiliazione, con cui chi ha il potere cerca di sfibrare la resistenza di chi potere non ne ha.Hanno fatto bene Ciro Saltarelli e Silvia Rocchi a riprendere e valorizzare questo vecchio reportage, costruendo un libro ( Gianni Rodari, Sepolti vivi, da un’idea di Ciro Saltarelli e illustrazioni di Silvia Rocchi, con un pensiero di Gad Lerner, Torino, Einaudi, 2020) che grazie ai disegni di Silvia Rocchi permette di tornare a riflettere con più calma sul senso del lavoro di Rodari. Perché questo libro non parla del passato. L’umiliazione come strumento di oppressione, oggi più che mai, è all’ordine del giorno in tutte le latitudini della terra. Ma attuale è anche l’impegno per combatterla. E su questo versante l’opera di Rodari è preziosa. Per comprendere l’importanza di quello che era pur sempre uno dei tantissimi episodi di conflittualità economico-sociale dei cruciali anni 50, occorre ricordare che erano passati solo pochi anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana con al primo articolo il suo fondamento nel lavoro.Se per difendere il salario era necessario ricorrere a forme di lotta che mettevano a rischio la salute e la vita; se la polizia interveniva rendendo più difficile la resistenza, parteggiando così per una delle parti in conflitto, allora cos’era cambiato rispetto al fascismo? Quale discontinuità aveva introdotto l’assetto repubblicano? Qual era il senso vero della Repubblica fondata sul lavoro?Era chiaro che le recenti conquiste politiche non erano la fine, ma solo l’inizio di un nuovo cammino. Di un lungo cammino, per il quale necessitavano forze nuove e nuovi strumenti. Era questo il fronte su cui Rodari impegnò tutta la sua forza creativa. Lo disse espressamente presentando La grammatica della fantasia (1972): insegnare “tutte le parole a tutti, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.
Il senso politico del lavoro narrativo dedicato ai bambini di Rodari non sta nel denunciare ingiustizie dolore e umiliazione di chi lavora, né di dare voce a chi non l’ha mai avuta. Molto più radicalmente egli elabora strumenti di lotta, mezzi che servano a chi li usa per difendersi e contrastare chi fa della parola e della cultura uno strumento di dominio. E come campo di battaglia scelse, lui maestro elementare, la scuola e i bambini che la vivevano. A loro ha dedicato la vita, scrivendo cose la cui bellezza da sola testimonia amore e dedizione. Così come, in questo testo, le tavole di Silvia Rocchi.
Franco Martina
Link per acquisto del libro: https://www.edizioniel.com/prodotto/i-sepolti-vivi-9788866566243/
RODARI, Gianni. I sepolti vivi. Da un’idea di Ciro Saltarelli. Illustrazioni di Silvia Rocchi. Resenha de: MARTINA, Franco. L’attualità di Gianni Rodari: “Insegnare le parole a tutti, perché nessuno sia schiavo”. Clio’92, 13 dic. 2020. Acessar publicação original
La Spagnola in Italia 1918-1919 / Eugenia Tognotti
Eugenia Tognotti / Foto: La Stampa /
Misure di distanziamento sociale, sospensione delle riunioni pubbliche, divieto di assembramento, limitazione all’uso dei mezzi di trasporto, chiusura di scuole, chiese e teatri: il lockdown di un secolo fa. La storia delle pandemie ci riporta, con il libro di Eugenia Tognotti, al biennio 1918-’19, nel pieno della terribile Spagnola; in effetti, gli echi di una malattia che sembrava sfuggire a ogni possibilità di intervento umano non sono poi così differenti da quelli riportati dai media oggi. La difficoltà diagnostica legata alla scarsa specificità del quadro sintomatico, simile a quello di altre malattie influenzali, ma ben più letale, l’elevato potenziale contagioso, la concomitanza con la guerra fecero rapidamente delinearsi il quadro di una tragedia collettiva.
“… Fame, peste, guerra. In tutta Italia vi è una grande epidemia chiamata febbre spagnola che anche capitò a Monterosso, non vi potete immaginare quanta gioventù muore, se dura ancora non restiamo nessuno […]. Si muore come l’animali senza il conforto di parenti e amici”. Il tono tragico di questa come di altre lettere, inviate da cittadini italiani a congiunti e amici residenti all’estero e richiamate nel volume, non lascia dubbi sulla gravità della situazione venutasi a creare a seguito della diffusione della Spagnola. Tuttavia, la documentazione ufficiale di quegli anni non fornisce un riscontro corrispondente, né permette di rilevare le reali dimensioni del problema; anzi, ci restituisce l’immagine di un dramma che si delinea a tinte flebili, almeno nella prima fase. E se anche oggi non è raro trovare memoria orale della terribile malattia, meno presente e più sfumata è la versione dei canali divulgativi ufficiali, apparati ministeriali, trattati scientifici, organi di informazione; tanto che molti interrogativi ancora rimangono in attesa di una risposta. Sui giornali dell’epoca le tracce della prima ondata dell’epidemia sono ineffabili, la tragedia che si consuma ha ancora tratti deboli e contorni sfocati. Quasi nulla riesce a trapelare della reale diffusione, delle incertezze del mondo accademico e scientifico, delle disfunzioni del sistema sanitario.
Come mai tale silenzio? Evidentemente, c’erano buoni motivi perché la realtà fosse taciuta o sottostimata. Nell’Italia lacerata dal primo conflitto mondiale, la morsa della censura dello Stato che proibiva la pubblicazione di informazioni militari si strinse, nel momento più drammatico della guerra, anche attorno alla Spagnola, la guerra sanitaria: fornire al nemico austro-ungarico informazioni sulla gravità della situazione reale era considerato contrario agli interessi nazionali, soprattutto nel momento in cui si stava preparando l’offensiva decisiva. Le direttive governative erano ferree per quanto riguarda il controllo dell’informazione: prevedevano addirittura il sequestro per le testate che avessero pubblicato articoli esplicativi. In realtà, ben prima dell’arrivo della Spagnola i giornali si erano esercitati a tacere ogni notizia che potesse avere un effetto demoralizzante sulla popolazione, aggredita già da diverse malattie epidemiche, come il colera, il tifo e il vaiolo.
Dopo il negazionismo del primo periodo – tutt’al più trafiletti tranquillizzanti, brevi note dai tratti ironici sulle pagine locali – finalizzato al consenso e al sostegno al mondo economico e produttivo necessario per la gestione della contingenza bellica, si rileva l’evidente difficoltà delle agenzie governative nel controllo e nell’orientamento della stampa; il diritto del cittadino all’informazione rimase, comunque, fortemente limitato, anche se risultò impossibile nascondere totalmente la realtà quando l’epidemia raggiunse l’acme.
Il saggio di Eugenia Tognotti, pubblicato nel 2002 e aggiornato nell’edizione del 2015, fornisce nuove conoscenze sulla pandemia influenzale del 1918. L’autrice ricorre a una molteplicità di fonti per ricostruire gli aspetti epidemiologici e socio-sanitari, ripercorrendo la cronologia di quegli anni: carteggi amministrativi, provvedimenti delle Autorità sanitarie, relazioni ministeriali. Ma sono presenti e riccamente documentati, grazie alla ricerca effettuata sui quotidiani dell’epoca e negli archivi di scrittura popolare, anche altri tratti che possono efficacemente contribuire alla costruzione del quadro storico del periodo, come le relazioni sociali, i comportamenti dei soggetti, le credenze e le idee ricorrenti: l’impatto che il dilagare della malattia esercitò sull’immaginario e che trovano, in modo sorprendente, una forma di continuità nelle crisi epidemiche, dai tempi lontani alla contemporaneità.
Chi non ricorda la mesta colonna dei carri militari diretti al cimitero di Bergamo, recentemente proposta dai media? Allo stesso modo, le immagini delle salme trasportate con mezzi speciali, delle inumazioni senza la presenza delle famiglie, dei depositi di feretri presso il cimitero monumentale e la stazione tranviaria di Porta Romana di Milano ebbero, negli anni 1918-’19, un enorme impatto sociale. “Non più preti, non più croci, non più campane” riferiva desolata una donna foggiana al genero. Le principali componenti dei rituali funebri, le cerimonie per elaborare il lutto, la condivisione del dolore nell’ambito familiare, l’intreccio fra la dimensione privata e quella pubblica erano cancellati dalla morte per Spagnola. Le fonti epistolari esprimono lo sconvolgimento del vissuto, lo smarrimento e l’angoscia di fronte ai divieti. “E’ una malattia brutta e schifosa che non ti portano nemmeno in Chiesa”, scriveva un abitante di Bedonia in una lettera diretta a New York. Ancora più della morte, sembrava incutere paura la desacralizzazione del corpo, il suo essere considerato un fardello pericoloso di cui disfarsi prima possibile.
Sono stati “i prigionieri dell’isola dell’Asinara a portare il tifo, il colera e altre malattie contagiose. Le autorità non erano riuscite a isolarle come avrebbero dovuto”; quindi, “i venditori ambulanti che bazzicavano di nascosto gli appartamenti” li introducono nelle case. Le parole del prefetto di Alghero nell’anno 1915 ci ricordano che, anche prima che si manifestasse la Spagnola, un’epidemia assume i tratti del dispositivo di emarginazione. Accade oggi, succedeva in un passato ben più lontano, avvenne anche in quel difficile biennio. La necessità dell’igiene e della disinfezione diventava un’ossessione e, almeno in alcuni strati della società, nascondeva la fobia del contatto con quelle parti sociali – quasi sempre gli abitanti dei quartieri popolari delle città – che si sottraevano all’imperativo delle norme igieniche e che venivano, quindi, considerate a rischio. Si trattava dei soggetti socialmente fragili, che occupavano misere case e angusti tuguri, in vie marginali e cosparse di rifiuti. Se non era più possibile, in pieno XX secolo, l’allontanamento coatto delle masse minacciose dei derelitti fuori del contesto urbano, rimaneva, però, lo stigma contro i portatori di germi, pericolosi vettori della Spagnola, incapaci di adeguarsi alle norme igieniche dominanti.
In realtà, scrive la Tognotti, l’aggressione epidemica del 1918 costituisce un’eccezione a una costante sociale: non operò distinzioni di classe. Tuttavia, la prospettiva storica ci restituisce una novità sul piano demografico e sociale: particolarmente bersagliate dalla malattia, con una mortalità superiore a quella degli uomini, erano le donne. L’epidemia non si era incaricata di porre rimedio all’ineguaglianza di fronte ad una morte di genere, quella in guerra, che mieteva solo vittime maschili; altrove dovevano essere ricercate le ragioni di un fenomeno che colpiva la comunità ma che, all’epoca, non furono subito chiare: l’epidemia infierì in modo particolare sulle giovani donne e sulle ragazze che si erano appropriate quasi in esclusiva del compito di assistenza e di cura dei malati, nelle famiglie e fuori. Una rilevante presenza femminile si stagliava con forza sullo scenario pubblico e si concretizzava nella partecipazione alle riunioni operative, nella distribuzione dei generi alimentari, nel confezionamento dei dispositivi di protezione civile. Le donne, inoltre, supplivano la componente lavorativa maschile impiegata nella guerra, assicurando una funzione insostituibile nelle attività produttive: erano perciò particolarmente esposte al rischio del contagio.
La Spagnola, nelle tre ondate con le quali infierì su buona parte della popolazione mondiale, mieté quasi 20 milioni di vittime; una tragedia che si aggiunse a quella della guerra, nel cui contesto – le linee dei diversi fronti, nella loro condizione di debilitazione e di malnutrizione – trovò l’ambiente giusto per prosperare. Una tragedia, tuttavia, che, come si è detto, ha lasciato scarse tracce di sé nella storiografia; per questo ha un particolare valore il libro della Tognotti. La sua documentatissima ricerca può risultare utile innanzitutto alla storia della medicina, come fa notare Gilberto Corbellini nella presentazione del volume; può rendere consapevole il futuro medico che a monte delle conoscenze e delle pratiche correnti esiste un bagaglio straordinario di esperienze, fatto sia di successi sia di errori, e che egli stesso deve essere pronto a cambiare per apprendere le nuove spiegazioni a fronte dei progressi continui del sapere e delle connessioni fra le discipline mediche. L’autrice mette in evidenza il fatto che molti interrogativi sulla patogenesi, sulle caratteristiche epidemiologiche, sui modelli di mortalità specifica per età restano ancora senza risposta, mentre la comunità scientifica pone la sua attenzione all’emergere di virus influenzali percepiti come minacce capaci di sconvolgere il mondo globale e di renderlo ancora più vulnerabile sul piano economico e sociale. La comparazione con l’attualità proposta implicitamente dal volume contribuisce a formare un clima di consapevolezza culturale in relazione alle conquiste della scienza medica, ma anche alle correlazioni che vengono a istituirsi tra medicina e vivere sociale.
Il volume della Tognotti guarda al passato e centra l’attenzione sul nostro Paese, senza dimenticare le istanze che, necessariamente, una pandemia pone sul piano mondiale. E questo è senz’altro uno dei suoi elementi di forza anche sul piano formativo, allorché si voglia ricostruire eventi trascorsi per facilitare la comprensione di ciò che può accadere in caso di riproposizione del fenomeno. Si tratta di un progetto educativo ambizioso – fa notare ancora Corbellini -, che mira a reintegrare il valore culturale ed etico-sociale della medicina attraverso il recupero della dimensione storica del sapere medico. In effetti, le dinamiche delle pandemie influenzali sembrano essere esempi emblematici di come un interesse storico, articolato a più livelli, dalle ricerche paleomicrobiologiche alle reazioni socio-culturali, possa avere ricadute sul presente.
La ricerca della Tognotti contribuisce a colmare le zone d’ombra conseguenti alla rimozione della memoria, di cui molti manuali sono esempi. Fornisce una magistrale dimostrazione di come si elabora e diffonde sapere storiografico, dal momento che le origini e le caratteristiche della crisi pandemica forse più grave dell’umanità vengono ricostruite attraverso un’approfondita ricerca d’archivio, un attento esame della letteratura medica e un’estesa ricognizione dei mezzi d’informazione; il risultato è di sicuro interesse e fruibilità da parte del mondo della scuola. Mettendo in luce il rapporto tra guerra e malattie infettive, il libro mostra come i conflitti siano luoghi dell’esistenza che travalicano ogni linea di confine per intaccare le esistenze di tutti.
Le pandemie sono eventi che si ripetono nel tempo e ricorrono spesso con le stesse modalità, anche se mai in maniera del tutto uguale: il libro fornisce utili strumenti di analisi interpretativa e permette una riflessione approfondita e a tutto tondo su un argomento di grande attualità e di interesse globale.
Enrica Dondero
TOGNOTTI, Eugenia. La Spagnola in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-19). Milano: FrancoAngeli, 2015. Resenha de: DONDERO, Enrica. Il Bollettino di Clio, n.14, p.157-160, dic., 2020. Acessar publicação original
La trace et l’aura. Vies posthumes d’Ambroise de Milan (IVe–XVIe siècle) – BOUCHERON (FR)
BOUCHERON, Patrick. La trace et l’aura. Vies posthumes d’Ambroise de Milan (IVe–XVIe siècle). Paris: Éditions du Seuil, 2019. 533p. Resenha de: HERBERS, Klaus. Francia-Recensio, Paris, v.4, 2020.
Patrick Boucheron legt unter dem zunächst kryptisch wirkenden Titel eine monumentale Geschichte Mailands und des Ambrosiuskultes vor. Erst am Ende seines Buches im »Post-Scriptum« enthüllt er mit Bezug auf Walter Benjamin, was es mit dem Titel auf sich hat. Die Spur (la trace) bedeutet die Erscheinung in der Nähe, und die Aura bedeutet die Erscheinung von etwas Entfernten. Damit ist zugleich das theoretische Spannungsfeld des Autors angedeutet. Patrick Boucheron, der vor allen Dingen mit Studien zum spätmittelalterlichen Italien hervorgetreten ist, will mit seinem Werk verständlich machen, wie die Mailänder im Laufe des gesamten Mittelalters ihre Identität mithilfe der Erinnerung an den heiligen Ambrosius konstruierten und rekonstruierten.
Insofern ist es verständlich, dass er sein Buch mit Fragen der Mailänder kommunalen Verwaltung im späten Mittelalter beginnt, um dann in literarisch brillanter Form auf verschiedene Aspekte der früheren Epochen einzugehen. Hierzu nutzt er vielfältige Methoden, zum Beispiel die klassischen Untersuchungsmethoden der Hagiografie von écriture und réécriture, aber auch Fragen zum remploi, zur Erinnerung in Monumenten, Schriften und Verhaltensweisen. Der Rückbezug auf viele philosophische und soziologische Größen durchzieht den Band. So spielen nicht nur Walter Benjamin und Roland Barthes, sondern auch Jacques Derrida und andere eine wichtige Rolle, um historische Phänomene immer wieder in umfassendere Zusammenhänge einzuordnen.
Mailand ist mit Ambrosius eng verbunden, Ambrosius ist eng mit Augustinus verbunden. Nach kurzen Bemerkungen zur Vita des Ambrosius nimmt Boucheron die Anliegen von Ambrosius und Augustinus, wie sie sich in den Jahren 384 bis 386 manifestierten, in den Blick. Etwas später datiert die wichtigste Vita des Bischofs Ambrosius, die von Paulinus von Mailand verfasst und später immer wieder herangezogen und verworfen, adaptiert und erneut verwendet wurde. Gab es hier also nur eine ganz normale Heiligenvita wie sonst auch?
In einem zweiten großen Abschnitt, den Boucheron mit der »Besetzung der Orte« (l’occupation des sols) überschreibt, geht es um die verschiedenen topografischen Punkte, die in Basiliken und sakralen Bauten das Andenken des Ambrosius dokumentierten, festigten und beispielsweise auch seinen Kampf gegen die Homöer deutlich machten. Basilika und Baptisterium, die Konstruktion eines christlichen Raums in der Stadt, entwickelten sich gleichsam in seinen Worten zu einer »Erinnerungsmaschine« (machine de mémoire). Vieles kulminierte in der Errichtung des goldenen Altars in karolingischer Zeit, der gleichsam die schriftlichen Erinnerungssplitter monumental verdichtete.
Der dritte Abschnitt, eine Geschichte der Zeit des 4. bis 12. Jahrhunderts, betrifft die sogenannten Phantome der Erinnerung an Ambrosius. Hier geht es in einer subtilen Weise zum Beispiel um die Frage, warum Ambrosius in Canossa nicht gegenwärtig und doch gegenwärtig war. Das vierte Großkapitel zeigt, welche verschiedenen Methoden Ambrosius immer wieder am Leben erhielten. Im 13. und 14. Jahrhundert war es die Figur des heiligen Ritters, außerdem die Gestalt des Vorkämpfers für die Freiheit und viele andere Dinge mehr.
In einem letzten (fünften) Abschnitt, der »ambrosianische Anamnesen« genannt wird, geht es um Fragen von Liturgie und die Bedeutung, die Karl Borromäus in der Frühen Neuzeit für Mailand und den ambrosianischen Kult einnahm. Der ambrosianische Ritus – einer der wenigen Sonderriten, die nicht romanisiert wurden – verkörpert bis heute das Selbstbewusstsein Mailands als eigenständiger Wurzelgrund des westlichen Christentums.
Mit dem Buch ist Patrick Boucheron sicher ein großer Wurf gelungen, die Geschichte einer Stadt und einer ganzen Landschaft vom Heiligenkult und dessen verschiedenen Facetten her zu rekonstruieren und zu entwerfen. Fragen der Auseinandersetzungen mit Rom, mit Nordafrika und Augustinus sowie mit der bedeutenden Königsstadt Pavia werden in den verschiedensten Abschnitten deutlich. Auch die einzelnen Parteiungen in der spätmittelalterlichen Kommune beriefen sich in vielfacher Weise allein durch ihre Namen auf den heiligen Ambrosius. Es gibt wenige Kulte, die dies vergleichend in ähnlicher Weise so breit verdeutlichen könnten, nimmt man einmal Petrus und Rom, Jakobus und Compostela, Markus und Venedig aus. Italien ist allein aufgrund der kommunalen Traditionen besonders reich an ähnlichen Beispielen, wie seit den Studien von Hans Conrad Peyer bekannt ist.
Natürlich musste Boucheron manchmal mit einem etwas größeren Pinsel zeichnen, denn die Beobachtungen über mehr als 1000 Jahre können nicht in vollem Maße immer auf eigener Forschung basieren. Der Autor bietet aber einen ausgesprochen erfrischenden Blick auf den ambrosianischen Kult, der von Fragen zur mailändischen Kommune im 14. und 15. Jahrhundert ausgeht. Insofern bietet das Mailand dieser Zeit dem Autor gleichsam eine Art Plattform, von der aus er die verschiedenen Sondierungen unternimmt und damit zeigt, was historische Arbeit bedeutet. Denn die Kontextualisierung eines Kultes in den verschiedenen Epochen zeigt eindrücklich, wie sehr das Mittelalter sich selbst durch diese Heiligenkulte verschiedene Identitäten konstruierte, verwarf und anverwandelte.
So liefert Boucheron auch einen Beitrag zur generellen Frage, wie lebendig und wie wirkmächtig Heiligenkulte waren. An einer Stelle bemerkt er gleichsam am Rande, dass die Humanisten die Antike als Vergangenheit erfunden hätten und damit das Material vernichteten, das im Mittelalter immer wieder verwendet, verändert, neu kontextualisiert und »konvertiert« worden sei (S. 28). Konversion bedeutet für ihn zugleich eine Form der Mission (S. 26). Diese und andere Facetten des Umgangs mit einem lebendigen Erinnerungsmaterial hat uns Boucheron in seinem monumentalen Werk bestens vorgeführt.
Klaus Herbers – Erlangen
[IF]Una politica senza religione – De LUNA (CN)
De LUNA, Giovanni. Una politica senza religione. Torino: Einaudi, 2013, p. 137. p. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
“Per risvegliarci come nazione, dobbiamo vergognarci dello stato presente. Rinnovellar tutto, autocriticarci. Ammemorare le nostre glorie passate è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti, è conforto all’ignavia e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione”
Con queste parole di Giacomo Leopardi, G. De Luna conclude il suo saggio sulla mancanza di una “religione civile” nella nazione italiana e sui tentativi (sporadici) di costruirne una nel corso dei centocinquant’anni di storia unitaria.
In premessa, l’autore esplicita cosa intende per religione civile: “uno spazio in cui gli interessi che tengono insieme un paese si trasformano in diritti, in doveri civici, in valori consapevolmente accettati, nel nome dei quali i cittadini italiani sono sollecitati ad abbandonare le nicchie individualistiche o comunitarie, quei progetti esistenziali racchiusi nel terribile slogan ‘tengo famiglia’ e ‘mi faccio i fatti miei’, condividendo un universo di simboli in grado di legare il singolo e la società in un rapporto di dipendenza e di identificazione”.
Si tratta quindi di uno spazio in continua costruzione, attraverso l’invenzione di tradizioni e il loro consolidamento mediante simboli riconosciuti che creano una realtà pubblica di appartenenza e di cittadinanza. E questo chiama in causa direttamente le Istituzioni e la Politica.
L’autore svolge il rotolo della storia unitaria d’Italia incontrando prima i fallimenti del “fare gli italiani” dell’Italia liberale di fronte al trasformismo della politica, poi quelli del “ciascuno al suo posto” della gerarchia fascista che non riuscì a imporre un vero totalitarismo perché non affrancata da una “marcata subalternità nei confronti di quelli che erano i valori proposti dalle gerarchie cattoliche” ( p. 29).
Il momento nel quale gli italiani furono sul punto più vicino a costruire una loro religione civile fu senza dubbio quello della realizzazione della Costituzione nata dalla Resistenza. Largo spazio G. De Luna dedica all’impegno del Partito d’Azione, individuando nei loro esponenti gli autentici ispiratori di un pensiero laico in grado di farsi civilmente religioso. Piero Calamandrei “cercava di sottrarre il paradigma di fondazione della nostra Repubblica all’ipoteca (che gli appariva effimera) dei partiti antifascisti per riconsegnarla direttamente al vissuto e all’esperienza collettiva di tutti gli italiani. Di qui la sua insistenza sul ‘carattere religioso’ della lotta partigiana…
A fondamento di un nuovo spazio pubblico in cui ci si potesse riconoscere come cittadini di uno stesso Stato nel nome di valore condivisi, Calamandrei chiamava così ‘il popolo dei morti’ (di quei morti che noi conosciamo uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e sulle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti) presentato non nella dimensione ‘vittimaria’ dell’innocenza e dell’inconsapevolezza, ma come fonte attiva di una nuova legittimazione dello Stato” (pp. 40-41).
Il tentativo naufragò sugli scogli del clericofascismo democristiano, favorito dall’art. 7 della Costituzione che integrandovi i Patti Lateranensi creò un “pericoloso innesto confessionale” nella costruzione della Repubblica.
Nel luglio 1960 l’Italia del boom economico scoprì l’antifascismo. Manifestazioni e scontri cruenti con la polizia impedirono il congresso del partito neofascista MSI a Genova, medaglia d’oro della Resistenza, e causarono le dimissioni del governo Tambroni, un monocolore democristiano con l’appoggio esterno del MSI. Si aprì una stagione di importanti riforme: la scuola media unica, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, lo Statuto dei Lavoratori, la chiusura dei manicomi. Ciò nonostante, sostiene De Luna, “il rilancio della Costituzione nel suo significato di testo fondamentale della nostra religione civile fu una grande occasione mancata” (p. 60) perché la stagione si esaurì presto e gli anni Ottanta si aprirono con la famosa intervista a E. Scalfari, nella quale Enrico Berlinguer poneva alla politica tutta la “questione morale”. I partiti ormai non provvedevano più a formare la volontà popolare, non svolgevano più alcuna funzione pedagogica, di dibattito tra le masse. Essi erano diventati pure macchine per l’occupazione del potere.
L’Italia si stava avviando verso una condizione nella quale l’unica “religione” poteva essere quella cattolica vaticana, affiancata, seppur tra mille problemi, da quelle dei nuovi immigrati; non vi sarà più spazio per alcuna religione civile.
O meglio.
L’unica vera, trionfante, religione sarà quella officiata dal “mercato” a cui la politica si sottometterà. Berlusconi sarà il suo eroe. Tutto sarà immerso nella religione dei consumi. E gli italiani, memori di secoli di povertà, si immergeranno in un benessere fondato su consumi indotti massicciamente dai nuovi media, soprattutto dalla televisione invadente. Tutto, ma proprio tutto, sarà ordinato dai totem dell’audience, dello share, della pubblicità, della visibilità, del culto dell’immagine. A questo proposito De Luna ricorda opportunamente come neanche il Vaticano si sottrarrà alle leggi del mercato: basti pensare alle figure degli ultimi tre pontefici, al carisma di Giovanni Paolo II di cui fu perfino spettacolarizzata la lunga agonia, al coup de theatre delle dimissioni si Benedetto XVI, alla capacità meravigliosa di tenere la scena di papa Francesco.
[IF]
Viandante nel Novecento. Thomas Mann e la storia | Domenico Conte
Já definido como “monumental”, “rico”, “policromático” e “diverso”, o recente e imponente livro de Domenico Conte, intitulado Viandante nel Novecento. Thomas Mann e la storia, reúne, dividido em quatro partes (“História e mito”, “Política e primitivismo”, “Natureza e espírito”, “Benedetto Croce e Thomas Mann”), vinte e dois ensaios publicados pelo autor no período entre 2009 e 2018.
E precisamente o tempo, protagonista destas páginas juntamente com Mann, faz com que o tom do historiador da cultura napolitano em direção ao escritor de Lübeck, seja, sim, cheio de admiração, mas nunca subserviente ou temeroso, tornando-se cada vez mais familiar, tanto que se dirige a ele não apenas com o nome de batismo, Thomas, mas com o diminutivo Tommy. O que, como é evidente, representa uma marca de proximidade, uma intimidade cujas raízes devem ser procuradas no passado ou, aqui talvez seja mais adequado dizer: mais para lá, mais abaixo. De fato, o vínculo que une Conte a Mann é, como ele próprio confessa, “uma espécie de fidelidade”. Leia Mais
La mamma, Collana L’identità italiana – D’AMELIA (BC)
D’AMELIA, Marina. La mamma, Collana L’identità italiana. Bologna: Il Mulino, 2005. 311p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.13, p.124-127, lug., 2020.
Marina d’Amelia, docente di storia moderna all’Università “La Sapienza ” di Roma e appartenente alla Società Italiana delle Storiche, si propone con questo libro di rispondere a un interrogativo ben preciso: quando nasce in Italia lo stereotipo della mamma responsabile della mancanza di senso civico da parte di cittadini educati al protagonismo individuale più che al senso del bene comune? Un rapporto madre-figlio per descrivere il quale, negli anni ’50, Corrado Alvaro introduce il termine mammismo.
L’autrice si propone di dimostrare che questa immagine materna nasce col nuovo stato italiano, poco più di due secoli fa. Non vi è traccia infatti di madri iperprotettive nella civiltà romana, caratterizzata dalla centralità del padre, dove le donne delle famiglie più ricche si facevano sostituire dalle balie nella cura dei figli e ne affidavano l’educazione a istitutori e maestri. La tradizione giurid ica romana della patria potestà si è tramandata per un lunghissimo periodo informando di sé i codici di comportamento delle strutture familiari medievali e moderne.
Solo a partire dal tardo Settecento la mentalità collettiva comincia a guardare in modo nuovo alla relazione madre-figlio. Si fa strada una nuova visione del matrimonio, della famiglia e la consapevolezza dell’importanza del legame materno soprattutto con il figlio maschio.
Nel corso dell’Ottocento la cultura romantica, centrata sulla rivalutazione del sentimento e degli affetti privati, riscopre il femminile, attribuendo alla madre un ruolo privilegiato nella formazione sentimentale dei figli e anche un importante ruolo pubblico.
Nel volume, corredato da un’amp ia bibliografia illustrata e commentata, l’autrice delinea i tratti dell’immagine della madre italiana ripercorrendo i momenti fondamenta li del suo definirsi dal Risorgimento alla II guerra mondiale, rievocando molte figure femminili, molte testimonianze, scritture pubbliche e private.
Le madri risorgimentali
L’identità della madre italiana nasce nel Risorgimento ed è caratterizzata da un rapporto quasi simbiotico con il figlio, dall’ammirazione per tutto ciò che fa, da un eccesso di protezione nei suoi confronti e dall’intromissione nella sua vita privata.
È importante ricordare come il matrimo nio per le donne di quell’epoca non fosse frutto di una libera scelta, ma dell’obbedienza a una decisione paterna. La maternità invece era vista come vocazione e missione legata alla “rigenerazione della patria” attraverso l’educazione dei figli agli ideali di libertà, dedizione e senso del sacrificio, valori che saranno alla base della nuova Italia.
La figura della madre del patriota risorgimentale, dedita a sostenerlo durante l’esilio o nelle guerre di indipendenza, nasce negli ambienti patriottici mazziniani.
Dopo il 1848 si registra un maggio re coinvolgimento delle madri a favore dell’indipendenza italiana: organizzano campagne di propaganda con giornali e manifesti volti a mobilitare l’opinio ne pubblica.
Maria Drago, madre di Giuseppe Mazzini, e Adelaide Cairoli e i suoi numerosi figli si affermano come l’asse portante del mito di un Risorgimento che ne riconosce l’importanza pubblica in quanto capaci di mettere in moto grandi emozioni collettive.
Dopo l’Unità d’Italia, nel momento in cui si tratta di riscrivere la storia, l’icona della madre sacrificale viene posta alla base di un nuovo sentimento nazionale: diviene mito fondativo, emblema di una comune madre patria che unisce tutti i suoi figli in un comune vincolo di fratellanza.
La madre angelo del focolare nell’età liberale
In un momento storico in cui la maggioranza della popolazione italiana viveva in precarie condizioni di vita il pensiero positivista assegna alle madri il compito di rigenerare il patrimonio fisico e razziale della nazione, facendosi promotric i dell’allenamento ginnico sia dei figli che delle figlie e garantendo l’igiene dell’ambiente in cui li crescono. Si tratta di abbassare il tasso di mortalità infantile e di innalzare quello di alfabetizzazione.
Il nuovo modello è dunque quello della madre totalmente dedita alla casa, al benessere familiare, disponibile ad accogliere le indicazioni degli esperti sull’allevamento e sull’educazione dei bambini.
Le materie di igiene ed economia domestica entrano a far parte del currico lo scolastico dal 1899; proliferano inoltre manuali, riviste dedicate al pubblico femminile che insegnano alle donne come fare le madri.
In tal modo, osserva giustamente l’autrice, la presenza e l’ingerenza della madre nella vita del figlio diventa ancor più indiscutibile, fondata com’è su basi scientifiche.
Lo Stato si premura comunque di ribadire la preminenza della volontà paterna nella vita dei figli, ma questo non impedisce di perpetuare in altra forma l’idea di una relazione materna appagante di per se stessa, all’interno della quale le donne possono sublimare una vita fatta di subalternità e insoddisfazione coniugale.
L’amore materno è insomma un sentimento esclusivo, molto diverso da quello paterno, che non lascia spazio ad altro. Deriva da un compito preciso assegnato dalla Natura alla donna in quanto conservatrice della specie e somiglia ad una lava sempre rovente che ribolle continua nel vulcano del cuore. Solo dopo Freud, aggiunge l’autrice, ci si interrogherà su quali ambivalenze si nascondano dietro tanta dedizione materna.
Ben radicata rimane la centralità della maternità nel primo decennio del Novecento e se ne trovano molte testimonianze nelle riviste femminili che, pur riconoscendo il diritto all’emancipazione femminile , insistono sulla specificità della donna latina , contenta di essere donna grazie alla missio ne ricevuta dalla Natura di mettere al mondo un figlio.
La maternità si impone dunque come elemento fondante e irrinunciab ile dell’identità femminile, contrappo sto all’egomania che connota l’unive rso mentale maschile.
La madre cattolica
La Chiesa cattolica non si sottrae al compito di indicare le caratteristiche della madre ideale, incaricata dell’educazione religiosa dei figli, chiamata a difendere il suo sacerdozio d’amore, così lo definisce Beppe Fenoglio nel libro La vera madre di famiglia, dalle richieste di uguaglianza e parità, dalla pericolosa concorrenza di dottrine laiche , dalla tentazione di seguire le mode straniere del tempo.
Caratteristica peculiare della madre cattolica è quella di dover essere una presenza silenziosa, capace di controllare le proprie emozioni. Le parole che non siano preghiere sono giudicate superflue e immodeste. Va coltivata anche la virtù del non rivendicare mai le proprie ragioni, pur sapendo di averle, ma di soffocare gli scontri in un sospiro, di nascondere e dissimulare le pene. Il Papa Pio X nel 1906 dichiara che la donna non deve votare, ma deve votarsi a un’alta idealità di bene umano.
Degli ideali di emancipazione femmin ile si fanno carico nel frattempo associazioni e movimenti di ispirazione socialista che si battono per l’istruzione, la parità salaria le fra uomo e donna e il suo diritto al voto.
I primi anni del Novecento vedono un importante cambiamento nelle direttive cattoliche che incoraggiano sia l’istruz io ne che la partecipazione femminile alla vita pubblica. Si riconosce alle donne il ruolo missionario di difesa dei valori cristia ni nella società.
Madri e Grande guerra
In piena continuità con il modello sacrificale proposto in età risorgimentale, la guerra chiede alle madri italiane di appellarsi al proprio senso del dovere e di sostenere i figli impegnati nello sforzo bellico, sintonizzandosi con il loro vissuto emotivo soprattutto attraverso lo scambio epistolare che raggiunge quasi i quattro miliardi di lettere e cartoline, con una media di circa tre milioni al giorno. Ne risulta un’immagine di madre disposta a penare silenziosamente, centrata sul desiderio di rispecchiare le aspirazioni dei figli e percepita come un talismano, come presenza salvifica, ultimo rifugio dallo smarrimento.
La guerra attiva inoltre molti organismi di solidarietà e di mobilitazione civile che riconoscono un ruolo centrale alle madri, ruolo ribadito alla fine del conflitto quando lo Stato italiano decide di celebrarne l’eroismo e il sacrificio con un monume nto , La Pietà di Libero Andreotti, collocato nella Chiesa di Santa Croce a Firenze e idealmente collegato con quello del Milite Ignoto a Roma.
L’enfatizzazione di questo specifico ruolo della donna lascia troppo nell’omb ra , secondo l’autrice, alcuni elementi chiave della vita femminile di questi anni come le manifestazioni contro la guerra, la diffusione del lavoro femminile, la crescente fatica di sopravvivere di molte donne diventate capifamiglia e l’impossibilità di dare voce a sentimenti e angosce repressi in nome della coerenza.
La figura della madre in epoca fascista
Alla celebrazione della maternità il fascismo dedica una festa particolare: la Giornata della madre e del fanciullo, grande “rito di amore e orgoglio nazionale” avente lo scopo di sollecitare l’incremento della popolazione.
Vi si celebra l’immagine della donna sposa e madre prolifica esemplare, tenace custode della morale sessuale tradiziona le , soprattutto nei confronti delle figlie femmine, anche se i confini di ciò che è lecito vengono definiti dal padre. Il comportamento autoritario della famiglia ha come conseguenza quella di reprimere il desiderio di affermazione e indipendenza delle figlie.
Il partito fascista cerca in ogni modo di evitare qualunque possibile commistione fra maschi e femmine sia in ambito scolastico che durante le manifestazioni pubblic he riservate ai giovani.
Comunque, grazie alle adunanze, alla divisa, alle decorazioni, le ragazze scoprono la possibilità di una sia pur piccola liberazione dal controllo familia re , alimentando in se stesse il desiderio di un’emancipazione futura.
Il modello ideale proposto dal regime fascista è quello di Rosa Maltoni, la madre del Duce, donna semplice ma ricca di spiritualità , trasformata nel mito celebrativo della donna capace di sostenere l’ascesa sociale dei figli, opponendo un fermo rifiuto a tutti i mali che possono disgregare la famiglia. Predappio, luogo natale di Mussolini diviene meta di pellegrinaggi per onorare in lei tutte le madri della Nuova Italia.
La figura della madre nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza
Mentre il Risorgimento e la Grande guerra avevano fatto leva sull’ero ismo silenzioso delle madri comuni disposte al sacrificio pur di sostenere la causa patriottica, la seconda guerra mondiale ne esalta questa caratteristica soltanto fino all’ 8 settembre 1943 che vede il disgregarsi improvviso dell’esercito.
Le madri non vengono risparmiate dall’orrore di quanto accade successivamente ed è difficile per loro superare la barriera delle opposte appartenenze dei propri figli.
Alcune si ritrovano ad essere madri di partigiani o partigiane esse stesse pronte ad impegnarsi e lottare nella Resistenza, altre si schierano con il fronte dei Repubblichini di Salò arruolandosi nel servizio ausilia rio femminile.
Il pensiero della madre percepita come rifugio rassicurante accomuna invece il sentire dei due schieramenti, a conferma di una fratellanza che la logica di guerra nega, ma anche di uno stretto collegamento fra istinto di sopravvivenza e bisogno di protezione.
Livia Tiazzoldi
[IF]Resistência: memória da ocupação nazista na França e na Itália – ROLLEMBERG (HU)
ROLLEMBERG, D. Resistência: memória da ocupação nazista na França e na Itália. São Paulo: Alameda Editorial, 2016. 376 p. Resenha de: CODARIN, Higor. “Resistencialismo” e resistência: as tensões entre história e memória. História Unisinos 24(2):334-337, Maio/Agosto 2020.
A trajetória intelectual da historiadora Denise Rollemberg, professora e pesquisadora da Universidade Federal Fluminense (UFF), é indissociável das temáticas, das tensões e dos dilemas envolvendo o passado recente, em específico relacionado às experiências autoritárias ao redor do globo, ao longo do século XX. Em um primeiro momento, sua produção acadêmica edificou-se através de análises consistentes a respeito dos caminhos e descaminhos das esquerdas brasileiras diante da ditadura civil-militar, seja a partir da construção analítica a respeito da perspectiva de revolução difundida por essas esquerdas, ou pela vigorosa análise a respeito do exílio experimentado por esses militantes ao longo da ditadura.2 Contudo, a partir de então, a historiadora, influenciada por parte da historiografia francesa empenhada em renovar as análises a respeito da resistência à ocupação nazista e/ou em relação à construção social do regime instaurado em Vichy, das quais falaremos adiante, passa a centrar seus esforços em outros aspectos dos regimes autoritários, buscando iluminar sua compreensão através de duas linhas centrais: por um lado, de que modo esses regimes foram construídos socialmente e se mantiveram por longos anos? Por outro, e de modo mais importante para o objetivo desta resenha, como se relacionam memória e história na construção do conhecimento a respeito dessas experiências? Mais especificamente: de que modo a construção da memória coletiva sobre esses regimes buscou criar oposições binárias entre Estado e Sociedade, sedimentando a perspectiva de sociedades oprimidas, manipuladas e, sobretudo, resistentes a esses regimes? Confirmação dessa nova vereda analítica são as obras organizadas em conjunto com a também historiadora da UFF Samantha Quadrat – A construção social dos regimes autoritários (2010); História e memória das ditaduras do século XX (2015) – e Resistência: memória da ocupação nazista na França e na Itália (2016).
Neste que é seu mais recente livro, Rollemberg busca, como objetivo central, analisar o movimento de constante construção e desconstrução dos discursos memoriais a respeito das experiências de resistência francesa e italiana às ocupações nazistas que ocorreram durante a II Guerra Mundial. Dividido em cinco capítulos, Resistência parte de um consistente balanço historiográfico indicativo dos esforços e das dificuldades em conceituar o termo “resistência” (capítulo 1), para, em seguida, passar ao exercício analítico de sua ampla gama de fontes: os museus e memoriais franceses (capítulo 2), as cartas de despedida dos resistentes e reféns fuzilados (capítulo 3), que constroem a primeira parte do livro, dedicada à França, e, por fim, os museus e memoriais italianos (capítulo 4), com especial destaque à construção da memória e historiografia a respeito da trajetória da família Cervi, e do fuzilamento dos sete irmãos – os Sette Fratelli – integrantes da Resistência3 italiana (capítulo 5).
De modo inicial, é importante ressaltar, Rollemberg indica que as populações dos países ocupados “experimentaram comportamentos que variaram de país para país, ao longo do tempo, num amplo campo de possibilidades desde a colaboração mais aguerrida com os vencedores até a resistência mais combativa” (Rollemberg, 2016, p. 17). Nessa perspectiva, a autora, como cerne da argumentação que permeia todo o livro, busca desconstruir não apenas a visão maniqueísta entre Estado e Sociedade, conforme citamos anteriormente, mas também a visão que opõe, drasticamente, resistentes e colaboradores, como se resistir ou colaborar fossem as únicas possibilidades de atuação dentro desses contextos históricos. Para isso, inspira-se, essencialmente, no historiador Pierre Laborie, mais especificamente em seus conceitos de zona cinzenta e pensar-duplo, que realçam o amplo espaço de atuação entre os dois polos, marcado por contradições e ambivalências.4 Enveredando pela discussão conceitual, a autora busca explicitar que as experiências variadas de país para país deram origem, também, a conceituações diferentes. Assim, distingue as discussões historiográficas realizadas na França, Itália e Alemanha.
Sobre a França, campo com que Rollemberg tem maior familiaridade, a discussão é robusta. Demonstra, como prelúdio, que logo após o fim da ocupação, 1944, o termo resistência iniciou um processo de naturalização no seio da sociedade francesa, por intermédio da memória oficial que ia sendo desenvolvida pelo governo surgido do processo de libertação, comandado por Charles de Gaulle.
Criava-se, então, o mito da resistência, ou “resistencialismo”, no neologismo de Henry Rousso (2012). Ou seja, o mito de que a sociedade francesa havia, em sua totalidade, resistido aos alemães e ao governo instaurado em Vichy, sob o comando de Philippe Petain. Por muitos anos, o termo ficou sob o domínio dessa memória, estando fora dos objetivos e anseios dos historiadores. Realizando uma genealogia do conceito, a historiadora demonstra que a historiografia francesa se voltou à “resistência” apenas em 1962, com a tese de Henri Michel, que abre os debates acadêmicos a respeito do termo, ainda sob forte influência do processo de mitificação. Contudo, é com o livro de Robert Paxton, Vichy France (1972), que há uma guinada no debate. A revolução paxtoniana, como ficou conhecido o impacto da tese de Paxton, abriu novas temáticas e interpretações, pois deu início a uma corrente historiográfica indicativa de que o Estado de Vichy era produto da própria sociedade francesa e não uma marionete da Alemanha de Hitler. Iniciava-se, portanto, o processo historiográfico de problematização do mito da resistência.
Passeando com propriedade pelas contribuições de François Bédarida, Pierre Azéma, Pierre Laborie, Jacques Sémelin, François Marcot, Henry Rousso e Denis Peschanski, a historiadora apresenta, de forma nítida, reflexões a respeito da criação do mito de resistência como “necessidade social” (Rollemberg, 2016, p. 33) e, sobretudo, tentativas de conceituar o termo. Em uma diversidade de propostas de conceituação que, conforme diz a própria autora, engolfam-se, por vezes, em “excessivas filigranas e retórica” (Rollemberg, 2016, p. 37), vemos emergir a problemática fundamental do debate: resistência é apenas expressão coletiva, consciente, organizada e clandestina contra um invasor estrangeiro, como propõem alguns autores, ou também podem ser considerados resistentes as expressões individuais, cotidianas e anônimas, seja contra o regime alemão instaurado na zona ocupada ou contra o regime de Vichy? Cria-se, assim, um dilema, bem sintetizado por Jacques Sémelin: “ou bem se mergulha nas profundezas do social, mas sua especificidade [da resistência] tende a se diluir; ou bem se define exclusivamente através de suas [da resistência] estruturas e ações e ele se reduz à sua dimensão organizada” (Rollemberg, 2016, p. 32). Apesar de parecer intransponível, a historiadora apresenta um caminho possível para sua resolução, demonstrando a importância das propostas teóricas de Laborie para sua análise: A zona cinzenta, o pensar duplo, o homem duplo, segundo a perspectiva de Pierre Laborie que considera comportamentos ambivalentes nuançados entre resistir e colaborar, por outro lado, talvez seja a solução para o impasse levantado por Sémelin (Rollemberg, 2016, p. 148).
Seja como for, adotando-se ou não as posições de Laborie para resolver o impasse sintetizado por Sémelin, o exercício reflexivo que o desencadeou, segundo Rollemberg, demonstra, per se, a importância e a necessidade de reflexão a respeito do conceito de resistência, pois concei tuá-la “é mais lidar com as possibilidades e os limites das próprias definições, aproveitando as tensões e riquezas que são intrínsecas ao dilema observado por Sémelin, do que buscar resolvê-lo” (Rollemberg, 2016, p. 37).
Para o caso italiano, a discussão é menos densa. Segundo a autora, isso se deve ao fato de que para a historiografia italiana importa menos definir “o que foi e o que não foi resistir”, centrando os esforços, em contrapartida, no “papel de seus atores, principalmente das lideranças ou de militantes destacados” (Rollemberg, 2016, p. 47). Apesar da não importância da conceituação, a historiadora alerta que as contribuições historiográficas têm buscado desconstruir, também, o mito da resistência.
Por fim, finalizando o primeiro capítulo, está a reflexão a respeito do conceito de resistência proposto pela historiografia alemã. Rollemberg oferece destaque à definição proposta por Martin Broszat. Esta, ao contrário de utilizar o termo resistência (Widerstand), prefere utilizar Resistenz, cuja tradução é imunidade, termo devedor da biologia, que diz respeito a “reações espontâneas e naturais dos organismos vivos a micro-organismos como vírus e bactérias” (Rollemberg, 2016, p. 52). Assim, com essa nova definição, procurou-se jogar luz sobre a “resistência a partir de baixo”, como bem sintetizou Klaus-Jürgen Müller a respeito da definição proposta por Broszat.
Nos capítulos seguintes, sejam relacionados ao contexto francês ou italiano, notamos, com clareza, dois aspectos predominantes: por um lado, o esforço analítico da autora, buscando demonstrar e desenvolver as relações tensas e mutáveis entre história e memória, por intermédio, essencialmente, dos museus e memoriais como corpus documentais de análise. Por outro, o realce e a recorrência, ao longo de todo o texto, na importância de compreender as ações dos sujeitos que fizeram parte desse processo histórico a partir de suas ambivalências e contradições, buscando problematizar as visões romantizadas e heroicizadas construídas sobre esses indivíduos. Assim, a historiadora reforça a necessidade de compreendê-los sem operar distinções binárias e estéreis. Nas palavras da própria Rollemberg a respeito da criação de museus e homenagens aos resistentes:
A homenagem precisa incorporar a complexidade, as contradições, as ambivalências da realidade. A produção do conhecimento, resultado da incorporação das múltiplas dimensões dos acontecimentos e dos homens e mulheres neles envolvidos, submetidas à interpretação crítica, é a melhor homenagem que se possa fazer. A sacralização da memória afasta o herói de todos nós, condena-o ao desconhecimento, mesmo que inúmeros museus e memoriais sejam erguidos em seu nome (Rollemberg, 2016, p. 97).
Portanto, perseguindo essa trilha, Rollemberg empreende uma análise ampla acerca de 15 museus/memoriais ao redor da França, 130 cartas de resistentes ou reféns5 prestes a serem fuzilados e, por fim, analisa oito museus/memoriais italianos. É digno de nota demonstrar a metodologia empregada pela historiadora na construção dos museus/memoriais como corpus documentais para discussão das questões propostas na obra. Seguindo a senda proposta por Jacques Le Goff, a respeito do conceito documento/monumento6, a historiadora compreende a criação e, consequentemente, os próprios museus/memoriais através dessa dinâmica. Assim, a disposição dos museus/memoriais, os locais onde foram construídos, seus acervos, suas narrativas, dinâmicas e relações com o poder público são importantes ao olhar analítico da autora.
Todos os aspectos, constituintes da criação e perpetuação dos museus/memoriais, são vistos como esforços “das sociedades históricas para impor ao futuro – voluntária ou involuntariamente – determinada imagem de si própria” (Rollemberg, 2016, p. 90). Outrossim, constatando que os museus/memoriais são criados com uma dupla-função, informativa e comemorativa, a historiadora compreende- os como espaços privilegiados de manifestação das tensões entre história e memória, analisando, assim, de que modo esses espaços incorporam ou recusam os avanços e novos temas propostos pela historiografia (Rollemberg, 2016, p. 90).
Sobre a França, vale ressaltar que a autora deslinda de que modo foi construído o “resistencialismo”. Apresenta a importância da memória nesse processo, a memória como construção social, como maneira de “lidar com a história, reconstruindo-a” (p. 84), formulada no período pós-ocupação, “comportando a lembrança, o esquecimento, o silêncio” (Rollemberg, 2016, p. 84), como aponta Beatriz Sarlo (2007), a memória como captura do passado pelo presente; o mito da resistência, o mito que explica a ausência, ao menos na grande maioria dos museus, de informações a respeito da colaboração dos franceses com os nazistas e com o regime de Vichy; o “resistencialismo” tornando ausente das narrativas dos museus “a zona cinzenta, o pensar duplo, a ambivalência” (Rollemberg, 2016, p. 142).
Com relação à Itália, deve-se atentar para a valiosa trilha percorrida pela historiadora ao confrontar a história e a memória do caso dos Sette Fratelli. Realizando uma genealogia da criação do mito, que remonta a dois textos de Italo Calvino publicados em 1953 (Rollemberg, 2016, p. 335), Rollemberg expõe as relações de legitimação dos mais diversos setores da sociedade italiana com a criação e manutenção de uma narrativa romantizada acerca dos sete irmãos fuzilados em 1943. Aponta não apenas para a necessidade do Partido Comunista Italiano (PCI) em vincular- se à história dos irmãos, mas, também, a necessidade do próprio governo italiano, simbolizado na recepção de Alcide Cervi, pai dos sete irmãos, pelo primeiro presidente eleito pós-ocupação, Luigi Enaudi, em 1954, no Palácio Quirinale, em Roma, além de diversas medalhas de honra que Alcide recebeu como representante dos filhos (Rollemberg, 2016, p. 318). A história dos irmãos resistentes e, consequentemente, da superação do sofrimento de um pai que teve a família devastada como símbolos da história italiana recriada pela memória, a Itália resistente, a exemplo dos sete irmãos, livre do nazifascismo, que buscava superar o sofrimento, como Aldo Cervi buscava superar a perda dos filhos.
Resistência, portanto, cumpre os objetivos a que se propõe, descortinando as relações problemáticas e, ao mesmo tempo, férteis entre história e memória em meio à construção da memória coletiva na França e na Itália a respeito das ocupações nazistas ao longo da II Guerra Mundial. Mais do que isso, o livro da historiadora é um interessante ponto de vista metodológico para os interessados em compreender as complicadas questões vinculadas à História do Tempo Presente.7 Se vivemos, como aponta o historiador François Hartog (2017), um regime de historicidade presentista, em que a Memória busca destronar a História de seu lugar privilegiado como intérprete hegemônica do passado, Resistência é uma contribuição fundamental à historiografia brasileira para aqueles que buscam fugir às armadilhas da Memória, que opera, na maioria das vezes, por intermédio de uma cultura binária de demonização ou sacralização de indivíduos e/ ou períodos históricos. Rollemberg, portanto, em seu novo caminho analítico, do qual Resistência é a reflexão mais profunda até o presente momento, apresenta os desafios dos historiadores que trilham as temáticas envolvendo experiências sociais traumáticas do passado recente. Ao buscar recolocar os personagens em seus respectivos contextos históricos, questionando as construções memoriais e realçando a importância de lançarmos luz às zonas cinzentas, contradições e ambivalências dos sujeitos históricos, a autora deixa-nos – aos historiadores – um sinal de alerta: o dever do historiador é compreender o passado, não o mitificar.
Referências
HARTOG, F. 2017. Crer em História. Belo Horizonte, Autêntica, 252 p.
LABORIE, P. 2010. 1940-1944: Os franceses do pensar-duplo. In: S.
QUADRAT; D. ROLLEMBERG (org.), A construção social dos regimes autoritários: vol. I, Europa. Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, p. 31-44.
LE GOFF, J. 2013. História e Memória. 7ª ed. Campinas, Editora da Unicamp, 504 p.
PAXTON, R. 1973. La France de Vichy. Paris, Seuil, 475 p.
QUADRAT, S.; ROLLEMBERG, D. (org.) 2010. A construção social dos regimes autoritários. Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 3 vols.
QUADRAT, S.; ROLLEMBERG, D. (org.) 2015. História e memória das ditaduras do século XX. Rio de Janeiro, Editora FGV, 2 vols.
ROLLEMBERG, D. 2000. Exílio: entre raízes e radares. Rio de Janeiro, Record, 375 p.
ROLLEMBERG, D. 2016. Resistência: memória da ocupação nazista na França e na Itália. São Paulo, Alameda Editorial, 376 p.
ROUSSO, H. 2012. Le Régime de Vichy. 2ª ed. Paris, PUF, 128 p.
ROUSSO, H. 2016. A última catástrofe: a história, o presente, o contemporâneo. Rio de Janeiro, Editora FGV, 341 p.
SARLO. B. 2007. Tempo passado: cultura da memória e guinada subjetiva. São Paulo, Companhia das Letras / Belo Horizonte, Editora da UFMG, 129 p.
2 Referimo-nos aqui, respectivamente, à sua dissertação de mestrado (A ideia de revolução: da luta armada ao fim do exílio (1961-1979)) e à tese de doutorado (Exílio. Entre raízes e radares), esta última publicada pela Editora Record (1999).
3 O termo Resistência, com letra maiúscula, consolidou-se na historiografia como modo de referir-se a posições e ações ligadas a organizações, partidos e movimentos (p. 175).
4 Para maior aprofundamento a respeito dos conceitos, cf. Laborie (2010).
5 “Reféns” denominam-se os indivíduos presos, seja na França ocupada ou na França de Vichy, em represália às ações da Resistência.
6 Para maiores detalhes, cf. Le Goff (2013).
Higor Codarin – Universidade Federal Fluminense. Rua Prof. Marcos Waldemar de Freitas Reis, s/n. 24210-201 Niterói, Rio de Janeiro, Brasil. Bolsista da Fundação de Amparo à Pesquisa do Estado do Rio de Janeiro (FAPERJ). Número do processo: E-26/201.860/2019. E-mail: higor.codarin@gmail.com.
Novecento.org – (CN)
Novecento.org. Resenha de: COCILOVO, Cristina. La nuova edizione della rivista dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. Clio’92, 7 ago. 2019.
Torna in veste rinnovata Novecento.org, la rivista on line di didattica della Storia dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e degli altri 68 Istituti italiani ad esso associati. È un bentornato a una rivista che ha avuto un illustre passato per il livello dei contributi e la partecipazione degli utenti, per lo più insegnanti e ricercatori, interessati ai temi della didattica della Storia del 900. Appunto per questo, nella pagina di profilo della rivista , non manca un ampio ricordo di Antonino Criscione che aveva progettato e curato la precedente versione, chiusa ormai da un decennio.
L’intenzione degli editori/autori è di continuare la tradizione, innovandola e adeguandola ai tempi. La mission della versione del 1999 è stata infatti ripresa in pieno: “L’ ambizione di questa rivista on line è quella di raccogliere, condividere e redistribuire saperi, conoscenze, risorse utili per la ricerca didattica e l’innovazione su questo terreno utilizzando a questo fine le potenzialità di Internet e stimolando la nascita e lo sviluppo della comunità virtuale degli insegnanti-ricercatori di storia.” Ma l’aggiunta di un’indicazione significativa può permettere ora di ampliare lo sguardo dei docenti, grazie alla rete di relazioni scientifiche degli Istituti: “La rivista è stata quindi pensata e progettata come uno strumento affidabile per i docenti italiani che vogliano aggiornarsi dal punto di vista storico e didattico, … un punto di riferimento[… ] su quanto avviene in Europa in questo specifico ambito di insegnamento.“
Sin dal numero 0 del giugno del 2013 la rivista si è confermata come un formidabile supporto per la didattica della Storia del ‘900, sia per le riflessioni metodologiche che per i materiali offerti e immediatamente fruibili. Ben presto ci auguriamo che diventi uno strumento indispensabile per i docenti che desiderano aggiornarsi.
Si assiste infatti da molti anni all’assenza di un serio processo di formazione pubblica degli insegnanti. Essa viene gestita, fra mille ostacoli, da associazioni disciplinari o appunto Istituti di ricerca come l’ISMLI, consapevoli di supplire a un compito fondamentale per l’educazione dei futuri cittadini.
Diretta da Antonio Brusa, colonna portante della didattica della Storia, assistito a sua volta da una redazione che raccoglie i nomi di maggior esperienza dell’ISMLI e del Landis, la rivista ha avuto il suo battesimo in un riuscito convegno, tenutosi a Piacenza nel marzo 2013, sul tema “La Storia nell’era digitale”. Introdotto da una stimolante relazione di Antonio Brusa, il convegno ha visto succedersi in due mattinate docenti e ricercatori esperti nell’utilizzo delle tecnologie digitali applicate alla storia. Nel corso del pomeriggio, tre laboratori didattici rivolti ai docenti della primaria (a cura di Paola Limone), secondaria di primo e di secondo grado (gestiti da Cristina Cocilovo e Patrizia Vajola), hanno messo a fuoco le modalità innovative di una didattica centrata sulla costruzione di conoscenze e di competenze storiche attraverso l’uso del digitale.
Gli atti del convegno sono pubblicati nella sezione “Dossier”, con la riproposizione in modo pressoché integrale di molti interventi (Brusa, Cigognetti, Ferri, Noiret, Biondi, Di Tonto, Mattozzi, Facci, Formenti), seguiti dai materiali presentati nei laboratori.
Gli atti del convegno sono pubblicati nella sezione Dossier, con la riproposizione pressoché integrale degli interventi (Antonio Brusa, Luisa Cigognetti, Paolo Ferri, Serge Noiret, Giovanni Biondi, Ivo Mattozzi, Giuseppe Di Tonto, Carlo Formenti, Michele Facci), seguiti dai materiali presentati nei laboratori.
Sarebbe opportuno guardare la sequenza degli interventi videoregistrati, sempre accompagnati da un fedele testo scritto: si affrontano temi chiave dell’uso di Internet da parte di allievi e docenti che affrontano la Storia, senza dimenticare che (citando Brusa) ” La disciplina storia è uno statuto di regolazione dei saperi, cioè un insieme di regole e operazioni da compiere per la specificità della formazione storica: la messa in prospettiva, la contestualizzazione, i lessici e le grammatiche fondamentali del sapere storico, la costruzione di grandi codici di senso.”
Il dibattito sull’uso della rete, che può essere spaesante, rischioso, e insieme un’inesauribile risorsa, ha accompagnato tutto il percorso del convegno nella consapevolezza che l’epistemologia, la grammatica e la sintassi della Storia sono da anteporre alle tecnologie, sebbene possano trarne reciproci vantaggi se messe in sinergia.
I materiali pubblicati in Laboratori – Storia e nuove tecnologie, offrono spunti per il docente che vuole affrontare la Storia secondo un approccio costruttivista, per attivare gli studenti secondo percorsi coerenti con la propria modalità cognitiva, approfittando dei vantaggi offerti dalla rete e dalle nuove tecnologie (ma fino a che punto sono nuove? Se lo domanda maliziosamente Facci).
Infine sono state attivate le altre sezioni nel Menù del sito. In Pensare la didattica viene recensito l’avvincente romanzo In territorio nemico, sulla maturazione di due giovani attraverso l’avventura partigiana. Scritto secondo il metodo di Scrittura Industriale Collettiva (SIC), offre spunti operativi alle classi che vogliono cimentarsi nella produzione di un testo storico. In Didattica in classe (un chiaro riferimento all’intenzione espressa nell’introduzione di pubblicare riflessioni teoriche e percorsi di didattica praticata) è presentato “Lettere dall’America. Una storia d’amore e di emigrazione, affinità elettive“: un epistolario di M.G. Salonna, che, oltre ad essere una lettura stimolante in sé, si accompagna ad altri materiali che lo collocano nel contesto storico del suo tempo. Il tutto infine viene impiegato in un il bellissimo laboratorio didattico che consente agli studenti di rivivere la grande Storia attraverso la storia di gente “apparentemente” comune. In Uso pubblico della storia troviamo ricche riflessioni per la valorizzazione del calendario civile, che può diventare uno strumento per il curricolo di Storia, a cominciare dalle giornate della memoria e del ricordo.
Una citazione a parte merita l’ultima sezione del Menù, Ipermuseo, dove sono pubblicate sotto forma di presentazione o slide share mostre realizzate dagli Istituti della Resistenza in anni recenti su temi caldi del ‘900: avvento del fascismo, resistenza, deportazione, la difficile convivenza sul confine orientale nell’alto Adriatico, la realizzazione dell’esperienza pedagogica innovativa nel Convitto Rinascita di Venezia. L’uso della rete rende queste mostre fruibili a distanza di tempo, ancora spunto di riflessioni e di possibili approfondimenti nelle classi.
La nuova versione del sito si presenta con una veste grafica molto lineare, ben leggibile e invogliante. La navigazione è semplice e immediata. I materiali facilmente scaricabili. Comodo poi è l’indice di ogni numero della rivista, che permette di consultarla in modo sequenziale come se fosse una pubblicazione cartacea (vedi alla voce Indici del Menù).
Un particolare prezioso: la vecchia rivista resta in consultazione ed è velocemente raggiungibile dalla pagina home d’apertura del sito. Di fatto è ancora un pozzo di informazioni. Inoltre la distanza temporale fra la vecchia e la nuova versione offre poi il vantaggio di cogliere la dimensione storico-cronologica dello sviluppo della ricerca didattica.
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Marghera 1971: l’inizio di una fine. Un anno di lotta alla Sava – PUPPINI (CN)
PUPPINI, Chiara. Marghera 1971: l’inizio di una fine. Un anno di lotta alla Sava. Portogruaro (VE): Nuova dimensione editore, 2015. 191p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
All’inizio del Novecento, cent’anni fa, il porto di Venezia era il secondo in Italia dopo quello di Genova, ma con spazi ormai insufficienti agli importanti traffici di petrolio e carbone necessari all’industria italiana da poco decollata. Di qui l’esigenza di creare un nuovo porto; si scelse l’area di Marghera. Si iniziò a scavare i canali per le navi e a costruire i collegamenti ferroviari con la vicina stazione di Mestre. Dieci anni dopo quell’area era diventata geograficamente strategica: un notevole porto industriale, con una buona rete ferroviaria e stradale alle sue spalle. Tra i protagonisti della realizzazione ci fu il conte Volpi, capitano d’industria e futuro ministro di Mussolini che nel 1926 riunì l’intero territorio nell’amministrazione comunale di Venezia. Era ormai nato quello che nel secondo dopoguerra diventerà il più grande polo industriale italiano, arrivando ad occupare, nel 1965, fino a 35 000 addetti, senza contare l’indotto. Un polo chimico integrato, ma non solo: cantieri navali, vetrerie, fabbriche per fertilizzanti e materie plastiche, l’alluminio.
Stabilimenti enormi. Tanti.
Oggi, cinquant’anni dopo, “Marghera è un enorme spazio che pare senza confini, abbandonato (in apparenza), punteggiato da impianti lontani e spenti.” (Jacopo Giliberto, Porto Marghera volta pagina. E prova a ripartire con l’industria ‘verde’, Il Sole 24ore, 8 gennaio 2015).
Qual è stato il processo che ha così trasformato questo territorio in solo mezzo secolo? Com’è successo?
Qualsiasi risposta rischia di essere semplificatoria. Chiara Puppini consegna con il suo libro l’inizio di questo processo. O meglio, uno degli inizi. E’ la crisi della Sava, un’azienda che nel 1966 produce il 36% dell’alluminio nazionale e possiede: 2 miniere di bauxite in Abruzzo e Puglia, 1 fabbrica di allumina, 2 fabbriche di alluminio, 1 centrale termoelettrica, 5 centrali idroelettriche, 3 navi da trasporto, 1 fabbrica per prodotti chimici, 50% di una fabbrica che produce polvere e pasta di alluminio, 1 istituto di ricerca.
Ebbene, nel 1971 “i dirigenti della Sava di Porto Marghera [comunicano alle organizzazioni sindacali] la decisione del Consiglio di Amministrazione della Alusuisse [proprietaria della Sava] di chiudere il 15 ottobre la fabbrica Allumina e di licenziare circa 800 lavoratori tra operai e impiegati” (p. 69) che, sommati ai 200 posti precedentemente in cassa integrazione, fanno 1000 licenziamenti!
Il libro racconta la lotta sindacale dei lavoratori per salvare l’azienda e con essa il loro posto di lavoro. La narrazione presenta gli avvenimenti attraverso le cronache giornalistiche dell’epoca, i volantini sindacali e i comunicati aziendali, le fotografie delle manifestazioni sindacali e quelle delle trattative tra sindacati e azienda, le interviste ai dirigenti aziendali e sindacali di allora. In quelle pagine si respira l’aria dell’epoca: la solidarietà operaia, la vicinanza effettiva delle istituzioni e delle forze politiche con chi lavora e produce ricchezza. Si sente – siamo agli inizi degli anni Settanta – una cultura che mette al centro il lavoro. Ciò nonostante, il 26 gennaio 1972 l’Allumina chiude. Nel 1973 l’area Sava di Marghera viene suddivisa con altre società e negli anni successivi l’intera produzione dell’alluminio a Marghera viene dismessa. Il 12 settembre 1991 ci sarà l’ultima colata di metallo.
Insomma.
“La storia della Sava è paradigmatica: il primo episodio della crisi di Porto Marghera. Assistiamo in questi anni a cambiamenti rapidissimi: all’epoca si parlava di decenni, comunque un cambiamento era ineludibile. Lo stabilimento di Allumina di Marghera veniva rifornito di bauxite che proveniva dall’Istria, dalla Puglia, tutte miniere che negli anni Settanta non avevano più senso – se si pensa come veniva estratta la bauxite in Australia a cielo aperto. Era l’inizio di un certo tipo di globalizzazione.” (p.98)
Chi parla è Giorgio Berner, allora giovane dirigente della Sava.
“Allora c’era qualcuno che pensava che Porto Marghera per i successivi cinquant’anni potesse restare sempre così, invece purtroppo la realtà è in continuo movimento. Quando l’Alusuisse ha scoperto che in Australia non era più necessario andare sottoterra a ottocento metri per cercare quel minerale dal quale poi si ricavava l’allumina, ma c’erano miniere a cielo aperto, bastava andare con i bulldozer… da lì è incominciata ad andare in crisi … Porto Marghera” (p. 101)
Chi parla è Bruno Geromin, allora segretario dei metalmeccanici CISL a Marghera.
In conclusione.
La Puppini non vuole nascondersi dietro una falsa oggettività da ricercatrice ma prova a tirare delle conclusioni per il presente e per il futuro:
“Nell’ottica delle responsabilità occorre ripensare ai doveri/diritti di ciascuno; da una parte il dovere di rispettare l’ambiente e di garantire la produttività, dall’altra – cioè dalla parte operaia – il dovere di fare bene il proprio lavoro, ma il diritto di non morire sul posto di lavoro, il diritto di vivere in un ambiente sano, i cui tempi siano modulati sull’uomo e non sulla macchina, il diritto di trovare anche soluzioni migliorative, cioè di dare il proprio contributo di esperienze per un’umanizzazione dell’organizzazione del lavoro. Questo vuol dire riappropriarsi del proprio lavoro e responsabilità per le parti che competono a ciascuno; al finanziatore, al produttore, all’esecutore, al fruitore.” (p. 125)
La nostra autrice si accorge, però, che sta chiedendo tanto, forse troppo.
“Un sogno? Alle volte sognare aiuta a cambiare la realtà, poi, però, bisogna attrezzarsi per realizzare i sogni.”
Enzo Guanci
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Storia di donne e di uomini, di acque e di terre – BELLAFRONTE (CN)
BELLAFRONTE, E. Russo. Storia di donne e di uomini, di acque e di terre. Barletta: Editrice Rotas, 2009. Resenha de: GUANCI, Vincenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
Il sale non è solo l’ingrediente per rendere “saporita” la nostra alimentazione quotidiana. Il sale è assolutamente necessario nell’industria chimica, nella concia delle pelli e, naturalmente, per la fabbricazione dei prodotti agroalimentari. Pervade la nostra vita quotidiana. Ma non da ora; fin dal Neolitico i gruppi umani scoprirono l’importanza strategica di una materia prima necessaria all’alimentazione e che, per di più, consentiva la conservazione dei cibi. La storia dell’umanità è punteggiata da alleanze e conflitti per il controllo della produzione del sale, che, fino a pochi decenni or sono, era monopolio statale, e non solo in Italia.
Al museo della salina di Margherita di Savoia si impara la storia. La storia del sale e delle saline, la storia di Margherita di Savoia, delle sue donne, dei suoi uomini, dei suoi bambini, del loro lavoro, della loro vita.
Questo ci dicono e ci fanno capire Francesca Bellafronte ed Enzo Russo con il loro libro-catalogo del museo, Storia di donne e di uomini, di acque e di terre, editrice Rotas, Barletta, 2009.
La felice scelta degli autori è quella di dare al libro un’impostazione di tipo didattico.
Innanzitutto, la salina di Margherita di Savoia è raccontata secondo una struttura “presente-passato-presente”, che con tutta e immediata evidenza dà conto dei motivi per cui oggi valga la pena di studiare la storia di una realtà importante come la salina.
In secondo luogo, le difficoltà del testo storiografico sono stemperate attraverso l’uso della domanda e della risposta. Intendiamo dire, per esempio, che un testo descrittivo-argomentativo con un intrinseco rischio di forti asperità lessicali e concettuali, come quello sulle innovazioni tecniche nel XIX secolo, viene invece smontato, tematizzato, problematizzato e risolto con risposte relativamente brevi e piane a dieci domande:
- perché nel primo trentennio del XIX secolo prese corpo l’ipotesi di bonifica del lago Salpi?
- Quali conseguenze produsse la riduzione della profondità del lago?
- Quale problema destava più preoccupazione?
- Come si intervenne per risolvere questi problemi?
- Quale era il progetto di Afan de Rivera?
- Gli obiettivi di Afan de Rivera furono raggiunti?
- Come si presentava il nostro territorio a metà Ottocento?
- Quali erano le vie di comunicazione a metà Ottocento?
- Qual era la produzione della salina?
- Come si spiega l’incremento produttivo di inizio Novecento?
In terzo luogo, le tantissime riproduzioni di documenti d’archivio, carte topografiche, fotografie d’epoca, non svolgono una mera funzione esornativa bensì costituiscono, assieme ai testi, parte integrante del materiale per la costruzione della conoscenza storica di chi legge e studia.
Infine, due testi introduttivi e un glossario forniscono gli strumenti cognitivi e concettuali per seguire senza difficoltà, sia la visita al museo sia la sola lettura del libro.
Si inizia con la descrizione della salina oggi, all’inizio del XXI secolo: dove si trova, come funziona, con quali macchine; ci si sofferma sui procedimenti di produzione del sale, si scopre come viene impacchettato, come viene trasportato nelle varie parti d’Italia e del mondo; si arriva fino alle innovazioni più recenti, quale, per esempio, l’arricchimento con lo iodio introdotto da una legge del 2005.
La seconda parte del volume racconta il passato, la storia della salina. Si va dalla prima attestazione documentaria di una salina nella Tavola Peutingeriana, che nel XII secolo segnala la presenza di saline sulla costa adriatica già in epoca romana, fino agli anni Sessanta del Novecento. Ma alcune tracce la fanno risalire al Neolitico; si tratta delle cosiddette “vasche napoletane”. Cosa sono? Ce lo spiegano F. Bellafronte e E. Russo: “due canalette circolari, scavate su una piattaforma di pietra nell’età del Bronzo, rinvenute nei pressi del canale Carmosino. Probabilmente erano utilizzate per lo scolo dei sali di magnesio, più amari, dai cumuli di cloruro di sodio.”
La modernità irrompe nella salina in epoca illuminista con l’intervento del Vanvitelli, ingegnere e architetto, colui che aveva progettato la reggia di Caserta, chiamato dal re di Napoli, Carlo III di Borbone, ad ammodernare e riorganizzare la salina, per aumentarne la produzione. Nel XVIII secolo, ci ricordano gli autori, le “tecniche produttive erano rudimentali e basate sull’impiego di attrezzi manuali, per lo più azionati con la forza della braccia. L’energia animale era impiegata nel trasporto del sale: i cavalli trainavano i carretti carichi di sacchi di sale fino alla spiaggia, dove prendevano la via del mare. L’energia solare ed eolica, allora, come oggi, erano le principali protagoniste del processo di salinazione, attraverso l’evaporazione dell’acqua”. Vanvitelli risistemò le vasche, “attraverso l’eliminazione degli isolotti di terra, il livellamento del fondo e il consolidamento della base degli argini d’argilla, mediante l’inserimento di una fila di tufi.” Ma, naturalmente, non si limitò a questo; rese più vivibile l’ambiente, ampliò la base produttiva della salina e, soprattutto, introdusse le “coclee di Archimede”, chiamate volgarmente “trombe”, macchine che sostituivano i tradizionali “sciorni”.
Lo sciorno, ci spiegano gli autori, “consiste[va] in una specie di parallelipedo aperto su un lato, della capacità di due secchi, fissato ad un treppiede per mezzo di una fune. Veniva azionato a braccia: ci voleva un movimento continuo e ripetuto dei salinieri, per trasferire tutta l’acqua da un vaso all’altro” (cfr. illustrazione a p. 61). Le coclee di Archimede permettevano di “sollevare più facilmente l’acqua, in tempi più veloci e con minore fatica, superando i dislivelli altimetrici tra gli scaldati ed i campi” (p. 65) comportando anche una notevole riduzione di manodopera.
E così via. Il racconto del passato della salina di Margherita di Savoia viene presentato prestando sempre molta attenzione al contesto storico del tempo, spiegando le trasformazioni locali nella salina con il quadro politico, economico, sociale e culturale italiano ed europeo. Insomma, un esempio di come si può studiare la storia locale senza scadere nel localismo sterile che non ci fa capire i veri movimenti della storia.
Il libro si conclude con una bella carrellata di fotografie sulla evoluzione delle tecniche nel XX secolo rispetto alle problematiche di sempre della salina:
- raccolta e ammassamento del sale;
- pesatura e confezionamento;
L’accelerazione novecentesca appare in tutta la sua evidenza dalle fotografie degli zappasale al lavoro nei primi anni del Novecento, alla prima introduzione degli elevatori meccanici negli anni Dieci, alla velocizzazione con i nastri trasportatori negli anni Trenta, alla foto del capannone Nervi in funzione fino agli anni Settanta.
Insomma una pubblicazione di storia locale e di storia generale, di storia della tecnica e di storia sociale; una guida per una visita al museo e un percorso di educazione al patrimonio culturale. Impreziosita, tra l’altro, dall’accuratezza della grafica che rende leggibili le riproduzioni cartografiche e godibili quelle fotografiche.
Del resto già Giorgio Nebbia nella sua ricca e impegnata presentazione iniziale ci ricorda che oggi – dati del 2007 – nel mondo si producono ancora circa 250 milioni di tonnellate di sale, a testimonianza della sua importanza economica.
“Esiste tutta una economia e fiscalità del sale, una merce così importante – scrive Nebbia – che tutti i potenti ne hanno approfittato per ricavare imposte e per instaurare monopoli sul suo commercio. Salaria, Salina, Sale, Saline… sono i nomi di località e strade associate alla produzione e al commercio del sale. Plinio ricorda le saline di Taranto, di cui oggi resta traccia soltanto in un toponimo. E al sale era associato anche il nome di Salapia, Salpi, la misteriosa città che sorgeva proprio alle spalle della più grande salina del Mediterraneo, quella di Margherita di Savoia.” (p. 6).
Appunto a questa è dedicato il Museo, a parere dello stesso Nebbia di grande interesse per almeno tre motivi:
costituisce un opportuno riconoscimento dell’importanza dell’energia solare, il cui impiego nella salina di Margherita ammonta su base annua all’equivalente energetico di tre milioni e mezzo di tonnellate di prodotti petroliferi.
Mostra la lenta formazione del sale nelle saline solari, la nascita di cristalli diversi, mano a mano che con l’evaporazione si separano i vari sali. “Uno spettacolo che meriterebbe un film, tanto più che simili fenomeni si verificano nelle pentole, quando bolle l’acqua per la minestra, sulle serpentine degli scaldabagni …”
Recupera e valorizza la conoscenza di una peculiare industria chimico-mineraria, tipica del Mezzogiorno.
“Il recupero della storia e delle tecniche salinare di Margherita contribuirà – secondo Nebbia – a conservare e far crescere la conoscenza e l’orgoglio operaio e imprenditoriale proprio in Puglia, tanto più che le saline di Margherita sono state ricche di innovazioni sia meccaniche, sia chimico-industriali …”
Enzo Guanci – Membro della segreteria nazionale di Clio ’92, Associazione di insegnanti e ricercatori sulla didattica della storia. Ha insegnato Storia e ricoperto il ruolo di dirigente scolastico nella scuola secondaria di II grado. Recentemente ha curato, assieme a Carla Santini, il volume Capire il Novecento, FrancoAngeli editore, Milano, 2008. Svolge attività di formazione, ricerca e aggiornamento sulla didattica della storia.
[IF]
Il bisogno di pátria – BARBERIS (CN)
BARBERIS, Walter. Il bisogno di pátria. [Torino]: Einaudi, 2004 e 2010. 141p.. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
“Come figli di una famiglia senza armonia e senza memorie, gli italiani si sono spesso cresciuti da soli, superando la solitudine con cinismo, con opportunismo, con diffidenza, talvolta con esibizionismo. Ignorando le ragioni e l’utilità di una salvaguardia dell’interesse generale. E’ così che l’idea di patria si è di volta in volta caricata di significati che invece di tendere all’unità hanno accentuato visioni faziose, volte all’esclusione.” (p.7)
Con queste parole W. Barberis ripropone la questione della patria, o meglio della mancanza di un’idea di patria per gli italiani, partendo dalla sua considerazione che tale mancanza non ha inizio, come è stato scritto, l’8 settembre 1943, ma ben più in là, almeno cinque, se non quindici, secoli or sono. Egli sviluppa le sua argomentazioni annodandole intorno a tre temi, o meglio, intorno a tre “bisogni”, a ciascuno dei quali dedica quarantadue pagine: il bisogno di Stato, il bisogno di storia, il bisogno di patria.
Quale patria?
“una patria che non disegni i confini di un’identità chiusa, esclusiva; ma che prenda valore dalla consapevolezza della pluralità storica dei suoi volti. Una patria che non dimentichi di richiedere a chi appartenga alla comunità il rispetto delle tradizionali virtù civiche: l’obbligazione fiscale, l’esercizio della giustizia, la difesa delle istituzioni dello Stato.” (p. 10)
Il libro guarda al futuro, sia pure riflettendo sul passato. Si tratta, infatti, di un libro di storia. Perché, ricorda l’autore, ” è la storia ciò di cui ha bisogno un popolo: qualcosa che rimetta in ordine, oltre lo spirito di parte, la dinamica degli avvenimenti e le loro molteplici ragioni.” La memoria ha uno sguardo parziale e, pertanto, non può nutrire che sentimenti patriottici esclusivi; memorie differenti si contendono lo spazio della patria “una” tendendo ciascuna a farsi storia. E’ proprio questa contesa che una società sana deve evitare. E la storia ha esattamente questa funzione: “affidata a protocolli riconosciuti da una comunità scientifica”, attraverso procedure di analisi e interpretazioni, ha il compito di fornire alla comunità intera uno sguardo generale. Barberis esemplifica tutto questo nelle pagine dedicate a sviluppare il tema del bisogno di storia indicando le linee per la costruzione di una “dotazione storiografica comunitaria – se vogliamo nazionale – … [uscendo] dalle contingenze e dalle urgenze della contemporaneità. L’Italia ha una storia millenaria, tutta utile alla definizione dei suoi caratteri attuali e alla possibilità di emendarli.” E qui vengono ricordati i soggetti necessari a costruire una storia d’Italia: la Chiesa innanzitutto, Roma, i municipi, il Mezzogiorno, la Repubblica, la Costituzione.
La storia ci conferma che una comunità priva di un apparato statuale efficiente e condiviso non è davvero tale, poiché ciascuno in misura più o meno grande inclina infine verso il proprio interesse privato, provocando proprio ciò che tanto spesso è stato incolpato agli italiani: opportunismo, trasformismo, dissimulazione, mancanza di senso dello Stato, appunto. Barberis mostrando la necessità di uno Stato per gli italiani ripercorre la storia della sua formazione a partire dalla risposta alla domanda: perché proprio il Piemonte (e non un altro tra gli Stati d’Italia) unificò la penisola fondando lo Stato italiano?
“Il Piemonte, selvatico e periferico, non aveva conosciuto gli splendori della civiltà comunale e signorile… La certezza delle istituzioni, la loro continuità, la prospettiva di durata della dinastia, il suo radicamento territoriale, fecero ciò che non conobbe il resto d’Italia: assicurarono i sudditi che le loro iniziative erano possibili, che avevano i requisiti minimi di riuscita, primo fra tutti il tempo, garante eccellente di ogni contratto…. non furono simpatia, garbo e cultura; ma senso dello Stato, tecnica amministrativa e militare, e anche un certo patriottismo, il bagaglio eccentrico con cui poi i piemontesi si disposero all’incontro con gli altri italiani.”(p. 21)
Il bisogno di patria, la coscienza di appartenere ad un’unica comunità, furono esigenze che si rappresentarono immediatamente dopo la fondazione dello Stato italiano e sono state preoccupazioni presenti finora nella classe dirigente per tutti i centocinquant’anni dal 1861. All’inizio fu soprattutto la letteratura a svolgere il ruolo più importante, si pensi solo alle poesie di Carducci e al Cuore di De Amicis, ma poi dopo la prova tremenda della Grande Guerra, fu il fascismo a forgiare l’idea di patria sovrapponendola alla retorica della guerra, aiutato in questo dalla letteratura futurista. Così si confuse patria con nazionalismo, aggressione e morte, con la guerra appunto.
Oggi, bisogna ricostruire per gli italiani un’idea di patria che escluda non solo guerra ma anche la sopraffazione degli altri popoli , i quali, al contrario, vanno inclusi in un’idea di patria meticciata, alla quale partecipano tutti coloro che hanno la fortuna di abitare un paesaggio unico al mondo, poiché, ricorda Berberis citando Settis, “il nostro bene culturale più prezioso è il contesto, il continuum nel quale si iscrivono monumenti, opere, musei, città e paesaggi, in un tessuto connettivo ineguagliabile… questo è il tratto identitario degli italiani” (p.111). Se questo è vero, come è vero, vuol dire che insegnare storia d’Italia significa insegnare contemporaneamente geografia d’Italia, poiché ciò che conta imparare, va ribadito, è innanzitutto il contesto, di tempo e di spazio.
[IF]Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro – PALLOTTI (CN)
PALLOTTI, Gabriele; CAVADI, Giorgio. Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro. Formello (Roma): Bonacci editore, 2012. Resenha de: GUANCI, Enzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
A cura di Enzo Guanci.
“Mangiare non era l’unico intrattenimento. Nel Rinascimento infatti ci si divertiva in molti modi e anche questo ci fa capire come ci si sentisse più liberi. Nel Medioevo la Chiesa controllava tutta la vita delle persone e considerava i giochi come una specie di peccato: quindi non si giocava molto e chi lo faceva doveva un po’ vergognarsi. Invece nel Rinascimento il gioco diventa una parte importante della vita: tutti, ricchi e poveri, giocano in ogni luogo, in casa, nei negozi , nelle osterie, nelle strade e nelle piazze.” (p. 86)
Questa è una notizia tratta dalle ventisette pagine dedicate al Rinascimento nella “storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro” da Gabriele Pallotti e Giorgio Cavadi. L’informazione sui giochi si trova nella pagina dedicata al “divertirsi ” nel paragrafo “La vita nel Rinascimento”, che costituisce la parte più corposa del capitolo; gli altri paragrafi sono dedicati alla geopolitica (gli Stati nazionali; le signorie, piccoli stati regionali) e a fornire informazioni di contesto che consentano di comprendere il Rinascimento italiano nel quadro europeo. La scelta degli autori è appunto quella di incentrare il loro manuale sulle condizioni di vita, sui costumi, sulle abitudini sociali degli italiani piuttosto che sugli avvenimenti della politica nel corso dei secoli. La selezione dei contenuti quindi affranca il manuale dalla congerie dei numerosissimi eventi del tempo breve della politica, concentrandosi sulla descrizione delle strutture delle società italiane presentate in cinque “epoche”, come programmaticamente esplicitato nell’introduzione: Roma, il Medioevo, il Rinascimento, l’Ottocento, il Novecento. Ciò consente di “raccontare” l’Italia dall’VIII sec. a. C. alla fine del XX secolo in poco più di centoquaranta pagine! E per chi volesse approfondire ci sono tre pagine di riferimenti bibliografici.
In realtà, la storia non viene “raccontata”: non ci sono, per esempio, i personaggi e gli episodi che tradizionalmente punteggiano la storia d’Italia dei nostri manuali scolastici, che generalmente fanno della storia politica e delle istituzioni un genere storiografico noioso e poco comprensibile agli studenti della scuola secondaria. Gli autori segnalano fin dal titolo lo sforzo di descrivere la carrellata dei ventotto secoli di storia italiana “in modo semplice e chiaro”. Non era facile. Loro ci sono riusciti. Sulla base di due idee-forza: costruire un linguaggio piano, controllato al punto da riuscire “semplice”; costruire un affresco del passato d’Italia sulla base delle conoscenze essenziali a comprendere le trasformazioni delle società e dei popoli italiani dall’epoca romana al Novecento. E, siccome il libro è pensato per comprendere l’Italia di oggi, l’intero testo è punteggiato frequentemente da riferimenti e riflessioni sull’attualità, anche con un apposita rubrica titolata “ieri e oggi” (Per esempio, nelle pagine in cui si parla della repubblica romana e della figura istituzionale del dictator la rubrica viene usata per sollecitare una riflessione sul mondo attuale:
“Anche in tempi più recenti qualcuno ha pensato che un dittatore solo con tutto il potere riesca a governare lo Stato meglio di un’assemblea di rappresentanti. Ad esempio in Italia, durante il fascismo, Mussolini…. Uno Stato in cui decide una persona sola si chiama assoluto o autoritario. Uno Stato in cui le decisioni sono prese dai rappresentanti eletti da tutti i cittadini si chiama democratico. Hai mai pensato cosa si guadagna e cosa si perde in ciascuno di questi sistemi?”).
Leggendo attentamente il libro a noi pare emerga chiara la difficoltà di raccontare la storia politica “in modo semplice e chiaro” senza cadere nella banalizzazione. Un esempio, a noi sembra, possa essere fornito dalle due-tre pagine dedicate al Risorgimento (L’Italia diventa un Paese unito, pp. 97-99) nelle quali Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi si muovono come personaggi di un “racconto” dal quale sono espunte le problematizzazioni del fenomeno risorgimentale, perché i problemi non si possono “raccontare” e se lo si fa è quasi impossibile farlo con un “linguaggio semplice e chiaro”: si rischia appunto la “banalizzazione”. I nostri autori hanno intelligentemente evitato questo rischio proponendo una storia d’Italia dal punto di vista economico e sociale, come espressamente dichiarato nell’introduzione.
Infine va anche sottolineato che il libro non dimentica la sua funzione di strumento per l’apprendimento della storia e pur non proponendo esplicitamente esercitazioni per sviluppare le abilità di base della disciplina, l’uso di linee del tempo, tabelle, cartine tematiche, illustrazioni non di carattere esornativo bensì inserite e commentate nel testo, e l’esortazione frequente a riflettere su analogie e differenze tra passato e presente (Ieri e oggi, Pensaci su) indica implicitamente a chi ha la responsabilità dell’insegnamento la strada migliore per interessare gli allievi a imparare la storia d’Italia.
Maggio 2012
[IF]La Repubblica inquieta. L’Italia della Costituzione 1946-1948 – De LUNA (BC)
DE LUNA, Giovanni. La Repubblica inquieta. L’Italia della Costituzione 1946-1948. Milano: Feltrinelli, 2019. 304p. Resenha de: GUANCI, Vicenso. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.191-196, giu./nov., 2019.
«Per risvegliarci come nazione, dobbiamo vergognarci dello stato presente. Rinnovellar tutto, autocriticarci. Ammemorare le nostre glorie passate è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti, è conforto all’ignavia e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione».
Con questa citazione di Giacomo Leopardi, Giovanni De Luna concludeva nel 20131 il racconto di un’Italia che dall’iniziale trasformismo liberale all’attuale subalternità alle regole del mercato non sembra essere riuscita a darsi quella religione civile che l’autore già allora individuava nel “dare forza” alla nostra Costituzione.
Quattro anni dopo pubblica questo libro, riedito in edizione economica quest’anno, nel quale racconta come si fece la Costituzione. Come e perché dal 1945 al 1948 fu possibile costruire una sorta di “sacra scrittura” per una “religione civile”. La consolidata storiografia sull’argomento viene rivista alla luce dei diari di coloro che “vissero con passione e impegno gli anni di formazione della nostra Repubblica” – a cui infatti viene dedicato il libro – conservati presso l’Istituto storico della Resistenza “Giorgio Agosti” e soprattutto all’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano. Ne scaturisce una narrazione appassionante e una dettagliata analisi del momento storico in cui vennero poste le basi della nostra moderna democrazia.
Furono due anni: dal 2 giugno 1946 al 18 aprile 1948. Un biennio cruciale. Che si comprende a fondo solo se si studiano bene le premesse: gli avvenimenti dei tredici mesi e sette giorni precedenti, dal 25 aprile 1945 al 2 giugno 1946.
Il libro è organizzato in tre parti. La prima ci mette di fronte ad un paese con strutture demografiche e produttive molto simili a quelle degli inizi del Novecento, con un Mezzogiorno ancorato al tempo quasi immobile della civiltà contadina e con un tasso di analfabetismo del 25-30%, e un Settentrione con il 60% del reddito nazionale e analfabetismo pressoché scomparso. E’ un’Italia disunita quella che esce dalla guerra. Per ricordarla De Luna rimanda alle immagini di Paisà di Rossellini, ché meglio non si potrebbero raccontare i drammi e gli entusiasmi nelle terre della penisola risalita dalla Sicilia alle regioni settentrionali; in più sottolinea la condizione delle donne che “rappresentarono allora l’icona simbolicamente più efficace dei guasti che l’arrivo degli eserciti alleati poteva causare” (pag. 39) e che, tra il 1943 e il 1945, si sommarono alle stragi naziste. Le due Italie in quegli anni si riconoscevano nella contrapposizione tra fascismo e antifascismo. Il 25 aprile 1945 vinse la Resistenza, che “si propose come la negazione di quei caratteri di passività e rassegnazione che sembravano pesare come una sorta di tara genetica sulla nostra identità collettiva” (pag. 57); vinse l’Italia viva e nuova, l’Italia dei prefetti del Cln, l’Italia del governo Parri. Iniziò il dibattito, o meglio, una vera e propria lotta politica, tra la “continuità” dello Stato a cui era favorevole il ministro Benedetto Croce (la “parentesi” fascista) e la “discontinuità” dallo Stato liberale e fascista per una nuova democrazia per la quale si batteva il Partito d’Azione. Si scelse la prima opzione. Parri fu sostituito da De Gasperi che, assieme a socialisti e comunisti, guidò il paese verso le nuove elezioni del 2 giugno 1946 a suffragio davvero universale (per la prima volta votavano le donne!) per la Costituente e il referendum tra la monarchia e la Repubblica. Furono giorni difficili. Le pagine di De Luna rendono bene il momento: “Che il rischio di una nuova guerra civile ci fosse davvero ce lo dice la cronaca delle giornate convulse seguite al referendum.” (pag. 106)
I partiti di massa nati dalla lotta partigiana, il governo, il Vaticano, soprattutto la Casa Reale, tutti si muovevano su un filo di rasoio. Il 12 giugno dopo un ultimo colloquio con Pio XII, dopo aver messo al sicuro i gioielli e il patrimonio di famiglia, Umberto II partì per l’esilio portoghese. Il 18 giugno la Cassazione ratificò il risultato delle elezioni, il 25 giugno l’Assemblea Costituente tenne la sua prima seduta. “La Resistenza aveva vinto, e con essa la democrazia. Una vittoria che chiudeva una pagina esaltante della nostra storia. […] Il 28 giugno, Enrico De Nicola fu eletto capo provvisorio dello Stato con 396 voti su 501: ‘Camminava come un impiegato che va all’ufficio, un signore qualunque che rientri a casa un po’ preoccupato’ annotava Alba de Céspedes. I 40 voti dei repubblicani andarono a Cipriano Facchinetti, i 30 dell’Uomo Qualunque a Ottavia Penna di Caltagirone, nata baronessa di Buscemi, una donna, a simboleggiare un’altra delle rotture sancite dal 2 giugno 1946.” (pag.118)
La seconda parte racconta e spiega come in due anni, un mese e dodici giorni nacque la repubblica dei partiti e fu scritta la Costituzione, Carta fondamentale della nostra democrazia.
Le elezioni dell’Assemblea Costituente sancirono la nascita dei partiti politici. E dei partiti di massa: la Democrazia Cristiana con il 35,1%, il Partito Socialista con il 20,6%, il Partito Comunista con il 18,9%; agli altri restarono le briciole. Eredi delle bande politicizzate della Resistenza, i “partiti dei fucili” – come li chiamano taluni storici – erano diventati “partiti delle tessere”; i partigiani erano diventati elettori e i capi dirigenti e militanti di partito. De Luna si rifà esplicitamente al pensiero di Norberto Bobbio con una sua citazione sul nesso vitale tra partiti e democrazia: «L’allargamento del suffragio ha reso inevitabile la formazione di grandi e bene organizzate associazioni politiche. E queste associazioni si sono consolidate applicando al loro interno le regole della democrazia […] così che il partito oggi non è soltanto l’organo motore dello stato democratico ma è anche per la sua stessa costituzione il principale coefficiente di una educazione politica democratica, perché stimola energie assopite, dirige volontà disordinate, porta sul piano di un’attività politica concreta e fattiva interessi sviati e incerti.» (pag. 142). Quanto importante e decisiva si dimostrò la loro funzione non solo di pedagogia politica ma anche e soprattutto di direzione e guida delle masse si vide nei momenti di crisi della neonata democrazia italiana. Per esempio, la firma del Trattato di pace nel febbraio 1947, che oltre alle perdite delle colonie e di territori al confine francese, dovette affrontare le questioni del confine italo-jugoslavo con Trieste e l’Istria, in piena “guerra fredda”, con il ricordo dell’occupazione italiana fascista della Slovenia, i morti delle foibe, i profughi istriani. E ancora, le rivolte partigiane contro la politica di “rappacificazione” portata avanti da Togliatti e De Gasperi, di cui quello più famoso è l’episodio di Santa Libera – una frazione di Santo Stefano Belbo nelle Langhe – dove nella notte del 20 agosto 1946 una sessantina di partigiani occuparono la zona e ci volle l’intervento di un dirigente del PCI e di Pietro Nenni – vicepresidente del Consiglio – per farli sloggiare. Soprattutto, la campagna elettorale per le elezioni del primo Parlamento della Repubblica del 18 aprile 1948 che fu davvero contrassegnata da forti contrasti e grande partecipazione di massa. I prestiti americani e il piano Marshall fecero ripartire l’economia e la politica economica deflattiva di Luigi Einaudi se favoriva industriali e ceto medio impiegatizio ma portò disoccupazione e licenziamenti tra gli operai. Tutto questo ovviamente aumentò molto le tensioni nel paese. La lunga guerra mondiale, e in più la guerra civile fascisti-antifascisti, da cui si era appena usciti, aveva comunque creato un’abitudine alla violenza, all’uso della violenza, quasi fosse un normale strumento di pressione e repressione. Le manifestazioni di protesta, gli scioperi, spesso finivano in scontri, anche cruenti, tra la Celere – reparto di polizia specializzato creato da Scelba, ministro degli Interni – e i manifestanti. Il primo maggio 1947, nelle campagne di Portella della Ginestra, in Sicilia, banditi assoldati dai latifondisti, spararono sulla folla di contadini che festeggiava il “Primo Maggio” nelle terre occupate. Il 31 maggio De Gasperi formò il suo IV governo, questa volta senza comunisti e socialisti. Era partita la crociata anticomunista, appoggiata dal Vaticano che mise in campo tutta la forza della Chiesa Romana. Le sinistre si presentarono unite sotto le insegne del Fronte popolare, convinti di vincere e instaurare il socialismo. Il 18 aprile la DC ottenne il 48,7% dei voti, il Fronte (PCI+PSIUP) il 31%. Per De Gasperi fu un trionfo, per socialisti e comunisti una delusione tremenda.
Tre mesi dopo uno studente fascista esaltato sparò a Togliatti mentre usciva da Montecitorio. Il paese si sentì e si trovò di nuovo sull’orlo della guerra civile. Dopo aver affrontato e superato una campagna elettorale difficile, appassionata e movimentata, dovette affrontare una prova ancora più aspra. Poche ore dopo l’attentato, con Togliatti in sala operatoria, le fabbriche del triangolo industriale si fermarono per scioperi spontanei, le piazze furono occupate da manifestanti, poliziotti e militari consegnati nelle caserme pronti a tutto. Il 16 luglio lo scontro si trasferì in Parlamento con i deputati comunisti che attaccarono il ministro Scelba. In quei tre giorni tuttavia non accadde nulla di irreparabile. Ci furono, è vero, 92.000 persone fermate dalla polizia, di cui 70.000 rinviate a giudizio; 11 morti tra i manifestanti e 6 tra le forze dell’ordine. Complessivamente negli anni dal 1948 al 1954 sono stati contati negli scontri tra polizia e manifestanti 75 morti e 3126 feriti, ai quali vanni aggiunti 28 persone uccise nelle campagne dai latifondisti. Nello stesso periodo risulta che in 38 province furono arrestati 1697 partigiani dei quali 884 condannati a complessivi 5806 anni di carcere. “Un bilancio pesante, il prezzo pagato nel difficile processo d’impianto della democrazia in Italia”, commenta De Luna (pag. 216).
Nella terza parte l’autore tira le fila del suo lavoro di ricerca tra cronaca, letteratura e storiografia individuando “le Italie che finiscono e… quelle che cominciano”.
Le giornate dell’attentato a Togliatti costituirono per il movimento operaio “l’occasione di congedarsi definitivamente da quel tipo di lotta e dalla paralizzante alternativa integrazione-insurrezione; con i caroselli della Celere di Scelba si chiudeva una fase lunghissima della storia delle classi subalterne, aperta mezzo secolo prima dalle cannonate di Bava Beccaris a Milano; quella forse più epica, ma anche, senz’altro, la più cruenta e difficile. In quei tre giorni si bruciarono modelli politici e tradizioni culturali ai quali il mutare delle condizioni economiche avrebbe di lì a poco sottratto ogni parvenza di credibilità” (pag. 281)
Il miracolo economico negli anni Cinquanta avrebbe mutato la stessa antropologia degli italiani, non solo le dinamiche politico-economiche. Sarebbero cambiati usi e costumi, consumi e culture; elettrodomestici e televisione, scooter e automobili, avrebbero modificato le percezioni del tempo e dello spazio.
E i partiti? I partiti furono costretti al rinnovamento. Pur non avendo essi determinato la grande trasformazione del paese cercarono di farvi fronte. Con fatica, vi riuscirono. “La fiammata antipartitica che aveva animato le schiere di quelli che avevano votato per la monarchia nel referendum del 2 giugno 1946 […] si era spenta e gli elettori qualunquisti, a partire dal 1948, avevano indirizzato i loro voti verso la Democrazia Cristiana […]. E la Costituzione era diventata compiutamente e decisamente la Costituzione dei partiti.” (pag. 286)
La Costituzione sarebbe rimasta la consegna più importante e duratura che i partiti di massa hanno lasciato agli italiani. Nella Costituente si scrisse e operò solennemente un patto di cittadinanza condiviso fondato sul “grande compromesso” dell’intreccio tra le tre culture che fanno il nostro paese: “la tradizione democratico-liberale, che lasciò la sua impronta nel riconoscimento del valore assoluto dei diritti dell’uomo; l’accentuazione dei principi di giustizia sociale, che avevano animato larga parte del movimento operaio; lo slancio solidaristico e comunitario che da sempre aveva segnato le battaglie politiche dei cattolici.” (pag. 289)
Giovanni De Luna conclude il suo libro così. Ricordando che con la Costituzione i partiti della Resistenza hanno vinto. E, se è vero che vinse la “continuità” dello Stato con i suoi apparati più o meno fascisti, o almeno nostalgici di quel tempo, è vero che la Resistenza seppe forgiare una classe politica rivelatasi pienamente all’altezza dei suoi compiti.
“La Resistenza fu qualcosa di più grande dei Cln e dei partiti che la guidarono, perché la Resistenza fu soprattutto la ‘moltitudine delle vite concrete dei resistenti’, di quanti interpretarono l’8 settembre 1943 come la fine di una stagione di carestia morale e di avvelenamento delle coscienze, vivendola come il momento in cui non ci si doveva vergognare di se stessi e si potevano riscattare venti anni di passività e di ignavia. E fu quella scelta che contribuì a fare del 25 aprile 1945 una data fondamentale della nostra religione civile.” (pag.291)
Vicenzo Guanci
[IF]Criminali del campo di concentramento di Bolzano – Di SANTE
DI SANTE, Costantino. Criminali del campo di concentramento di Bolzano. Bolzano: Raetia, 2019. 319p. Resenha de: SESSI, Frediano. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.201-203, giu./nov., 2019.
Il campo di concentramento di Bolzano, nel sobborgo di Gries, denominato ufficialmente Polizeilisches Durchgangslager (Campo di transito), istituito dapprima come campo di lavoro (15 maggio 1944) e successivamente come parte dei campi di smistamento italiani degli ebrei e dei prigionieri politici in Germania (probabilmente dai primi giorni di luglio del 1944), sorse lungo l’attuale via Resia, all’interno di un complesso di capannoni già adibiti a deposito dal Genio militare fin dal 1941. Di forma rettangolare, copriva un’area di circa 17.500 metri quadri, dei quali almeno 13.000 erano coperti da baracche. Circondato da un muro di cinta, venne messo in sicurezza anche con rotoli di filo spinato, atti a impedire eventuali fughe. In ciascuno dei quattro angoli, vennero poste delle torrette di guardia, in legno, all’interno delle quali stazionava in permanenza una guardia SS, munita di mitragliatrice.
La guarnigione SS era composta da uomini di diversa nazionalità arruolati nel corpo: sud-tirolesi, italiani, ucraini e tedeschi. Tra le baracche, un’area piuttosto ampia era riservata ai laboratori: falegnameria, sartoria, tipografia e officina meccanica. Oggi si calcola che i deportati nel Lager di Bolzano siano stati circa 11.000, dei quali, fino a 3.500 furono rilasciati il 3 maggio 1945, giorno della chiusura del campo.
I prigionieri erano costituiti da ebrei e politici, uomini e donne, provenienti a partire dall’estate del 1944, dal campo di Fossoli e dalle carceri maggiori dell’Italia del Nord.
Varcata la soglia del Lager, il prigioniero veniva registrato e classificato, come negli altri campi di concentramento tedeschi, con un numero di serie e un triangolo colorato che indicava lo statuto razziale e sociale del detenuto: politico, asociale ecc. Alcune testimonianze raccontano che per gli ebrei e gli zingari (prigionieri razziali) esisteva una serie di numeri a parte, per questo, ancora oggi risulta difficile ipotizzare quanti fossero i detenuti non politici. La stima più credibile è che non abbiano superato il 10% di tutti i deportati. Quanto alle donne, si calcola che non fossero più di 1.200, mentre i bambini che occupavano gli stessi locali baracca delle donne non erano più di venticinque. Tra le donne, numerose partigiane ma anche famigliari di politici ostaggio delle SS, per costringere i partigiani a consegnarsi. Nell’ottobre del 1944, nonostante la guerra per la Germania sia ormai perduta, il campo subisce degli ampliamenti in vista di un aumento del numero degli internati.
La storia del Lager di Bolzano, così brevemente sintetizzata, che viene ricostruita con precisione di particolari nelle prime 143 pagine del nuovo libro di Costantino di Sante, in apparenza sembra simile a quella di altri campi di transito sparsi nell’Europa occupata.
L’autore la arricchisce di documenti, carte geografiche che spiegano i transiti dei prigionieri deportati verso altri Lager, fotografie e storie individuali di prigionieri, la cui testimonianza rende consapevole il lettore della tragedia rappresentata dalla vita quotidiana in questo «piccolo Lager», in una parte d’Italia incorporata al Reich; vita quotidiana assai poco raccontata dai libri di storia italiana, che raccontano qualcosa del Lager, come se la sua breve durata e il suo essere prevalentemente un luogo di transito, fossero sufficienti a trattare con leggerezza questa parentesi violenta dell’occupazione tedesca e del sostegno alla Germania da parte della neonata Repubblica sociale.
La ricerca di Costantino di Sante, abituato a scoprire negli archivi documenti e storie dimenticati dell’Italia e degli italiani nel corso della Seconda guerra mondiale, ha ridato al Lager di Bolzano il posto che gli spetta nella storia e nella memoria nazionali. A contribuire al suo parziale oblio nella memoria collettiva, lo smantellamento del sito e le poche tracce di quella caserma-prigione hanno giocato un ruolo importante. Ma, prima del lavoro di Costantino di Sante sono stati pochi i saggi storici, e i libri di memorialistica che ne hanno reso possibile lo studio e la conoscenza.
La parte più rilevante del libro è costituita dalla ricostruzione meticolosa e documentata delle biografie e spesso delle azioni dei maggiori responsabili del Lager: gli aguzzini, i carnefici. A cominciare da Rudolf Thyrolf, vicecomandante della polizia di sicurezza tedesca, per proseguire con August Schiffer, direttore della Gestapo e tra gli altri Karl Titho, sottotenente SS e comandante del Lager, Hans Haage, responsabile della disciplina, Joseph König, maresciallo SS e responsabile delle squadre di lavoro. I nomi e le vite ricostruite sono molti di più e per ciascuno di loro, per la prima, volta viene raccontata la carriera militare e politica e i comportamenti in Lager, con fotografie, lettere, testimonianze che fanno entrare il lettore nella loro vita sociale e familiare.
Ne emerge, come è accaduto per il campo di Auschwitz, dopo la scoperta dell’Album fotografico di Karl Friedrich Höcker, un racconto grottesco di uomini e donne che mentre torturano, scherniscono e affamano centinaia di detenuti, vivono momenti di serenità con le loro donne e le loro famiglie, o tra commilitoni.
Il capitolo terzo, «Il tempo libero dei carnefici» è allora centrale alla comprensione della moralità dei nazisti e delle trovate psicologiche utili al sostegno del loro lavoro di assassini: anche così e non solo con il supporto dell’ideologia, i nazisti si convincevano che gli ordini che erano chiamati a eseguire non erano da considerarsi criminali, ma una necessità della storia Europea, per la costruzione di un «nuovo ordine europeo». Si capisce assai bene, leggendo queste pagine, come la nuova e vera moralità tedesca fosse nella «legge del sangue», garanzia di tutela del popolo ariano e conforto di verità contro gli inetti, i razzialmente impuri, gli oppositori: tutti esseri inferiori per i quali il diritto alla vita, nella nuova Europa, non era tutelabile e tollerabile, se non nella condizioni di schiavi del lavoro.
Straordinario il ritrovamento di documenti e di molto materiale a stampa, interpretato e organizzato da Costantino di Sante nelle pagine del libro e reso pubblico per la prima volta.
Un saggio storico, dunque, ricco di nuove scoperte d’archivio, sostenute da un racconto di fatti, di uomini e donne che, in questa storia, hanno vissuto nel bene o nel male (dalla parte giusta o dalla parte sbagliata) da protagonisti.
Un saggio da inserire nei programmi di storia contemporanea nei corsi universitari e nei laboratori delle scuole superiori, e non solo per non dimenticare.
Dal racconto delle vite dei carnefici emerge un monito: i peggiori torturatori erano uomini che avevano storie comuni a quelle di tanti altri e che a causa di un’ideologia totalitaria e razziale si sono trasformati in esecutori dei crimini più efferati del nostro recente passato, cancellando in loro ogni residuo di umanità e dignità.
La strada che hanno percorso per arrivare a compiere un simile Male radicale, sappiamo, che non è ancora chiusa.
Frediano Sessi
[IF]Filosofia do cuidado – MORTARI (C)
MORTARI, Luigina. Filosofia do cuidado. Tradução de Dilson Daldoce Junior. São Paulo: Paulus, 2018. Resenha de: PROVINCIATTO, Gabriel Luís. Conjectura, Caxias do Sul, v. 24, p. 196-201, 2019.
Filosofia do cuidado é o segundo título da coleção Mundo da vida, inaugurada com a obra: Edmund Husserl: pensar Deus, crer em Deus (2016), da filósofa italiana Angela Ales Bello. A obra aqui apresentada caracteriza-se, sobretudo, pela abordagem de um tema específico, já exposto no título: o cuidado. Luigina Mortari, na verdade, já dedicou outras obras a essa temática, entre elas: A prática de cuidar (La pratica dell’aver cura) (2006), Cuidar de si mesmo (Aver cura di sé) (2009), Cuidar da vida da mente (Aver cura della vita della mente) (2013) e, mais recentemente, Filosofia do cuidado (Filosofia della cura) (2015). O principal ponto da obra (agora traduzida ao português) é o enfoque ético dado pela autora à dimensão filosófica do cuidado. A dimensão ética, porém, não é colocada de chofre como algo simplesmente dado ou como um pressuposto necessário a um mínimo entendimento da obra. Uma das intenções de Mortari é justificar por que o cuidado tem uma estreita ligação com a ética e, para tanto, propõe-se a construir um caminho ao longo da obra.
A estrutura da obra ajuda a compreender três aspectos cruciais: o ponto de partida teórico, a metodologia utilizada e os resultados alcançados. Há quatro capítulos: “Razões ontológicas do cuidado”, “A essência de um bom cuidado”, “O núcleo ético do cuidado” e “O concretizar-se da essência do cuidado”. O primeiro esclarece o ponto de partida teórico: aí a autora já sinaliza à relação entre ontologia e ética, bem como à importância da abordagem fenomenológica desse tema. Nesse sentido, uma ontologia do cuidado é devidamente justificada a partir de Ser e tempo (1927), de Martin Heidegger (1889-1976), à qual se somam outros dois pensadores fundamentais à continuidade do texto: Edith Stein (1891-1942) e Emmanuel Lévinas (1906-1995). O segundo capítulo, por sua vez, dá conta da questão metodológica, justificando o uso da fenomenologia como guia da pesquisa; novamente a autora se aproxima de Heidegger e traz também algumas contribuições de Husserl. Não se trata, porém, de uma mescla entre concepções distintas do que seja a fenomenologia, mas de mostrar sua relevância como método. A correlação eminente entre os dois primeiros capítulos vem à tona no terceiro: nele, de fato, a autora mostra como se desdobra essa relação entre ontologia e ética, como a fenomenologia está presente na adequada abordagem prática do cuidado e como a dimensão do cuidado é eticamente relevante ao estar em estreita sintonia com o paradigma filosófico da busca ideal do bem e de sua concretização. O quarto capítulo, muito próximo dos resultados apresentados no terceiro, mostra algumas diretrizes fundamentais à realização cotidiana do cuidado, tendo como perspectiva o paradigma ético do bem. Lá ainda são retomadas as perspectivas iniciais às quais se somam as concretizações possíveis de uma ética do cuidado. Leia Mais
L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea – BELLASSAI (BC)
BELLASSAI, Sandro. L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea. Roma: Carocci, 2012. 181p. Resenha de: DI TONTO, Giuseppe. Il Bollettino di Clio, n.9, p.79-82, feb., 2018.
Che cosa hanno in comune le immagini di Mussolini in posa atletica, proposte dall’Istituto Luce durante la “Battaglia del grano”, con le foto dei corpi maschili dagli addominali perfetti che la pubblicità moderna ci propina? Apparentemente nulla o quasi. Entrambe, comunque, segnalano alcune tappe della rappresentazione dell’identità maschile nella nostra società e con esse il concetto di virilità, che va a pieno titolo inserito nello scaffale tematico della storia di genere letta al maschile.
A questo tema lo storico Sandro Bellassai ha dedicato, alcuni anni fa, esattamente nel 2012, una delle sue ricerche sulla storia di genere al maschile nel libro L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Roma 2012, che a noi pare, se pur a distanza di qualche anno dalla sua uscita, ancora di fondamentale importanza per quanti volessero farsi un’idea più approfondita su questo problema della storiografia di genere.
Il concetto di virilismo, inteso nella definizione del Grande Dizionario della Lingua Italiana di S. Battaglia come “l’esasperazione di qualità, comportamenti virili o tradizionalmente ritenuti tali” viene analizzato da Bellassai nel suo sviluppo storico per periodi a partire dal secolo XIX per arrivare fino ai nostri giorni.
Lo scopo del libro, esplicitamente dichiarato dall’autore, è quello di delineare una cornice interpretativa di “una storia del virilismo come ideale politico (dove questo aggettivo non si riferisce letteralmente solo al sistema politico, ma a dinamiche sociali e culturali che definiscono limiti e possibilità della libertà e del potere nelle relazioni fra uomini e donne). Come ideale politico astratto, in particolare, che ha segnato profondamente per oltre un secolo linguaggi, immagini, comportamenti di soggetti maschili concreti.”(p.9) L’approccio proposto privilegia quindi, in modo particolare, la dimensione simbolica della mascolinità e le rappresentazioni che ad essa possono essere collegate, cercando di mettere in rilievo alcuni aspetti del loro uso politico nella storia italiana contemporanea.
L’analisi prende le mosse dalla società della fine del secolo XIX, con le sue radicali trasformazioni economiche sociali e culturali, quando sembrava “prefigurarsi una decadenza dell’assoluta sicurezza maschile nel pubblico e nel privato” (p.17). La patriarcale centralità della figura maschile che fino ad allora aveva dominato indiscussa, entrava in crisi e con essa le gerarchie di genere. In un‘epoca in cui “le élite e la sempre più rilevante opinione pubblica avevano un carattere prevalentemente maschile, il crescente protagonismo – anche sociale e politico – delle donne venne percepito come una minaccia pericolosissima per gli assetti sociali del potere, dunque della supremazia degli uomini in quanto genere.” (p.17) La risposta a questo indebolimento del ruolo maschile, a livello individuale e collettivo, fu il rilancio della virilità nei suoi caratteri concreti e simbolici in contrapposizione alla modernità dilagante e ai suoi effetti.
Bellassai sottolinea a più riprese come sul piano delle relazioni di genere la prima e più potente incarnazione di questa contrapposizione al tradizionale dominio dell’uomo era la donna, la “donna nuova” che dalla seconda metà dell’Ottocento era entrata nella sfera pubblica con l’accesso all’istruzione universitaria, alle professioni, al mondo della cultura e del lavoro. I tratti misogini della polemica maschile non si limitavano a riproporre “l’antico adagio denigratorio delle donne… (ma rappresentavano) …la reazione maschile alle conseguenze di genere di una modernizzazione che toglieva l’aurea di sacralità agli equilibri di potere consolidati” (p.45). La misoginia si affermava quindi come “strumento retorico mediante il quale si è perseguita per decenni una restaurazione delle identità e dei ruoli di genere tradizionali”(p.45) e trovava spazio “nei più svariati ambiti della cultura, della scienza e dell’opinione pubblica.”(p.46) Interessanti gli esempi riportati dall’autore: dallo stereotipo della femme fatale del Decadentismo alle affermazioni di antropologi e sociologi come Lombroso e Mantegazza sulle degenerazioni femminili e sui rischi di feminilizzazione maschile. Esempi di una misoginia che aveva lo scopo di fissare le differenze naturali in termini gerarchici tra i due sessi e cercare una strada che “esaltasse e rigenerasse i tratti considerati più marcati e specifici dell’identità maschile” (pag.53) esprimendo in questo modo un antimodernismo che sembrava già mostrare le sue debolezze rispetto alle grandi trasformazioni che il nuovo secolo proponeva.
La seconda fase presa in considerazione dall’autore è quella del ventennio fascista considerata “sul piano della storia nazionale, certamente il più organico tentativo di imporre dall’alto del potere statale una via autoritaria alla modernità” (pag.53) ma trattavasi pur sempre di una modernizzazione autoritaria che distingueva tra una buona e una cattiva modernità ed esprimeva un antimodernismo che rappresentava “un setaccio retorico che aveva il compito di purificare il futuro della nazione degli elementi inconciliabili con la riaffermazione di un ordine sociale rigidamente gerarchico.(p.64)” Questo ordine gerarchico avrebbero trovato una sua espressione anche nel virilismo e nei rapporti di genere. Tra le manifestazioni della retorica fascista di questo rinnovato virilismo Bellassai annovera l’esaltazione della popolazione rurale e la celebrazione del contadino “come quintessenza di mascolinità naturale o selvatica” (p.73). A questa retorica si affiancava quella della famiglia patriarcale contadina, esempio di “un ordine sociale e di genere tradizionale, premoderno, rigidamente gerarchico” che doveva difendere la nuova civiltà fascista “dalle degenerazioni della civiltà contemporanea, tra le quali si dovevano di sicuro contare il desiderio delle giovani donne di una vita migliore e di una maggiore cura di sé” e la ricerca “di nuove forme di svago e socializzazione che favorivano la promiscuità fra i sessi e indebolivano il sentimento religioso e, ovviamente, il virus della denatalità che dalle città già infette minacciava costantemente di propagarsi alle virilissime aree rurali” (p.74)
Altro tema di interesse nell’analisi del virilismo era il fascino del rischio e della vita avventurosa riproposti anche dalla letteratura popolare “ispirata alle avventure in mondi selvaggi e misteriosi, compresi i bassifondi urbani, o all’esistenza solitaria di uomini forti a contatto con la natura (dai romanzi coloniali al mito letterario del West, dalla prima science fiction al genere poliziesco” (p.75). Era l’uomo della classe media urbana che si serviva di quel mito come “compensazione fantastica di una condizione esistenziale che egli percepiva deleteria per la propria identità di maschio” (p.75).
Non meno interessanti sono le osservazioni dell’autore a proposito della posizione sull’intellettualismo inteso dal fascismo come una sorta di “malattia dell’intelligenza ed essendo quest’ultima, nella concezione tradizionale, un attributo precipuamente maschile, l’intellettualismo era una malattia della mascolinità. Una ‘intelligenza senza virilità’ appunto” (p.77) alla quale bisognava opporre gli ideali di azione, di impulsività e di giovinezza. Ma è ancora sulla donna e sulla sua subalternità che si concentrava la costruzione dell’immagine maschile in questo periodo. Il problema era la ”trasformazione profonda ed epocale, e non certo trascurabile, dell’identità femminile”. Come scriveva il famoso scrittore Dino Segre, meglio noto con lo pseudonimo di Pitigrilli, in un suo romanzo di quell’epoca “Le signorine di una volta simulavano l’ingenuità e la purezza, la trasparenza spirituale e l’impermeabilità materiale; facevano mostra di non capire mai. Quelle di oggi, invece dell’ingenuità ostentano malizia, mostrando di scoprire intrighi oscuri nelle vicende più limpide, ambiguità misteriose nelle parole più oneste, raffinate impurità nelle pratiche più francescane”. (p.84)
Alla diffusione della cultura di massa americana, considerata dal fascismo responsabile della gran parte delle degenerazioni della “donna moderna”, il regime rispondeva con appelli e campagne contro “la diffusione della moda indecorosa di origine straniera, contro i balli moderni, contro i nuovi modelli di donne magre, disinvolte, decise a conquistare un accesso più ampio al lavoro extra domestico e al tempo libero” e al tempo stesso si varavano misure e iniziative “per sostenere l’esclusiva ‘missione di madre’ di ogni donna” sostenendo la pubblicazione di “romanzi, opere moraleggianti e articoli su ogni tipo di periodici per esaltare la donna moglie e madre e per spegnere sul nascere ogni focolaio della terribile infezione modernista”.(p.84). Di altrettanto interesse i paragrafi dedicati dall’autore alla retorica fascista per combatte i fenomeni di denatalità e propagandare la libertà sessuale lasciata agli uomini “come una delle principali attrattive dello scenario coloniale” (p.91). Nell’analisi della quarta fase di questa storia del virilismo in Italia, l’autore, sottolineando i grandi cambiamenti economici, sociali e culturali degli anni ’50 e ’60 in Italia, pone in relazione tali trasformazioni e le conseguenze che esse ebbero “nell’assetto delle relazioni di genere: sensibili cambiamenti si riscontrano ad esempio, nella rappresentazione dei ruoli femminili anche nell’ambito domestico, nella progressiva affermazione di una morale sessuale e di atteggiamenti meno oppressivi sul piano del senso comune diffuso, nel riconoscimento di nuovi diritti civili e sociali delle donne”. (p.97)
Pur continuando a permanere differenze di genere che fanno parlare Bellassai di un assetto asimmetrico del potere e delle gerarchie di genere, emergevano novità rispetto al recente passato che, tuttavia, non consentivano certo di invocare in tempi brevi “la scomparsa delle disuguaglianze fra uomini e donne” (p.98). Ciò nonostante si chiudeva, secondo l’autore, “definitivamente una pluridecennale fase storica in cui i modelli di mascolinità ispirati al virilismo nella sua declinazione più autoritaria, gerarchica e violenta avevano detenuto una notevole egemonia nell’immaginario collettivo. Ma l’idea che gerarchia, forza e ordine fossero indispensabili alla virilità collettiva, e che quest’ultima fosse a sua volta un pilastro irrinunciabile del naturale equilibrio sociale, certamente non scomparve”. (p.99)
Molti gli esempi prodotti a conferma di questa tesi in particolare nell’ambito della comunicazione pubblicitaria relativa ai nuovi beni di consumo. Il miracolo economico produceva la percezione di essere usciti dalla miseria dopo il secondo conflitto mondiale. Le aree urbane delle città industriali del Nord furono investite da fenomeni di immigrazione dalle campagne e soprattutto dal Sud e nelle città del benessere gli “immigrati potevano accantonare i costumi tradizionali”. (p.105).
Così Giorgio Bocca, riportato da Bellassai, nel suo libro La scoperta dell’Italia del 1963 descriveva il fenomeno che investiva anche le identità di genere “scomparsi o tenuti in sordina i temi maschili, aggressivi e rudi, inizia il declino del gallismo e di quella sua manifestazione che è il pappagallismo [ …] Per effetto della cultura di massa il Bel paese si ingentilisce e si svirilizza” (p. 104). Nuovi modi di comportamento si affermavano tra le donne: con gli acquisti di elettrodomestici per la casa ma anche di prodotti di consumo voluttuario. Bellassai fa ancora parlare Giorgio Bocca dallo stesso volume prima citato “Nella civiltà dei consumi, l’universo del confort appare affidato alle donne, sono esse a decidere gli acquisti e i primi ad esserne persuasi sono i venditori, prova ne sia che la pubblicità va ai giornali femminili nella misura del settanta per cento, più del doppio di quanta ne vada ai giornali maschili-femminili” (p.106). Tuttavia questo fenomeno di svirilizzazione, contrariamente alle epoche passate, non appariva a tutto il mondo maschile come un fenomeno negativo “era l’inizio di un’epoca in cui il tradizionale virilismo si avviava a diventare una delle opzioni in campo, perdendo quindi il monopolio identitario che riteneva spettargli di diritto […] l’inizio della fine del virilismo stesso quale aveva dominato la dimensione dell’identità maschile per quasi un secolo” (p.110). Arrivando a parlare degli ultimi decenni del XX secolo e degli inizi del nuovo secolo il giudizio dell’autore si fa più netto a favore della tesi secondo la quale “la crisi della prospettiva maschile tocca il suo apice nel decennio settanta per lasciare spazio a partire dalla fine del millennio, al tentativo di rilanciare un ordine culturale ispirato alla subordinazione delle donne nel pubblico e nel privato, alla riproposta di una polarizzazione identitaria del maschile e del femminile, al risorgere di pulsioni antiegualitarie, xenofobe o apertamente razziste” (p.123).
I ragionamenti fin qui condotti dall’autore portano alla conclusione che il modello virilista è stato largamente screditato ma non si può abbassare la guardia e considerare la sua storia conclusa. Basta pensare ai numerosissimi episodi di violenza sulle donne di cui veniamo quotidianamente a conoscenza dalle cronache e che riguardano ambienti e classi sociali diverse. E da questa conclusione può partire un’ultima riflessione sulla funzione che la scuola può e deve svolgere. Siamo ancora lontani dall’idea di immaginare rapporti di genere diversi. Il libro di Bellassai ci aiuta a muovere i passi, donne e uomini, in quella direzione, semmai partendo dalla scuola e dall’insegnamento della storia anche nell’ottica della storia di genere.
Giuseppe Di Tonto
[IF]O alfaiate de Ulm: uma possível história do Partido Comunista Italiano – MAGRI (RBH)
MAGRI, Lucio. O alfaiate de Ulm: uma possível história do Partido Comunista Italiano. Boitempo, São Paulo: 2014. 415p. Resenha de: POMAR, Valter. Revista Brasileira de História, São Paulo, v.36, n.73, set./dez. 2016.
O alfaiate de Ulm é a última obra de Lucio Magri (1932-2011), intelectual comunista italiano e um dos responsáveis pela criação de Il Manifesto, periódico lançado em 1969 e que segue sendo publicado (http://ilmanifesto.info/).
O alfaiate de Ulm pode ser lido em várias claves: relato autobiográfico e testamento político, panorama do século XX, ensaio sobre a história e as perspectivas do movimento comunista italiano (especialmente o apêndice, um documento de 1987 intitulado “Uma nova identidade comunista”).
O movimento comunista da Itália tem gênese histórica distinta, onde confluem as características próprias daquele país, o impacto da revolução russa de 1917, a luta contra o fascismo e as batalhas da Guerra Fria.
Nesse contexto, o Partido Comunista não foi apenas uma organização política: foi também uma instituição cultural com imenso enraizamento na classe trabalhadora, na juventude e na intelectualidade, que teve na obra de Antonio Gramsci sua feição teórica mais conhecida e reconhecida.
Apesar disso tudo – ou por causa disso tudo, como fica claro da leitura de O alfaite de Ulm – o Partido Comunista Italiano cometeu suicídio em 1989.
Diferente das pequenas seitas militantes, que conseguem sobreviver em condições variadas e inóspitas, os partidos de massa parecem sobreviver apenas em determinadas condições. E como demonstra Lucio Magri, várias das condições que tornaram possível a existência de um forte comunismo reformista italiano e europeu desapareceram com a União Soviética e com a reestruturação capitalista simultânea à ofensiva neoliberal.
Dito de outra forma, a força das duas grandes famílias da esquerda europeia (o reformismo social-democrata e o reformismo comunista), assim como o brilho dos grupos de ultraesquerda que viviam à sombra daquele duplo reformismo, dependiam das condições “político-ecológicas” existentes na Europa enquanto durou a chamada bipolaridade entre União Soviética e Estados Unidos.
Quando esse conflito cessou, com a vitória dos Estados Unidos, a social-democracia experimentou uma deriva neoliberal, e o reformismo comunista, uma deriva social-democratizante.
Claro que esse não foi um processo uniforme. Uma das qualidades de O alfaiate de Ulm é apresentar uma interpretação do que teria ocorrido no caso italiano. Vale destacar esta palavra: interpretação. Há muitas outras interpretações, e sempre haverá o que estudar acerca das desventuras em série que atingiram o movimento comunista, o conjunto da esquerda e da classe trabalhadora, especialmente na Europa dos anos 1980 e 1990. A Itália constitui caso destacado, em boa medida pelo fato de lá estar baseado o tantas vezes denominado de maior partido comunista do Ocidente.
O alfaiate de Ulm pode ser lido com muito proveito por quem tem interesse em compreender os dilemas da classe trabalhadora, da esquerda brasileira e especialmente do Partido dos Trabalhadores.
Época e circunstâncias muito diferentes, obviamente. A começar pelo fato de que as variáveis internacionais que fortaleciam o reformismo social-democrata e comunista na Europa produziam efeitos muito distintos na América Latina e no Caribe, inclusive no Brasil.
Isso ajuda a entender por que, na mesma época em que o PCI cometia suicídio, abandonando suas tradições e até mesmo seu nome, o Partido dos Trabalhadores estava convertendo-se em força hegemônica na esquerda brasileira.
Guardadas essas diferenças, é impossível não enxergar certas semelhanças entre os dilemas vividos pelo Partido Comunista Italiano nos anos 1970 e 1980 e os impasses vividos mais de 20 anos depois pelo Partido dos Trabalhadores brasileiro.
Os dilemas do PCI são descritos detalhadamente em O alfaiate de Ulm. Segundo Lucio Magri, a “peculiaridade do PCI … era a de ser um ‘partido de massas’ que ‘fazia política’ e agia no país, mas também se instalava nas instituições e as usava para conseguir resultados e construir alianças” (p.333).
Magri demonstra que a atuação na institucionalidade não foi apenas uma estratégia. Mais do que isso, converteu o PCI em parte estrutural do Estado italiano, naquilo que Magri chama de um “elemento constitutivo de uma via democrática. Uma medalha que, no entanto, tinha um reverso” (p.333).
Esse “reverso”, que soa tão familiar aos que acompanham as vicissitudes atuais da esquerda brasileira, é assim apresentado por Lucio Magri:
Não me refiro apenas ou sobretudo às tentações do parlamentarismo, à obsessão de chegar a todo custo ao governo, mas a um processo mais lento. No decorrer das décadas, e em particular em uma fase de grande transformação social e cultural, um partido de massas é mais do que necessário, assim como sua capacidade de se colocar problemas de governo. Mas, por essa mesma transformação, ele é molecularmente modificado em sua própria composição material. (p.333)
Talvez esteja nisto a maior contribuição de O alfaiate de Ulm: essa abordagem profundamente histórica da vida de um partido político, ou seja, a compreensão de que a história de um partido só pode ser adequadamente compreendida como parte da história de uma sociedade, enquanto processo integrado entre as opções estritamente políticas, as tradições culturais e as relações sociais mais profundas, num ambiente nacional e internacional determinado.
A descrição que Lucio Magri faz do processo de seleção e promoção dos dirigentes partidários fala por si:
a formação de novas gerações, mesmo entre as classes subalternas, ocorria sobretudo na escola de massas e mais ainda por intermédio da indústria cultural; os estilos de vida e os consumos envolviam toda a sociedade, inclusive os que não tinham acesso a eles, mas alimentam a esperança de tê-lo; as “casamatas” do poder político cresciam em importância, mas descentralizavam-se e favoreciam aqueles que ocupavam as sedes; a classe política, mesmo quando permanecia na oposição e incorrupta, à medida que a histeria anticomunista diminuía, criava relações cotidianas de amizade, amálgama, hábitos e linguagem com a classe dirigente. (p.333)
Essa “mescla de costumes” da “classe política” com a “classe dirigente”, como sabemos, não é uma peculiaridade italiana. Tampouco seus efeitos organizativos, assim descritos por Magri:
as seções não estavam mais acostumadas a funcionar como sede de trabalho das massas, de formação cotidiana de quadros; eram extraordinariamente ativas apenas na organização das festas do Unità, e mais ainda nos períodos de eleição nacional e local; as células nos locais de trabalho eram poucas e delegavam quase tudo ao sindicato. Nos grupos dirigentes, a distribuição dos papéis havia mudado muito: o maior peso e a seleção dos melhores haviam se transferido das funções políticas para as funções administrativas (municípios, regiões e organizações paralelas, como as cooperativas). Portanto, mais competência e menos paixão política, mais pragmatismo e horizonte político mais limitado. Os intelectuais sentiam-se estimulados para o debate, mas sua participação na organização política havia declinado e o próprio debate entre eles era frequentemente eclético. A exceção era o setor feminino, em que um vínculo direto entre cúpula e base criava uma agitação fecunda. (p.334)
Noutras palavras, Lucio Magri descreve como as transformações “moleculares” causaram uma metamorfose no Partido Comunista: pouco a pouco foi deixando de ser um fator de subversão, transformando-se em peça importante na engrenagem do Estado e da política italiana. Uma peça diferente das outras, como demonstraria a Operação Mãos Limpas, a qual confirmaria que o PCI soubera resistir à corrupção sistêmica. Mas uma peça da engrenagem, como demonstra o fato de o PCI não ter sobrevivido ao colapso da estrutura política italiana.
Nesse sentido, a interpretação feita por Lucio Magri parece demonstrar que o Partido Comunista Italiano não foi vítima do fracasso, mas sim do sucesso da “estratégia” que alguns denominaram, na Itália e aqui no Brasil, de “melhorista”.
Essa estratégia não apenas melhorou a vida da classe trabalhadora italiana, como converteu o comunismo numa força influente e vista como ameaçadora pela classe dominante e pelos Estados Unidos, que atuaram tanto aberta quanto secretamente para evitar o êxito da aliança entre o PCI e a Democracia Cristã. Lucio Magri trata dessas operações, especialmente visíveis no caso Aldo Moro.
Bloqueado pela direita, o PCI tentou – sob a direção de Berlinguer – uma saída pela esquerda. Os capítulos que tratam dessa fase são talvez os mais interessantes de O alfaiate de Ulm, em parte por discutirem se a história poderia ter seguido um caminho diferente.
Como sabemos, entretanto, não foi isso o que ocorreu. Ao longo dos anos 1970 e 1980, alteraram-se profundamente os parâmetros dentro dos quais se movera a política no pós-Segunda Guerra Mundial, tanto na Itália quanto no mundo. O PCI não conseguiria chegar ao poder nos marcos daqueles parâmetros em vias de desaparecimento. Não conseguiria tampouco defendê-los frente à ofensiva neoliberal e à crise do socialismo. Nem conseguiria sobreviver para atuar nas novas condições.
Lucio Magri descreve, num tom profundamente autocrítico e em certo momento impiedoso consigo mesmo, as opções feitas pela maioria dirigente do PCI, que levaram à mudança do nome e das tradições políticas e culturais do Partido. Mostra como havia energias vivas na base militante do comunismo italiano, energias que não foram suficientes para dar vida ao projeto da Refundação Comunista.
Enfim, pelo que descreve, pelas conclusões a que chega e pelas perguntas que deixa, O alfaiate de Ulm de Lucio Magri é leitura mais do que relevante para os que têm interesse em compreender os dilemas atuais do Partido dos Trabalhadores e do conjunto da esquerda e os rumos da política brasileira neste terceiro milênio.
Valter Pomar – Doutor em História Econômica, Universidade de São Paulo (USP). Professor de economia política internacional no Bacharelado de Relações Internacionais da Universidade Federal do ABC. Universidade Federal do ABC. São Bernardo do Campo, SP, Brasil. E-mail: pomar.valter@gmail.com.
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Giotto et les humanistes: la découverte de la composition em peinture, 1350-1450 – BAXANDALL (Ph)
BAXANDALL, Micheal. Giotto et les humanistes: la découverte de la composition em peinture, 1350-1450. Tradução Maurice Brock. Paris: Seuil, 2013. Resenha de: CARDIM, Leandro Neves. Philósophos, Goiânia, v. 21, n. 1, p.235-249, jan./jun., 2016.
A versão mais próxima para o português do título deste livro de Micheal Baxandall (1933-2008) escrito originalmente em inglês é: Giotto e os oradores. Os humanistas observadores da pintura na Itália e a descoberta da composição pictórica 1350- 1450. Sua primeira edição de 1971 é ilustrada e vem acompanhada de um aparato crítico extraordinário. A última tradução para o francês é a que tomaremos por referência nesta resenha. Mas é preciso dizer que esta tradução, apesar de seu cuidado linguístico, peca principalmente por dois motivos: ela não traz nenhuma das dezesseis ilustrações, tão importantes para o texto de Baxandall, nem os vinte excertos de textos em latim e em grego de alguns dos autores trabalhados no corpo do livro. Supressão injustificável pratica e teoricamente: na prática, tanto as imagens quanto os textos poderiam ser consultados como fontes de pesquisa; teoricamente, porque faz parte da tese do livro mostrar a relação entre tais imagens e textos. Quanto às ideias veiculadas pelo livro é preciso chamar a atenção, desde seu longo título, para o fato de que o autor se propõe analisar não só a obra dos primeiros humanistas que foram observadores da pintura, ou melhor, aquilo que eles disseram sobre a pintura, mas também, e este é o ponto alto do livro, analisar a descoberta propriamente humanista do conceito de composição.
Baxandall toma todo o cuidado de relacionar de modo muito estreito as regras da figuração pictórica com a arte da retórica, e é isto que tentaremos tornar sensível nesta resenha; mas veremos, além disto, que em um mesmo movimento, o autor rastreia a historicidade do conceito de composição com o objetivo de marcar momentos de continuidade e de ruptura relativamente a seu uso vigente no início do Renascimento. Quanto à referência a Giotto e aos oradores, ela deve ser compreendida como o horizonte do livro. Giotto e os oradores delineiam o índice de um problema de fundo que envolve as delicadas e controversas relações que se estabeleceram historicamente entre as duas disciplinas em questão: a pintura e a poesia. O leitor não deve procurar ali alguma espécie de discurso sobre o alcance da pintura de Giotto, não se trata de um livro sobre a história da pintura de Giotto e de suas relações com os oradores, exímios usuários da retórica antiga. Porém, é possível dizer que o livro nos conduz de tal modo através de várias considerações sobre Giotto entre os primeiros humanistas que, no limite, talvez seja possível depreender dali um debate sobre a história da arte no sentido estrito da palavra.
O livro analisa três gerações de humanistas para mostrar que a palavra e a imagem estão emaranhadas na produção de uma mesma estrutura retórica: a composição de uma beleza ordenada. Baxandall aborda “dois problemas conexos”: o primeiro e mais geral é o de saber “o quê, nas preferências visuais, procede da linguagem”, o segundo e mais local diz respeito à “contribuição mais interessante dos humanistas à nossa apreensão da pintura”: o conceito de composição. Em primeiro lugar, Baxandall insiste que “a gramática e a retórica em uso em uma língua dada inflecte substancialmente a maneira com a qual se descreve as imagens” (BAXANDALL, 2013, 21). Isto é compreensível porque a referência à gramática e à retórica determina o tipo de atenção que os primeiros humanistas dirigem à pintura. É justamente isto que põe em relevo o interesse de Baxandall pelo latim humanista, detentor de características formais bem acentuadas. Trata-se de colocar em evidência “as condições linguísticas e literárias nas quais os humanistas operavam quando eles formulavam considerações sobre a pintura” (BAXANDALL, 2013, 21). Em segundo lugar, Baxandall afirma que a ideia de que um quadro tem uma “composição” tem uma dupla fonte: ela foi sugerida por uma categoria humanista e pela própria situação da pintura em uma determinada época. O conceito em questão nasce de um conjunto de problemas e de uma determinada configuração linguística que polariza a atenção do autor para aquelas relações que “unem os hábitos da linguagem à atenção visual”. É neste contexto que a tese do livro deve saltar aos nossos olhos: “é a língua latina que estrutura o ponto de vista humanista” (BAXANDALL, 2013, 22).
As condições linguísticas e literárias devem ser circunscritas em torno do interesse comum dos primeiros humanistas pela ordem retórica e pelo latim neoclássico. A retórica era o centro de suas principais competências e o latim neoclássico era um interesse comum a todos os humanistas: “a arte dos humanistas era a gramática e a retórica” (BAXANDALL, 2013, 26). A situação dos humanistas ao formularem seus discursos sobre a pintura era ao mesmo tempo prática e linguística: eles eram secretários, professores, historiógrafos, e enquanto tais seus campos de atividades intelectuais eram bem específicos. Ao nascerem é óbvio que eles aprendiam sua língua natal, mas enquanto humanistas eles conversavam entre si com uma “língua literária que não estava mais em uso já fazia mil anos”. Esses homens também se esforçavam para diferenciar este latim neoclássico das formas do latim medieval que já estavam degradadas, mas que ainda eram usadas pela Igreja e pelos homens da lei. Conviviam, assim, uma “língua cultural de elite” e uma “língua vernácula e seu uso culto”. Ora, comparado com o latim medieval, o latim neoclássico era muito mais pródigo em discriminações internas, e mesmo seus recursos sintáxicos eram mais ricos do que os das línguas vernáculas da época. Essas línguas, como por exemplo o italiano, não concorriam com o latim neoclássico, o qual era um “complemento especializado” delas. Os primeiros humanistas estavam imersos em uma paisagem cultural e linguística bem peculiar: muitas versões do latim pós-clássico, leituras muito diferentes daquelas que poderíamos imaginar (enciclopédias medievais, retóricas da antiguidade tardia e traduções latinas dos tratados apócrifos de Aristóteles), uso da retórica grega e romana ao mesmo tempo com intenção de persuadir e de ensinar, um público determinado ao qual o orador se referia (o orador pronunciava discursos em casamentos, enterros, investiduras de magistrados, aulas inaugurais). Sob este pano de fundo é possível dizer que a novidade dos primeiros humanistas consiste na “firme resolução de se reapropriar e de praticar a língua de Cícero: eles se veem nesta tarefa com uma energia e um ardor inteiramente novos” (BAXANDALL, 2013, 31). Para nós, esta situação é estranha: qual interesse haveria em fazer um “pastiche de Cícero”? Baxandall nos mostra que “o que há de fundamental e heroico nos primeiros humanistas é o pastiche de Cícero: eles colocavam sua melhor energia em reencontrar estruturas linguísticas perdidas fazia mil anos” (BAXANDALL, 2013, 32). A contribuição destes homens para a cultura pictórica consiste em que eles estudaram os hábitos linguísticos da própria pintura. Para além de um simples uso de palavras e de sintaxe latinas, é preciso ver aí um “comportamento verbal altamente formalizado se aplicar à mais sensível das experiências visuais quase sem que se produza interferências” (BAXANDALL, 2013, 35).
Conscientes do fato de que o latim discriminava melhor certas regiões da experiência do que a língua vernácula, os primeiros humanistas aprenderam a manejar certos grupos de palavras que os levaram a modificar suas percepções da arte e dos artistas. Vem daí o expurgo sistemático e consciente do vocabulário degradado. Vem daí, também, que rastrear esse vocabulário não seja tão difícil. Mas vem daí, enfim, que não seja fácil rastrear as mudanças de sentido que muitas palavras sofreram. A mudança no sentido das palavras não se deixa apreender por aquilo que elas designam ou por aquilo a que se referem. A resposta de Baxandall é clara: “o uso faz o sentido”. Graças a isto é que em seus pastiches de Cícero os humanistas reconstruíram “redes de articulação do léxico” (BAXANDALL, 2013, 44). A propósito, é no interior destas redes que encontram-se as metáforas intersensoriais, as quais remetem o pesquisador à terminologia da retórica clássica que repousa sobre metáforas saídas da experiência visual. É deste recurso antigo sistemático às metáforas ― seja como procedimento estabelecido, seja como bagagem de expressões consagradas ―, é em contraste com este recurso que a novidade de Alberti ganhará relevo.
Os primeiros humanistas atribuíam “importância suprema” à frase periódica: o período ― “frase combinando vários pensamentos e afirmações em várias proposições equilibradas” ―, era o “paradigma da grande frase neoclássica” (BAXANDALL, 2013, 53). Havia aí uma forma artística fundamental que, no início do Renascimento, foi o modelo da composição artística em geral. Assim, para que a frase periódica oferecesse suas “delicadas combinações de elementos diversos”, era preciso, da parte de quem a manejava, um vasto conhecimento do campo semântico, da flexão das palavras, um domínio do vocabulário e da gramática clássica. O que atraía os primeiros humanistas no estilo periódico era, enfim, o uso das “antíteses” e dos “paralelos”.
Até mesmo Alberti usa a frase periódica, a qual opera um arranjo simétrico e equilibrado das palavras, das expressões, das proporções, e mesmo de noções abstratas.
Dos dois métodos que a retórica clássica dispunha para inventar o conteúdo de um discurso (o método especulativo e o método indutivo), foi o método indutivo que exerceu maior influência sobre os humanistas, afinal, eles procuravam algo que tivesse influência sobre suas próprias vidas e práticas literárias. Enquanto o método especulativo só ensinava argumentar em um tribunal, o indutivo ensinava “levar uma vida feliz ou ter um estilo elegante em prosa”. A comparação, modo de operar do método indutivo, tinha um duplo estatuto: funcionava como argumento e como ornamento, funcionando, neste caso, como processo de estilo.
Eles praticavam tanto esses exercícios comparativos que tais exercícios acabaram se tornando um hábito: a comparação está na origem seja de suas observações, seja de suas noções relativas às artes visuais. A natureza de seus discursos exigia comparações extraídas da pintura e da escultura, eles agiam assim baseando-se em precedentes clássicos em que Cícero e muitos outros autores clássicos faziam comparações entre o estilo literário e as artes figurativas. Os humanistas “se remetiam ao material clássico e modificavam, transpunham ou renovavam comparações já empregadas por Cícero e outros autores” (BAXANDALL, 2013, 73). Assim, as anedotas, a mitologia da história da arte, seus lugares comuns, lhes serviam de material, não para fazer considerações diretas sobre a pintura, mas para uso em benefício próprio em seus textos e vidas: “o uso de comprar a literatura à pintura se tornou um jogo humanista” (BAXANDALL, 2013, 78).
O tipo de uso da linguagem que é feito entre os humanistas pode ser delineado desde que notemos que se trata, precisamente, de observações humanistas sobre a pintura.
No elogio ou na censura que eles faziam de uma obra de arte pressupunha-se que o ouvinte não conhecesse a obra, mas isto deveria forçar o orador a possuir o máximo de habilidade usando, então, o registro “florido”: “alguém agencia pigmentos sobre um suporte, e, vendo isto, outro alguém se esforça para encontrar palavras adequadas ao interesse da coisa” (BAXANDALL, 2013, 87). Esta atividade “árdua” e “excêntrica” já era validada pela antiguidade, e como já existiam no latim termos que evocavam categorias visuais, o caso da pintura era ainda mais interessante porque se aprendia com ela “a distinguir quais registros ou quais sensações” correspondiam a estes termos: “o aprendizado de uma língua tão sutil reorganizou suas capacidades de atenção para as obras de arte” (BAXANDALL, 2013, 92). O que era comum aos humanistas não era uma simples questão do gosto, mas uma “comum experiência de uma língua, a posse comum de um sistema de conceitos que permitiam focalizar a atenção” (BAXANDALL, 2013, 93). Esta é a bagagem comum, os elementos constitutivos do ponto de vista humanista que os diferencia do ponto de vista vernáculo.
Baxandall começa a rastrear as observações humanistas sobre a pintura a partir de Francesco Petrarca (1304-1374): ele “recolocou em uso uma forma específica de referência generalizada à pintura e à escultura” (BAXANDALL, 2013, 99). Petrarca trabalha de tal modo com uma “série de grandes oposições” que ele as faz valer como fundamento de sua visão humanista sobre a pintura e a escultura. É por aqui que encontramos os primeiros traços daquelas comparações retóricas. Os primeiros humanistas exploravam as fontes das artes antigas como repertórios de analogias e se inspiravam nos trabalhos plásticos que possuíam duas qualidades necessárias para uma boa comparação: a concretude e a visibilidade.
Assim, os detalhes que serviram para Petrarca elucidar sua arte acabaram, por fim, se tornando um lugar comum obrigatório entre seus sucessores.
Filipo Villani (1325-1407) forjou o mais consistente e durador esquema do progresso das artes. Ele interpreta sua época como decadente e vai buscar em Dante e seus contemporâneos o modelo dos valores necessários para uma renovação da cultura. Villani adota um esquema para interpretar a evolução da pintura no século XIV. O esquema que ele extrai de Dante prescreve o seguinte: primeiro veio Cimabue que tirou a pintura da decadência, em seguida, Giotto, que completou a renovação, enfim, os sucessores de Giotto. Eis o esquema: profeta/salvador/apóstolo. O interesse desta sequência está nos tipos de diferenciações que é possível daí depreender. Ele ainda projeta sobre Giotto não só o lugar ocupado por Dante na história, mas também o lugar que ocupava Zeuxis no esquema de Plínio. Dito de outro modo: Zeuxis está para Apolodoro, assim como Cimabue está para Giotto. Baxandall acredita que este esquema até certo ponto ainda está presente entre nós. Seu interesse está no modo como articula capítulos obscuros da história da arte e no modo como trabalha de forma concisa com diferenciações variadas (prioridade, qualidade, estatura, registro). Seu modo claro de estruturação faz com que ele se baste a si mesmo. Esta é a razão da dificuldade que os humanistas do século XV tiveram para encontrar outro esquema para prolongar o esquema de Villani.
Os humanistas se nutriram não só da literatura latina, mas também da grega. Baxandall mostra que a partir de 1400 as bases literárias se alargaram tanto que, em vinte e cinco anos, suas novas e variadas fontes acabaram influenciando muito suas maneiras de falar sobre a pintura e a escultura.
Precisamente aí encontramos Manuel Chrysoloras (1355-1415), “figura intermediária” relativamente à cultura grega. Sua “marca” foi a estimulação do interesse por essa cultura, a qual deveria “tornar-se o elemento mais dinâmico do humanismo do século XV na Itália” (BAXANDALL, 2013, 137). Uma carta de Chrysoloras ao Papa teve muito alcance na crítica de arte humanista, nela ele recorre a “diversos registros descritivos” e “enumerações generalizadas” para comparar Roma à Constantinopla. Em uma outra carta, e talvez esteja aí sua maior contribuição, ele dá um “alcance geral e uma formulação mais ou menos aristotélica para alguns valores bem precisos: vida dos detalhes, variedade, intensidade de expressividade emocional” (BAXANDALL, 2013, 142). Aristóteles e Chrysoloras situam a fonte de prazer da representação visual no ato de reconhecimento do espectador, mas diferentemente de Aristóteles, Chrysoloras tem grande interesse pela expressividade e, particularmente, pelo artista. Lembremos que os humanistas frequentaram seus contemporâneos bizantinos em Constantinopla. Assim, os humanistas aprenderam a praticar muitos exercícios retóricos separadamente, ou melhor, “como gêneros independentes, em composições realizadas por si mesmas com muita pesquisa e virtuosidade”: “os meios tinham se tornado fins” (BAXANDALL, 2013, 145). Esta é a fonte dos exercícios de descrições detalhadas ou de écfrases como “obras inteiramente à parte”. Essas écfrases possuíam vivacidade visual, clareza, elas tinham o dom de trazer aos olhos o que descreviam. Utilizar os olhos ao dirigir-se aos ouvidos, lançar mão de uma linguagem que esteja de acordo com o objeto descrito, possuir desenvoltura nesta descrição, saber que a écfrase nunca é neutra, combinar noções críticas com procedimentos descritivos habituais já presentes na écfrase, enfim, esses são alguns dos procedimentos determinantes do modo dos humanistas elaborarem seus discursos.
Aluno de Chrysoloras, Guarino de Verona (1370-1460) foi um dos que aprenderam grego para ler Luciano e Arriano, ao passo que os primeiros humanistas queriam ler Homero.
Guarino transmite os valores da écfrase bizantina e aclimata os trabalhos de seu mestre. Guarino exalta a literatura em detrimento das outras artes e argumenta que a pintura não mostra as qualidades morais, mas sim as aparências; ela agrada mais pela destreza do artista do que pela importância do tema; ela não é durável como um livro. Ao comparar a pintura com a literatura, Baxandall nos mostra que Guarino indica os “limites da pintura” com dois argumentos: os quadros são “pouco aptos para veicular o renome pessoal” e “não são cômodos para transportar”. Guarino e seus alunos trabalharam muito com este gênero de escrita em torno da obra de Pisanello: seus escritos, particularmente os de Guarino, reúnem em suas descrições o valor retórico que a variedade da pintura pode ter, os atrativos e efeitos da écfrase, e as categorias críticas de Chrysoloras. Baxandall vê aí uma “combinação muito eficaz” na qual encontramos uma concepção de composição que será recusada por Alberti: sua “nova concepção” de composição só ganha relevo sobre o fundo da “concatenação das proposições de Chrysoloras, dos valores ecfráticos e da arte de Pisanello” (BAXANDALL, 2013, 161).
Analogia entre pintura e literatura, esquema histórico, práticas e valores da écfrase: falta acrescentar que Bartolomeo Fazio (1400-1457), aluno de Guarino, traz um duplo aporte que deve aparecer neste rastreamento. Por um lado, Fazio introduz uma associação entre personalidades notáveis, pintores e escultores; por outro, ele retoma dois lugares comuns sobre a relação entre as duas artes: a afinidade que Filostrato o Jovem via entre a pintura e a poesia (que nos remete à exaltação da expressão), e a compreensão da pintura como poesia silenciosa tal como ela chega até nós vindo de Simônides. Ele aprofunda tudo isto no sentido de explorar a expressão do caráter e da emoção. Enfim, só compreenderemos o fato de que tanto a pintura quanto a poesia “têm em comum esta função expressiva”, se reencontrarmos, por trás destas ideias, os rastros de Horácio quando elabora metáforas retóricas que pretendem tocar o coração dos ouvintes. Só assim a superioridade da pintura pode ser reconhecida. Mas se é verdade que as convenções do neoclassicismo eram corretas, é verdade, também, que, segundo Baxandall, elas desviaram os humanistas de empreitadas mais profundas.
Vários caminhos poderiam ter sido seguidos. Aí encontramos Lorenzo Valla (1407-1457) com sua teoria da percepção sensorial e seu “novo esquema” ou “modelo” para pensar a história da arte italiana. Segundo ele, o progresso das artes deve ser visto como um “efeito das relações sociais”: em princípio, “um indivíduo inova”, em seguida, “sua inovação é tornada acessível à seus confrades, e, em troca, ele tem acesso à totalidade de suas invenções” (BAXANDALL, 2013, 192). Enfim, o impasse da crítica humanista não é um índice de mediocridade: o ponto está em que as convenções dos humanistas “não forneciam a um Lorenzo Valla ― ou, em outro sentido, a um Léon Battista Alberti ―, um quadro que encorajasse suas reflexões” (BAXANDALL, 2013, 193).
O tratado de pintura escrito em latim por Alberti (1404-1472) ― De pictura ―, se distingue de todos os outros textos da época pela “seriedade da iniciativa”. A formação humanista de Alberti ainda incluía uma prática da pintura. É neste cruzamento que encontramos a noção de composição e o método de Alberti. Como compreender que mesmo sendo humanista Alberti não se comporte como um humanista? O traço principal que define o tratado de Alberti como um livro humanista deve ser procurado nas competências exigidas ao leitor. Peritos em analogias, os humanistas não elaboraram nenhuma teoria da pintura em quanto atividade intelectual relacionada com seus estudos.
Ao que tudo indica, não havia uma demanda urgente de um livro como o de Alberti, mas o lugar que ele ocupa era oferecido pelo próprio sistema de pensamento da época.
Seu público deveria possuir “três tipos de competências”: ler facilmente em latim neoclássico, dominar os Elementos de Euclides e um pouco de ótica geométrica, saber desenhar ou pintar. Ainda que seu leitor não seja um humanista tradicional, resta que a redação do livro era autorizada pela tradição: “o De pictura aparece como um manual que dava os meios de uma apreciação ativa da pintura a uma espécie inabitual de amadores humanistas informados”. O leitor de Alberti precisava ter simultaneamente um ponto de vista euclidiano e ciceroniano. Assim, a noção de composição surge como a “maneira com a qual um quadro deve ser organizado para que cada superfície plana e cada objeto traga sua contribuição ao efeito de conjunto” (BAXANDALL, 2013, 205-06).
O procedimento de Alberti é duplo: ele reconduz a pintura a uma “certa norma, feita de pertinência narrativa e de conveniência e economia” ― “norma amplamente giottesca” ―, mas que é uma “norma não-clássica”, já que visa a pertinência e a organização. Por um lado, as normas de Giotto, por outro, sua aplicação à relação das formas no interior do quadro. A “arma” de Alberti contra a tradição virtuosística da écfrase é a noção de composição. Esta noção já possuía o sentido geral de colocação em conjunto, e isto, de Vitrúvio à estética medieval. Mas Alberti ao mesmo tempo modifica o conceito anterior e introduz nele um sentido novo. A grande novidade de seu conceito de composição está na “interdependência das formas”. No momento em que ele enuncia isto, no momento em que inova, ele está, ao mesmo tempo, “mais condicionado do que nunca, em suas possibilidades de comunicação com seus leitores, por sua situação de humanista escrevendo para humanista”.
Alberti interpreta a obra de Giotto como se ela fosse uma “frase periódica de Cícero ou de Leonardo Bruni”! A eficácia deste modelo permite a Alberti submeter a pintura a uma análise funcional rigorosa que encontra, ao fim e ao cabo, seu complemento visual na obra de Mantegna, o qual adota o regime narrativo sugerido no tratado que, por sua vez, relaciona internamente termos com procedimentos e ingredientes tradicionais. O conceito de composição “emana de um conjunto de elementos e de disposições humanistas”, mas Alberti reúne esses elementos e disposições em sua própria formulação:
assumindo as imagens dos humanistas, ele inverte a analogia que ia da pintura à literatura em uma analogia indo da literatura à pintura, ele tem o atrevimento de reivindicar para a pintura uma organização análoga àquela das frases periódicas bem balanceadas nas quais eles tão freqüentemente formulavam esta famosa analogia (BAXANDALL, 2013, 213).
Alberti se afasta, então, dos humanistas que admiravam Pisanello e Guarino. Ele toma posição com relação a isto e seus termos sofrem “deslizamentos de sentidos” se comparados com os da tradição. Ele tem em mete uma pintura neogiottesca que preconiza a elaboração periódica! Para concluir, diríamos que o final do livro conduz a uma delimitação negativa de nosso ponto de vista, já que delimitado o ponto de vista humanista, há o olhar que, organizado segundo certas modalidades, é muito diferente do nosso. No Prefácio à edição italiana do livro resenhado, Baxandall esclarece um pouco mais o que está em questão em seu livro. Ele chama atenção para dois pontos que, vinte e três anos depois, ainda lhe parecem importantes: primeiramente, seu intento mais geral era “demonstrar que os nossos gostos no campo da arte visual são estreitamente ligados aos conceitos (e também, é óbvio, com as palavras) com os quais refletimos sobre as obras”, em seguida, e mais particularmente, ele fornecia as coordenadas daquilo que era “um gosto artístico ‘latino-humanístico'” (BAXANDALL, 1994, 15). Nem “determinismo linguístico”, nem “‘estrutura’ cultural”.
A sugestão de Baxandall ao leitor é a de seguir um dos fios disponíveis: a linguagem. Ela será capaz de nos fornecer, se não quisermos permanecer no nível da aglomeração causal de inclinações fragmentadas, os elementos necessários para a articulação.
Referências
BAXANDALL, Micheal. Giotto and the orators. Humanist observers of painting in Italy and the discovery of pictorial composition 1350-1450. Oxford: Claredon Press, 1971.
____. Giotto et les humanistes. La découverte de la composition en peinture 1350-1450. Tradução Maurice Brock.Paris: Seuil, 2013.
____. Giotto e gli umanisti. Gli umanisti osservatori dela pittura in Italia e la scoperta della composizione pittorica 1350-1450. Tradução Fabrizio Lollini. Prefácio Michael Baxandall. Milão: Jaca Book, 1994.
Leandro Neves Cardim – Professor de Filosofia da Universidade Federal do Paraná (UFPR), Curitiba, PR, Brasil. E-mail: leandronevescardim@gmail.com
História da escola dos imigrantes italianos em terras brasileiras – LUCHESE (RBHE)
LUCHESE , T. Â. (Org.). (2014). História da escola dos imigrantes italianos em terras brasileiras. Caxias do Sul: Educs, 2014. Resenha de: MOTIM, Mara Francieli; ORLANDO, Evelyn de Almeida. História da escola dos imigrantes italianos em terras brasileiras. Revista Brasileira de História da Educação, Maringá, v. 16, n. 1 (40), p. 413-419, jan./abr. 2016
O livro História da escola dos imigrantes italianos em terras brasileiras, organizado por Terciane Ângela Luchese, é fruto de investigações produzidas pelo grupo de pesquisa História da Educação, Imigração e Memória, da Universidade de Caxias do Sul. Além de textos de pesquisadores de universidades italianas, a publicação reuniu trabalhos sobre as experiências escolares de imigrantes italianos e seus filhos, entre o final do século XIX e início do século XX, nas regiões Sul e Sudeste. Esta obra permite um olhar para a escolarização desses sujeitos, caso a caso, contribuindo, conforme destaca Emilio Franzina no prefácio deste volume, para uma possível revisitação da história imigratória italiana no Brasil, em seus processos de interação e desenvolvimento.
Nesse panorama das discussões a respeito dos processos culturais dos imigrantes, no primeiro capítulo do livro, Lúcio Kreutz aborda o tema Identidade étnica e processo escolar. Na conceituação do autor, o pertencimento étnico expressa uma composição entre sujeitos e grupos, cujas práticas, ao longo do tempo, vão se reconfigurando, podendo diferenciar e determinar uma organização social. Ele enfatiza que o étnico não é uma herança constituída, mas sim um processo, uma vez que culturas não são realidades mudas. Dessa forma, afirma que a pesquisa sobre a escola nesse contexto étnico é de fundamental importância, uma vez que tal ambiente pode ser produtor ou reprodutor da cultura.
Kreutz apresenta um balanço histórico sobre como a etnia e o processo escolar foram sendo tratados e afirma que, entre os diversos projetos, perpassa a construção de uma nacionalidade, manifestada na Europa no final do século XVIII e que chega à América, pouco tempo depois, como uma construção monolítica, sem diferenciação étnica. O autor defende que a escola precisa compreender como o étnico se constrói nas práticas sociais, não podendo quantificar um valor para determinadas culturas, mesmo que estas tenham conseguido se impor nos processos históricos concretos.
No segundo capítulo, “Governo italiano, diplomacia e escolas italianas no exterior”, a pesquisadora italiana Patrizia Salvetti discute a legislação da Itália em relação às escolas subsidiadas no exterior.
Abordando a Lei Crispi, de 1889, explica que um de seus objetivos era a construção de uma política italiana no exterior com subsídios destinados à instrução dos imigrados italianos. Ela aponta algumas divergências nesse financiamento, principalmente em relação às escolas laicas e às escolas confessionais. A problemática girava em torno de conflitos não resolvidos entre Estado e Igreja, na Itália, os quais foram exemplificados no artigo com base em relatórios como o de Pasquale Villari (1901). Salvetti afirma que a Sociedade Dante Alighieri, uma das principais organizações colaterais do governo, tinha como função acentuar e organizar essas relações escolares entre a Itália e o exterior.
Em seguida, a autora analisa a Lei Tittoni, de 1910, na qual se tentou amenizar a relação entre Estado e Igreja, estabelecendo o ensino religioso como facultativo e financiando escolas confessionais. Ela afirma que a Reforma Gentile, de 1923, ocorrida no contexto do regime fascista, não modificou sensivelmente a organização das escolas no exterior, porém, sua administração passou a ser controlada, em sua maior parte, por funcionários ligados ao Partido Nacional Fascista. Por fim, salienta que até os dias de hoje as escolas italianas no exterior são a principal forma de difundir a língua e a cultura desse país.
No terceiro capítulo, “Instrução pública e imigração italiana no estado do Espírito Santo, no século XIX e início do século XX”, Regina Helena Silva Simões e Sebastião Pimentel Franco propõem uma discussão sobre a educação capixaba e a relação entre os imigrantes italianos que chegaram ao Espírito Santo, no período de 1850 a 1920.
Por meio de relatórios da província e do estado do Espírito Santo, os autores demarcam o contexto da instrução pública nas terras capixabas, onde, desde 1850, existia um discurso a favor da educação, considerando o contexto da grande diáspora italiana na segunda metade do século XIX e suas consequências, como o preenchimento dos vazios demográficos no Espírito Santo. Não obstante esse discurso, os autores ressaltam as diversas dificuldades da instrução pública local e destacam a pressão que, ao desembarcar no Espírito Santo, os imigrantes italianos exerciam sobre o governo no sentido de garantir a educação de seus filhos, embora suas colônias estivessem localizadas na parte mais desassistida da instrução pública.
À pesquisadora Maysa Gomes Rodrigues coube o capítulo 4, “Imigração e educação em Minas Gerais: histórias de escolas e escolas italianas”. A autora aborda a educação mineira, entre o final do século XIX e início do século XX, como um lugar em que foi possível relacionar a escolarização italiana e a formação cultural de outros espaços. Ela utilizou como fontes os acervos da Secretaria do Interior e da Secretaria da Agricultura e Obras Públicas, além de Relatórios dos Presidentes da Província, de Inspeção de Ensino, Mensagens dos Presidentes do Estado, jornais e estudos feitos sobre a imigração em Minas.
O contexto educacional mineiro e sua escolarização, com base nos regulamentos consultados, não se referem a escolas de imigrantes ou escolas estrangeiras. Assim, a autora constata que, nos núcleos coloniais, que tinham por objetivo a assimilação étnica, as escolas públicas foram um meio de oferecer a instrução oficial. A ênfase do texto recai sobre essa modalidade de ensino nas colônias como um caminho da nacionalidade brasileira para os filhos de imigrantes, embora, como destaca a autora, existisse uma escola mantida por uma Sociedade Italiana que se destinava a atender uma camada privilegiada economicamente de italianos de Belo Horizonte. Dessa forma, a autora põe em evidência que ambas as realidades escolares foram importantes no processo de instrução desses imigrantes, e de modo geral, na educação de Minas Gerais.
“A formação das escolas italianas no Estado do Rio de Janeiro (1875 – 1920)”, constitui o capítulo 5, escrito por Carlo Pagani. O autor chama a atenção para a presença de imigrantes italianos em quase todas as áreas mais importantes do Rio de Janeiro, os quais contribuíam para o desenvolvimento industrial, para os movimentos operários, além de trabalhar na produção de carvão e no comércio, na área central. Pagani descreve o cenário da escolarização destes imigrantes e das escolas italianas no Rio de Janeiro, considerando sua relação com a educação primária italiana, no final do século XIX. Em ambos os casos, ele aponta um grande número de analfabetos e, com base na legislação, demonstra que os resultados da escolarização no período, no Rio de Janeiro, não foram muito satisfatórios.
Destaca a influência anarquista na imigração italiana, que, nas reivindicações fabris, deparava-se com o analfabetismo dos operários e passava a promover a escolarização dos líderes. Consultando relatórios de escolas italianas no exterior, além de jornais do período, o autor constrói a origem das escolas italianas em algumas cidades cariocas. Essas instituições de ensino foram fruto das necessidades desses imigrantes, que colaboraram para a escolarização de massa, atendendo a toda a população próxima destas escolas, sejam elas italianas ou não.
No capítulo 6, “Acondicionamento das escolas de primeiras letras paulistas no período que compreende os anos de 1877 e 1910”, Eliane Mimesse Prado descreve o processo de criação das escolas de primeiras letras em São Paulo, as quais eram frequentadas pelos imigrantes peninsulares e seus descendentes. A autora explora o processo de imigração em alguns dos núcleos coloniais paulistas. Constam no texto quadros comparativos a respeito da criação dos núcleos coloniais entre 1877 e 1907, em São Paulo. A autora chama a atenção para o grande número de imigrantes e para a demanda de criação de um número maior de escolas de primeiras letras, nem sempre atendida pelo governo, o que levava os próprios colonos a organizar e criar escolas.
Os esforços desses imigrantes também eram sustentados pelos religiosos, de forma que a educação acabava por adotar funções mais amplas, regidas pelos preceitos do catolicismo. Algumas dessas instituições de ensino foram resultantes de iniciativas coletivas, com o apoio do governo italiano, por meio das Sociedades de Mútuo Socorro. Mesmo com iniciativas escolares específicas, a autora constata que uma grande parcela desses imigrantes e de seus filhos esteve nos bancos escolares das instituições públicas de ensino de São Paulo.
No capítulo 7, “Escolas da imigração italiana no Paraná: a constituição da escolarização primária nas colônias italianas”, a pesquisadora Elaine Cátia Falcade Maschio apresenta um panorama do processo imigratório italiano no Paraná. A autora explica que esse processo teve início na região litorânea, primeiramente na Colônia Alexandra e posteriormente na Colônia Nova Itália. Além de enfrentar a má administração dessas colônias, os imigrantes não se adaptaram à região e foram realocados nos arredores da capital, na produção de produtos cultivados na terra e comercializados em Curitiba.
Caracterizando a educação primária no Paraná com base em relatórios e regulamentos, Maschio constata que inúmeros foram os abaixo-assinados desses imigrantes solicitando escolas e, com a demora no atendimento dessas solicitações, eram organizadas instituições de ensino particulares, comunitárias ou subvencionadas. Além dessas modalidades escolares, a autora apresenta as escolas étnicas, mantidas por associações ou por instituições religiosas. Maschio deixa claro que, nesses locais, procurava-se manter e difundir a italianità com base principalmente na moral católica, mas, mesmo assim, predominavam as escolas públicas, pois esses colonos também valorizavam a aprendizagem da língua portuguesa. Um destaque do texto é que, com as reivindicações para abertura de escolas públicas, esses imigrantes contribuíram para o processo de expansão do ensino primário paranaense em geral.
Clarícia Otto, responsável pelo capítulo 8, “Escolas italianas em Santa Catarina: disputas na construção de identidades”, apresenta as escolas como estratégias para a manutenção de uma identidade cultural. Otto explica que as primeiras iniciativas escolares para esses imigrantes catarinenses foram particulares e que, no final do século XIX, essas ações passaram a ser da Igreja Católica, da diplomacia italiana e do governo republicano brasileiro. Otto defende que o processo escolar foi resultante de uma articulação com outros campos, como o político, cultural e religioso, os quais influenciaram as estruturas sociais desses sujeitos.
Pautando-se em um conjunto de correspondências, Otto ressalta ainda a disputa pelo controle do campo educacional entre uma organização religiosa e a Dante Alighieri. Com as medidas nacionalistas do governo republicano brasileiro, esses conflitos foram ainda maiores, sobretudo a partir de 1911, quando a inspeção escolar em Santa Catarina passou a ser efetiva, o que levou muitas escolas estrangeiras a ser fechadas. A autora conclui o texto marcando que, mesmo com os investimentos na construção de uma educação nacional, as diferenças culturais continuaram a existir, sendo colocadas em pauta em 1975, no centenário da imigração, para despertar o sentimento de ser italiano.
O último capítulo do livro, dos pesquisadores Terciane Ângela Luchese e Gelson Leonardo Rech, “O processo escolar entre imigrantes italianos e descendentes no Rio Grande do Sul (1875 – 1914)”, é destinado ao processo escolar desses sujeitos nas terras gaúchas, destacando as
Iniciativas escolares, suas organizações e especificidades. Segundo os autores, no processo imigratório italiano no Rio Grande de Sul, os imigrantes saíram da Itália como excluídos e chegaram ao Brasil como civilizadores. Durante o Império, na Província de São Pedro do Rio Grande, as políticas educacionais constavam apenas no papel e não nas práticas; com a proclamação da República e a influência de um grupo gaúcho calcado no positivismo, a escola passou a ser vista como um local de modernização. Assim, a expansão do ensino primário no Rio Grande do Sul, por iniciativa do Estado, das Igrejas, associações e/ou particulares, tornou-o um dos locais brasileiros com o menor índice de analfabetismo em 1920.
Os autores destacam ainda as escolas étnico-comunitárias rurais, que surgiram pela necessidade e pela ausência de escolas nas colônias, as escolas étnicas, mantidas por associações, geralmente laicas, que recebiam subsídios do governo italiano, e as escolas mantidas por congregações religiosas, que, mesmo não sendo consideradas étnicas, mantinham os valores culturais do país de origem da congregação. As escolas públicas também foram muito requisitadas pelos imigrantes, principalmente para a aprendizagem do português, mas estas também eram marcadas por características étnicas.
O leitor interessado em conhecer o processo escolar dos imigrantes italianos e seus descendentes, no final do século XIX e início do século XX, encontra nos capítulos deste volume uma rica reflexão a respeito da relação entre esses sujeitos, o governo brasileiro, o governo italiano e a Igreja Católica. A obra é significativa para os estudos de história da educação brasileira, por trazer à tona diversas fontes históricas que possibilitam um aprofundamento em estudos na área, além de descrições que permitem traçar algumas características destes imigrantes na construção de uma nova vida no outro lado do Atlântico. Além disso, por se tratar de uma obra que reúne pesquisadores de diferentes lugares, ela apresenta uma multiplicidade de práticas e de representações da educação e da cultura italiana em diferentes contextos de produção. Essa perspectiva plural permite ampliar as lentes para compreender melhor os modos de ser e se fazer italiano em diferentes espaços.
Mara Francieli Motin – E-mail: mara_motin@hotmail.com
Evelyn de Almeida Orlando – E-mail: evelynorlando@gmail.com
Imprensa italiana no Brasil, séculos XIX-XX – TRENTO (RBH)
TRENTO, Angelo. Imprensa italiana no Brasil, séculos XIX-XX. São Carlos: Ed. UFScar, 2013. Zaidan, Roberto. 276p. Resenha de: BIONDI, Luigi. Revista Brasileira de História, São Paulo, v.35, n.70, jul./dez. 2015.
Décadas de pesquisa sobre o tema da imigração italiana, que renderam algumas das obras mais referenciais nesse âmbito historiográfico, levaram Angelo Trento, da Universidade de Nápoles “Istituto Orientale”, a aprofundar um dos aspectos centrais para a compreensão do mundo dos imigrantes no Brasil no livro Imprensa Italiana no Brasil, séculos XIX-XX, tradução para o português da edição italiana La costruzione di un’identità collettiva. Storia del giornalismo in lingua italiana in Brasile (Viterbo: Archivio Storico dell’Emigrazione Italiana, 2011).
Na sua obra La dov’è la raccolta del caffè, publicada no Brasil com o título Do outro lado do Atlântico (São Paulo: Studio Nobel, 1989), ainda hoje a obra mais completa sobre a história dos italianos no Brasil, na qual a imprensa produzida por eles tomava um espaço temático próprio em alguns capítulos embora atravessasse o livro inteiro como fonte principal, Trento inseriu um apêndice com mais de quatrocentos periódicos italianos publicados no país. Esses foram o ponto de partida para pesquisas sucessivas que levaram Trento, nos últimos anos, a centrar a análise sobre a história dos impressos periódicos em língua italiana no Brasil, durante o século XIX e até a década de 1960. Aquela antiga lista se enriqueceu de mais títulos, encontrados nos arquivos do Brasil, Itália, Holanda e França, e se tornou o corpus documental que fundamenta agora, no seu livro Imprensa italiana no Brasil, uma história exaustiva da expressão escrita, em jornais, pelos imigrantes italianos.
Trento não se limita a tratar essa imprensa como formadora de representações de uma coletividade de imigrantes, indaga sobre os fundamentos sociais dos impressos periódicos e de seus grupos editores e sobre a relação destes com as redes de assinantes, os leitores e a comunidade italiana imigrada em geral. O jornal, além de ser o veículo intencional de transmissão de informações, configura-se como porta-voz e ao mesmo tempo articulador de grupos específicos, utilizando e forjando redes de imigrantes, polo agregador de sua intervenção na nova sociedade. A imprensa étnica como mediadora da transnacionalidade, na qual Trento enfatiza, na melhor tradição historiográfica italiana, suas dinâmicas políticas.
Essa imprensa é estudada também como construtora e expressão de identidades: a nacional – a italianidade – e as regionais, políticas e de classe, todas em suas diferentes e muitas vezes conflitantes versões, todas passando pela via da comum origem num Estado-nação de recente formação. O ser e sentir-se italiano numa experiência de migração por meio da imprensa, declinado em uma miríade de identificações complementares, parece ser o fio condutor de uma trajetória que o autor concentra entre o período da “grande imigração” (1885-1915 aproximadamente) e meados dos anos 1960, quando o longo processo de integração e os fluxos migratórios dos italianos terminam.
Trento dedica mais de metade da obra ao período entre 1880 e a Primeira Guerra Mundial, com dois capítulos iniciais: o primeiro para a imprensa como um todo e o segundo para a imprensa operária. É nessa época que o periódico impresso se configura não somente como órgão de informação, mas também como polo agregador dos próprios imigrantes italianos que chegam em massa ao Brasil. É o período do protagonismo político, comercial e industrial do Brasil urbano, quando o diário em língua italiana Fanfulla, a “joia da coroa” da então colônia ítalo-paulista, narra as vicissitudes da experiência migratória de cerca de um milhão de italianos – e não somente os de São Paulo, pois esse diário, assim como outros periódicos étnicos, era lido para além das fronteiras estaduais. Trento não se limita a estudar o fenômeno migratório nas suas amplas dimensões paulistas, também lança um olhar para as coletividades nos outros estados, para a imprensa italiana desde o Pará até os centros gaúchos e sulinos em geral, nestes bastante difusa.
Nesses dois capítulos, Trento explica a difusão extraordinária de alguns jornais, como os diários Fanfulla e La Tribuna Italiana, e das publicações explicitamente políticas como La Battaglia (anarquista) e Avanti! (socialista), e ao mesmo tempo analisa os vários periódicos que tiveram uma vida difícil, mas que, tomados em conjunto, tornam a expressão escrita da imprensa dos ítalo-brasileiros nesse período importante e significativa, a par de outras como as da Argentina ou dos Estados Unidos.
A separação dessa fase da “grande imigração” em duas esferas temáticas, ao longo de dois capítulos, pretende destacar o papel político da imprensa. No capítulo 1, a grande imprensa e os periódicos culturais, de notícias e multitemáticos, são analisados não somente nos seus aspectos gerais estruturais e representativos, supostamente neutros, mas também nas suas atenções ao mundo da grande massa dos imigrantes, incluindo o surgimento de um jornalismo investigativo étnico, que indaga sobre as condições materiais da coletividade, seus anseios e suas expressões políticas. O subcapítulo final introduz uma pesquisa pioneira sobre a imprensa de língua italiana durante a Primeira Guerra Mundial, num momento em que o nacionalismo italiano e a construção da identidade nacional no exterior vivenciam, por causa da guerra, uma intensificação extraordinária, enquanto os imigrantes experimentam novas tensões derivadas da radicalização das lutas operárias.
A “Outra Itália” de esquerda é o tema do capítulo 2, onde o foco é completamente voltado para entender a vida da imprensa em língua italiana que foi expressão de tendências e grupos políticos específicos, ligados ao mundo do trabalho urbano. Sobretudo em São Paulo, mas não somente ali, essa imprensa conseguiu frequentemente se tornar o polo agregador de anarquistas, socialistas, republicanos, radicais e sindicalistas, bem como de trabalhadores em geral. Um protagonismo conhecido na historiografia da história social e política dos trabalhadores no Brasil, que Trento, pela primeira vez após muitos anos, analisa num único capítulo de forma conjunta, coerente e renovada, incorporando as novas pesquisas suas e de outros colegas sobre o tema.
Temos um olhar completo para essa história, sem privilegiar a análise de uma ou de outra tendência, mas as conexões entre elas e o panorama dessa trajetória em sua complexidade, desde as origens, passando pelo auge dos anos 1900-1917, até o declínio no período posterior à Primeira Guerra Mundial, quando a imprensa reflete a diluição dos elementos étnicos da classe operária. Por isso, o autor dedica parte importante desse capítulo ao debate “identidade étnica versus identidade de classe” na imprensa política de língua italiana, tema ainda central nos estudos migratórios e da formação da classe trabalhadora nas Américas.
Na segunda parte do livro, o autor enfrenta a questão da penetração do fascismo na imprensa italiana, sua gradual conquista das redações, sua eliminação em outras, o surgimento e declínio, nas décadas de 1920 e 1930, da imprensa antifascista que viu no Brasil o episódio interessante e multipartidário do jornal La Difesa, enquanto o diário Fanfulla se dobrava aos interesses do governo italiano e ao mesmo tempo continuava se propondo como o porta-voz da italianidade no país. Trento se dedica ao exame de uma imprensa étnica ainda consistente, mas cada vez menor, não comparável em número, qualidade e variedade com a dos primeiros 30 anos republicanos. Uma imprensa que progressivamente se fecha em torno das questões ligadas à colônia, mediadora cultural de uma Itália cada vez mais distante e menos frequentada.
A imprensa é estudada para entender a capacidade de adaptação à nova situação brasileira, o equilíbrio entre as influências do fascismo italiano e as tensões derivadas desse posicionamento frente à política nacionalista do Estado Novo e à guerra.
A nova fase que se abre com o pós-guerra se ressente dessa história, de um passado não falado que Angelo Trento analisa no último capítulo, no contexto migratório mais recente, da segunda metade do século XX.
Entre a retomada no Brasil de posições políticas proibidas na nova Itália republicana (o neofascismo no exílio) e a narração da experiência migratória dos anos 1950 e 1960 (até 1965, quando o Fanfulla encerra sua publicação diária), o autor examina o conjunto muito menor de uma imprensa étnica testemunha de uma coletividade italiana imigrada, renovada sim pelos fluxos migratórios do pós-guerra, mas excepcionalmente reduzida.
Trento interpreta a função histórica da imprensa italiana no exterior como expressão viva do mundo dos imigrantes. Ao desaparecer a condição de migrantes, ao sumir gradualmente a operatividade das relações, das redes e das circularidades transnacionais, também essa imprensa deixa de existir. Apesar das dificuldades objetivas na prática da leitura de uma massa imigrante mediamente iletrada, o trabalho de Angelo Trento destaca que foi no período áureo da “grande imigração” que a imprensa étnica italiana mais se desenvolveu, âncora de uma transnacionalidade em ação.
Finalmente, é importante sinalizar que, além do valor da obra como o mais recente e mais aprofundado estudo sobre a história da imprensa italiana no Brasil, o livro se constitui como um recurso de pesquisa fundamental, terminando com um inventário cronológico completo e classificado por estado de mais de oitocentos periódicos em língua italiana publicados no país, onde se indica também a colocação arquivística de cada jornal.
Luigi Biondi – Universidade Federal de São Paulo (Unifesp), Escola de Filosofia, Letras e Ciências Humanas (EFLCH), Departamento de História. Guarulhos, SP, Brasil. E-mail: luigi.biondi@uol.com.br
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Trabalho imaterial: formas de vida e produção de subjetividade – LAZZARATO; NEGRI (C)
LAZZARATO, Maurizio; NEGRI, Antonio. Trabalho imaterial: formas de vida e produção de subjetividade. Tradução de Monica de Jesus Cesar. 2. ed. Rio de Janeiro: DP&A, 2013. Resenha de: SILVESTRIN, Darlan. Conjectura, Caxias do Sul, v. 19, n. 1, p. 186-190, jan/abr, 2014.
Antonio Negri é um filósofo italiano, contemporâneo, estudioso do pós-operaísmo, com uma ampla pesquisa sobre a nova configuração mundial realizada pela força do capital e suas consequências, de modo particular no mundo do trabalho. Tem diversas obras traduzidas para a língua portuguesa, dentre as quais Império (2004) e Multidão: guerra e democracia na era do Império (2005), ambas pela Editora Record. E Maurizio Lazzarato é um sociólogo italiano.
Esta obra trata de uma coletânea de ensaios que apresentam as transformações ocorridas no mundo do trabalho. Primeiramente, foram publicados na revista francesa Futur Antérieur, do próprio Negri. Foram publicados pela primeira vez no ano de 2000, e, felizmente, a Editora Lamparina apresenta ao público, em 2013, a 2ª edição dessa importante obra para a compreensão do pensamento de Antonio Negri e das transformações no mundo do trabalho.
O modelo fordista de produção tornou-se obsoleto, mas, obviamente, tem sua importância celebrada na evolução dos parâmetros da produção industrial, consequentemente, nos desenvolvimentos econômico e social como um todo. Com o passar do tempo, e inclusive por força da luta dos operários pelo reconhecimento de seus direitos, o trabalhador passou a ser visto como alguém que também existe como ser social, dotado de sensibilidade, de sabedoria, que pode colaborar e ser pró-ativo em seu ambiente de trabalho muito além do mero desempenho mecânico de suas funções. Nessa visão, o trabalho passou a ser visto com certa imaterialidade, repleto de subjetividade, modificando temporal e espacialmente a posição que o trabalhador deve ocupar.
Com a evolução do tema trabalho ao longo das últimas décadas, veio à tona um fato inegável, não é a quantidade de trabalho, nem mesmo o tempo que se trabalha, o grande propulsor do desenvolvimento. Passou-se a entender que, a partir do momento em que o trabalhador se torna um agente social, que interage com todas as dinâmicas ao seu redor, passa a produzir mais e melhor. A presença da subjetividade torna-se visível e compreensível, permitindo uma gama de evoluções, de percepções, que mudam a maneira como se trabalha, para que e quem se trabalha; nesse sentido, se encaixa com perfeição o termo cooperar.
Esse visa exatamente ao desenvolver engajado com todos os setores da sociedade, porque se entende que tudo faz parte de uma mesma engrenagem, e que somente pela união é possível crescer qualitativamente, alcançando por natural consequência uma ascendente quantitativa.
Essa concepção de trabalho imaterial se deve muito aos movimentos sociais no período que remonta a 1968, especialmente àqueles motivados por estudantes, que, até mesmo por não fazerem parte da classe operária, conseguiam observar aspectos por esses não vistos. Toda a luta, movida por ideais socialistas, mas fundamentalmente pelo reconhecimento da dignidade humana no ambiente de trabalho, foi observada por pensadores de todos os lugares. Desde tal época, os mesmos já afirmavam a importância da subjetividade do trabalhador, no florescer de seu intelecto, que pudessem ser alguém que superasse os moldes de uma linha de produção, podendo evoluir e movimentar criticamente todos os processos que fazem parte de seu cotidiano.
Existe um claro antagonismo entre a visão fordista de trabalho e a visão pós-fordista. A primeira evidenciada pelo trabalhador que apenas fazia parte de uma linha de produção, cuja subjetividade era desprezada por completo. Com o tempo, a luta anticapitalista trouxe a figura característica do trabalhador que não é apenas um operário na acepção do termo, mas um ser social, que tem suas opiniões bem-definidas, com capacidade para perquirir seus direitos e transformar o mundo. Por mais que o tempo passe, e com ele aconteçam inúmeras transformações, não podemos esquecer de que, se hoje vivemos numa sociedade mais justa, com garantias ao trabalhador, é devido à existência dessas duas visões antagônicas, até porque ambas são necessárias. A questão é encontrar o ponto de equilíbrio entre elas, podendo, por meio dessa mediação, chegar ao padrão ideal do que se entende por trabalho imaterial.
A hodierna conceituação de trabalho imaterial trouxe não apenas um novo modelo de trabalho, mas também indicou a existência de novas formas de poder, abarcadas por novos processos de subjetivação. Quando o trabalhador reconhece a própria importância, passa naturalmente a avocar direitos sobre o seu labor, provando que é imprescindível para o desenvolvimento das instituições e, por isso, detém certo poder mediante as demais esferas, inclusive, e de modo substancial, na política.
Essa nova visão do trabalho modificou aspectos interiores no que tange à produção, bem como aspectos exteriores que afetam, portanto, o mercado de consumo. Na época do modelo fordista, a industrialização baseava-se na produção de modelos de mercadoria padronizados, sem grandes distinções ou variedades: por sua vez, o consumidor daquela época também era pouco exigente. Com o passar dos tempos, isso se modificou completamente. Atualmente os meios de produção precisam acompanhar esse movimento frenético no qual a sociedade vive e se relaciona, primando por investimentos em qualificação, informação, inovação e todas as ferramentas necessárias para acompanhar a maneira instantânea como as dialéticas sucedem em nível global. Nesse mesmo sentido, obviamente, também segue o setor de serviços. É justamente no interior dessa relação de produção e consumo que habita o trabalho imaterial, ele é o grande mentor de todas as mudanças, do ritmo que movimenta os ramos sociais em suas atividades e objetivos.
A partir da década de 90 (séc. XX), mais especificamente, com a “Era Berlusconi”, surge a figura do “empreendedor político”, caracterizada pelo indivíduo que, além de manipular a opinião popular por meio da mídia, conhece e domina com maestria o novo modelo de produção, conhecendo todos os detalhes que movem essa estrutura de produção e consumo. Tais mudanças atingiram também o tradicional modelo de empresário, não sendo mais aquele que se atém à administração clássica de sua empresa; a questão em pauta é socializar a empresa, para isso um dos mecanismos utilizados são as chamadas redes de comercialização, exemplificadas pelo método franchising. Dessa forma, a empresa vem se tornando imaterial de modo que possa atingir o mundo todo, tornando-se globalizada. Percebe-se, assim, o quanto a imaterialidade do trabalho atingiu sem precedentes todos os âmbitos sociais.
Outro viés fundamental para a realização dessa imaterialidade que atinge o consumo de modo geral é a publicidade, entendida aqui como fator interativo com o consumidor, captando seus desejos (hoje não mais reconhecidos pela padronização, mas pela diversidade de produtos), e reproduzindo via imagens, conceitos, a criação e recriação do desejo de consumo, como forma de necessidade, ou, de maneira fugaz, até mesmo de status. Os setores de marketing, justamente por essa interação direta com o consumidor, são encarados como sendo os principais departamentos de uma empresa. Nesse diapasão, a figura de políticos e empresários acaba por se fundir, é a combinação do visionário economista com o estrategista político, transformando-se na característica única daquele que faz uso da subjetividade dos indivíduos, a favor do sucesso de sua atividade-fim.
Dentre as novidades pós-fordistas, podemos ainda destacar a do trabalho autônomo, que, embora gere uma maior responsabilidade em seu desempenho, pelo fato de o salário confundir-se com a própria renda, traz em seu bojo o traço fundamental da libertação, ou seja, a liberdade do operário (que antes estava retido em uma linha industrial) de poder escolher e construir seu próprio caminho, segundo seus objetivos e possibilidades.
Diferentes filósofos, pensadores, críticos, enfim, estudiosos das áreas sociais e humanas, desde há muito tempo, vêm acompanhando o dinamismo que envolve o trabalho e suas relações tanto intrínsecas quanto extrínsecas. Todos os conceitos e teorias hoje pertinentes ao tema provieram de debates sociais, das muitas lutas pela conquista dos direitos trabalhistas, pelos cenários políticos e, é claro, pelas diferentes conjecturas econômicas que moveram e movem a sociedade. Desse modo, cada fato sucedido deve ser considerado salutar para a estruturação do conceito hoje conhecido como trabalho imaterial, pois propõe uma visão humanizada do trabalho, mais ampla, capaz de contemplar aspectos sociais e humanos em prol do desenvolvimento da sociedade como um todo. Pode-se afirmar, apesar de infelizes exceções, que o trabalhador, hoje, é encarado como um cidadão, efetivamente portador de direitos e deveres, capaz de alterar substancialmente o meio onde atua e vive, mantendo, principalmente, sua subjetividade diante dos mais variados contrastes e sendo levada em consideração e essencialmente respeitada.
Essa obra parece ser a grande contribuição de Negri, juntamente com Lazzarato, para a compreensão da socialização do trabalho, na qual Negri, de modo particular, busca a fundamentação para o conceito de trabalho imaterial no pensamento de Marx, quando trata da questão do trabalho vivo ou trabalho social na obra pouco conhecida Grundrisse, com tradução recente para a língua portuguesa e publicada pela Boitempo Editorial. Negri faz uma leitura política dessa obra de Marx e encontra no conceito de intelecto de massa, ou general intellect, ou no conhecimento que está no cérebro das pessoas e no trabalho social, a constituição de novas subjetividades e novas formas de vida, marcadas pela cooperação entre as pessoas no processo produtivo.
Darlan Silvestrin – Mestrando pelo PPGFil da UCS, Caxias do Sul, RS. E-mail: darlansilvestrin@hotmail.com
Il larger di San Sabba. Dall’occupazione nazista al processo di Trieste – MATTA (Nv)
MATTA, Tristano. Il larger di San Sabba. Dall’occupazione nazista al processo di Trieste. Trieste: BEIT, IRSML FVG, 2012. 64p. Resenha de: TODERO, Fabio. Novecento.org – Didattica dela storia in rete, n.1, dicembre, 2013.
La recente pubblicazione di alcuni testi, la realizzazione di video-documentari e di mostre – la più recente delle quali, ancora aperta, è dedicata al processo ai crimini della Risiera di San Sabba – suggeriscono come si sia diffuso un rinnovato interesse per il lager della Risera di San Sabba, interesse testimoniato anche da un ininterrotto flusso di visitatori.
Tale fenomeno va in parte ascritto anche al nuovo interesse manifestatosi per la cosiddetta «storia del confine orientale», frutto a sua volta dell’istituzione del Giorno del ricordo, ciò che ha fatto sì che assai spesso – se non addirittura di norma – la visita alla Foiba di Basovizza si accompagni a quella a un luogo di memoria come la Risiera. È evidente che tale approccio rischia di ingenerare confusione tra ordini di problemi diversi – benché sussistano evidentemente alcuni punti di contatto, a partire dalla cornice territoriale dei fatti cui si richiamano e dall’utilizzo della violenza –, mentre sullo sfondo rimane il nodo fondamentale di riuscire a mantenere alto il senso critico e il richiamo alla problematicità degli eventi. Oltre tutto, non è superfluo sottolineare come l’immagine di Trieste propria di molti visitatori – e in particolare di molti insegnanti, qui in visita di formazione o in viaggio con le proprie classi – sia spesso quella un po’ edulcorata della città mitteleuropea, cosmopolita, multietnica, una città di cultura da sempre caratterizzata da spirito di tolleranza e di accoglienza nei confronti delle sue numerose diversità e alterità; “scoprire” la Risiera svela invece un volto per lo più inatteso di queste terre, evidentemente ancora troppo poco noto: quello della città occupata ma anche amministrata dai nazisti; quello di un diffuso e assai volonteroso collaborazionismo (uso non casualmente questo aggettivo), un sistema ramificato sul quale si è soffermato anni addietro Galliano Fogar, cui il testo in oggetto è stato dedicato dall’autore. Una scelta, quest’ultima, non casuale che denuncia tra l’altro come questo lavoro sia animato da un profondo senso di impegno civile che Tristano Matta ha negli anni saputo declinare sia attraverso la sua attività di storico particolarmente rigoroso e puntuale, che attraverso quella di insegnante; due attività non disgiunte tra oro frutto delle quali fu, anni addietro, un importante volume dedicato ai luoghi della memoria (mi riferisco a Un percorso della memoria: guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, a cura di Tristano Matta, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Electa, Trieste-Milano 1996). Scrive l’autore di questo suo Il Lager di San Sabba. Dall’occupazione nazista al processo di Trieste: «Il presente volumetto si propone di rispondere all’esigenza di fornire a questo sempre più numeroso pubblico [di visitatori; N.d.R.] – e più in generale di lettori – un nuovo strumento agile e sintetico che contribuisca ad inquadrare la storia del Lager triestino nel suo contesto, sia per quanto concerne il periodo del suo funzionamento durante l’occupazione nazista del Litorale Adriatico, sia per quanto attiene al tema […] del difficile percorso che la memoria di quella violenza ha seguito nel dopoguerra fino allo svolgimento del processo del 1976». (p. 3).
Il termine «volumetto» deriva evidentemente dalle dimensioni del testo, ma non intende ridurne l’importanza che a queste è invece inversamente proporzionale, Esso ospita due saggi, preceduti da una nota introduttiva dell’autore, ovvero L’occupazione nazista e l’istituzione del campo di detenzione di polizia di San Sabba a Trieste (1943-1945), già apparso in un volume collettaneo: Il nazista di Trieste. Vita e crimini di Odilo Globocnik, l’uomo che inventò Treblinka (Beit, Trieste 2011); Il difficile cammino della memoria e della giustizia (1946-1976), già apparso in C. Di Sante, I campi di concentramento in Italia (F. Angeli, Milano 2001). Rigore storiografico e intento divulgativo sono in effetti la cifra di questo lavoro che ne fanno, tra l’altro, un utile strumento didattico a disposizione di insegnanti che troppo spesso delegano lo svolgimento di un tema, magari esaurendolo in un incontro, una visita appunto, l’estemporanea proiezione di qualche film, dimenticando che una didattica efficace si basa sulla costruzione di robusti percorsi, e innanzitutto sulla preparazione dell’insegnante stesso sui nodi fondamentali della storia novecentesca, se guardiamo al caso in questione.
Di qui, allora, l’utilità di un lavoro come questo che offre a insegnanti e visitatori, nonché appassionati e curiosi di storia, un quadro tanto agile quanto esauriente delle vicende relative all’OZAK, alla Risiera di San Sabba, alla memoria difficile del Campo e del biennio 1943-1945, nonché infine all’importante processo di Trieste, tanto più importante perché anche qui si ebbe – su scala locale – un fenomeno analogo a quello descritto da Annette Viewiorka in L’era del testimone, con un’esplosione di testimonianze che furono tanto utili sul piano giudiziario (al di là dell’esito limitato di quel processo) quanto fondamentale in sede di ricostruzione storiografica.
Fabio Todero
[IF]
En el combate por la historia: la República, la guerra civil, el franquismo – VIÑAS (RBH)
VIÑAS, Ángel (Ed.). En el combate por la historia: la República, la guerra civil, el franquismo. Barcelona: Pasado & Presente, 2012. 978p. Resenha de: MANSAN, Jaime Valim. Revista Brasileira de História, São Paulo, v.33, n.65, 2013.
Em meados de 2011 vieram a lume na Espanha os primeiros 25 volumes do Diccionario Biográfico Español, cujo projeto prevê cinquenta volumes, cada um com 850 páginas. Até agora foram concluídos 36 volumes. Segundo o sítio da Real Academia de la Historia (RAH), organizadora da obra, deverão ser abordados mais de 40 mil “personajes destacados en todos los ámbitos del desarollo humano y en todas las épocas de la historia hispana”. Para viabilizar a publicação, o erário público espanhol já pagou 6,4 milhões de euros (El país, 27 maio 2011). Como comparação, estimou-se em 3 milhões de euros a construção de um bairro popular, com cem casas, destinado aos moradores despejados no início de outubro de 2012 de El Gallinero, a parte mais pobre de um dos maiores poblados chabolistas da Espanha, na periferia de Madrid (20 minutos, 9 out. 2012).
O Diccionario teve, portanto, um custo muito elevado, sobretudo considerando a conjuntura econômica pela qual o país tem passado nos últimos anos. No mínimo, teria um conteúdo de altíssimo nível. Contudo, a obra tem sido alvo de severas críticas, oriundas de diversos segmentos sociais. Na imprensa, pouco depois do lançamento, um dos principais questionamentos referia-se à ausência de referências à repressão franquista (Público, 28 maio 2011). Isso e a qualificação da guerra civil como cruzada ou guerra de liberación, dentre outros aspectos, constituem fortes indícios da pertinência das críticas ao dicionário (Público, 2 jun. 2011).
Ainda em meados de 2011, o Senado solicitou à RAH que paralisasse a distribuição, enquanto o Congresso decidia o congelamento das verbas destinadas à academia até que o dicionário sofresse correções, situação posteriormente revertida pelo governo (El País, 12 jul. 2011). Desde então, muito se discutiu a respeito da polêmica obra, que conta com irrestrito apoio do presidente espanhol Mariano Rajoy e de seu partido, o conservador Partido Popular.
No meio acadêmico, a reação mais notável foi a publicação de En el combate por la historia, no início de 2012. Organizado por Ángel Viñas, renomado historiador espanhol especialista nos estudos sobre a guerra civil e o franquismo, o livro foi elaborado com a assumida intenção de ser um contradiccionario. De fato o é, mas adota outra forma narrativa e restringe sua análise ao período 1931-1975, enquanto o Diccionario ambiciosamente busca abranger do século III a.C. aos dias atuais. Na visão dos autores de En el combate, a maioria dos biografados mais desfigurados pela obra da RAH vinculava-se ao período compreendido entre o surgimento da Segunda República e a morte de Franco, daí a escolha do recorte temporal.
Obra coletiva, En el combate por la historia contou com a participação de vários especialistas no estudo daqueles períodos da história da Espanha. Como escreve Viñas na apresentação, mobilizando conhecido ditado espanhol, “si bien no están todos los que son, sí son todos los que están”. Nomes internacionalmente conhecidos, como Josep Fontana, Julio Aróstegui, Paul Preston, Julián Casanova e o próprio Viñas, entre outros, assim como jovens investigadores cujos trabalhos já alcançaram reconhecimento entre pesquisadores europeus da área. É o caso, por exemplo, de Gutmaro Gómez Bravo e Jorge Marco. Alguns de seus livros, como El exílio interior, de Gómez Bravo, e Hijos de una guerra, de Marco, são hoje referências obrigatórias sobre o franquismo. 1
Com um título que faz clara referência ao clássico de Lucien Febvre, En el combate por la historia inicia com apresentação de Viñas explicando o sentido da obra e as condições de sua produção. Na sequência, há um texto de José-Carlos Mainer, historiador especialista na “edad de plata de la literatura española”. Voltado para a longa duração, oferece uma reflexão sobre rupturas e continuidades nas relações entre cultura e política na Espanha do século XX.
O livro foi organizado em quatro partes. Três delas são indicadas no subtítulo: República, guerra civil e franquismo.
O primeiro texto sobre a República é chave para sua compreensão. Nele, Preston aborda as transformações nas relações de força estabelecidas naquele período. Os capítulos seguintes aprofundam a análise de alguns dos principais grupos envolvidos naquelas conflituosas relações: Frente Popular, direitas, socialistas e anarquistas. Robledo trata da reforma agrária, “una de las señas de identidad del nuevo régimen”.
A segunda parte da obra, voltada para a guerra civil, é a maior em número de capítulos (vinte). São abordados temas como a sublevação militar de 1936, a atuação das Brigadas Internacionais e da Igreja Católica e os exílios de republicanos, entre outros. Destacam-se as sínteses das atuações do Exército Franquista e do Exército Popular apresentadas, respectivamente, por Losada e Rojo. Aróstegui e Casanova retomam a análise do socialismo e do anarquismo, temas tratados por eles na primeira parte do livro, enquanto Hernández Sánchez faz reflexão semelhante sobre os comunistas.
O terceiro conjunto de textos destina-se à análise do franquismo. Sánchez Recio faz uma discussão fundamental sobre o processo de institucionalização do regime. Vários outros temas são abordados: nacional-catolicismo, Falange, política repressiva, política exterior, o apoio da División Azul à luta nazista contra os soviéticos, a resistência armada ao franquismo, as transformações econômicas, o desarrollismo. A reflexão sobre o tardofranquismo, feita por Isàs, lança valiosas luzes sobre a história da transição.
A quarta parte, “Los grandes actores”, é o ponto em que a proposta de ser um contradiccionario se torna mais evidente. “Un contrapunto al Diccionario Biográfico Español”, nas palavras de Viñas. Mais uma vez, o organizador refere-se ao ditado espanhol anteriormente citado, desta vez para aclarar o critério de seleção dos treze grandes actores: José Antonio Aguirre Lekube, lendário dirigente basco; Manuel Azaña, líder republicano, presidente da República de 1936 a 1939; Ramón Serrano Suñer, falangista, cunhado de Franco, figura de destaque da direita desde a República até o primeiro franquismo e principal interlocutor com Hitler e Mussolini até 1942; Lluís Companys i Jover, importante dirigente catalão; Dolores Ibárruri (Pasionaria) e Santiago Carrillo, dois dos maiores nomes do comunismo espanhol; Francisco Largo Caballero, dirigente socialista vinculado à central sindical UGT (Unión General de Trabajadores) e ao Partido Obrero (depois PSOE, Partido Socialista Obrero Español) desde fins do século XIX; Emilio Moral, militar conspirador que, segundo Losada, foi el gran urdidor, artífice y organizador do fracassado golpe de 1936; Juan Negrín, importante liderança socialista, chefe de governo da República durante a maior parte da guerra civil e figura extremamente controvertida, expulso do PSOE em 1946 sob a injusta acusação de ter sido el instrumento de Stalin en España; Indalecio Prieto, outro nome de peso do socialismo espanhol; Vicente Rojo Lluch, militar republicano que liderou a defesa de Madri durante a guerra civil; José Antonio Primo de Rivera, um dos fundadores da Falange Española, filho do general que havia sido ditador entre 1923 e 1930; e, é claro, Francisco Franco, cuja trajetória é por Preston sintetizada com maestria.
O capítulo sobre Rojo, escrito por um neto do general, o sociólogo e jornalista José Andrés Rojo, é uma exceção dentre os textos que compõem o livro, não pela formação do autor, mas por seu vínculo familiar. A escolha de José Rojo provavelmente deveu-se não ao parentesco, mas ao fato de ter publicado diversos estudos sobre o tema desde 1974, particularmente Vicente Rojo: retrato de um general republicano (Barcelona: Tusquets, 2006). É plausível o questionamento sobre até que ponto escrever sobre o próprio avô não levaria a um abrandamento da crítica e a uma ênfase no elogio. A leitura dos apontamentos biográficos sobre o general Rojo mostra que seu neto conseguiu evitar tais armadilhas.
Fecha o livro um epílogo composto por um texto de Reig Tapia e outro dele com Viñas, ambos voltados para as permanências, para os ‘resíduos’ e ‘derivações’ do franquismo.
Como observa Viñas, o livro privilegia os “aspectos políticos, institucionales, culturales y militares”. Tratava-se de constituir um contradiccionario e, para os autores, naqueles aspectos “las controversias públicas son más intensas y muchas de las entradas del diccionario de la RAH más sesgadas o erróneas”.
Entre historiadores, definir uma obra como ‘revisionista’ é uma forma de desqualificá-la. Se há abusos no uso do termo, isso não significa que deva ser abandonado. Poder-se-ia argumentar que, por ser a revisão inerente ao ofício do historiador, toda história seria revisionista. O erro aqui estaria em definir o revisionismo pela revisão, pura e simples. Revisionismo é um tipo de revisão, aquela que se faz sem bases documentais consistentes, sem levar em conta princípios historiográficos básicos, escolhendo estudos e fontes convenientes à sustentação de um argumento e desconsiderando os demais. O revisionismo é uma falsificação da história. Faurisson é um de seus representantes mais conhecidos, e o dicionário da RAH, ao que tudo indica, é o mais recente exemplar dessa literatura.
En el combate por la historia surge como demonstração de que é possível enfrentar os revisionismos de maneira consistente, com argumentos sólidos e ampla documentação. Seus autores são exemplos do que Bedáridá definiu como ‘historiador expert‘, um tipo de profissional tão raro quanto necessário nos dias atuais.
Notas
1 Lista completa dos autores: ARÓSTEGUI, Julio; BARCIELA, Carlos; CASANOVA, Julián; COLLADO SEIDEL, Carlos; EIROA, Matilde; ELORZA, Antonio; ESPINOSA, Francisco; FONTANA LÁZARO, Josep; GALLEGO, Ferran; GÓMES BRAVO, Gutmato; GONZÁLEZ CALLEJA, Eduardo; HERNÁNDEZ SÁNCHEZ, Fernando; LEDESMA, José Luis; LOSADA MALVARÉZ, Juan Carlos; MAINER, José-Carlos; MARCO, Jorge; MARTÍN, José Luis; MEES, Ludger; MIRALLES, Ricardo; MORADIELLOS, Enrique; MORENO JULIÀ, Xavier; PEREIRA, Juan Carlos; PRESTON, Paul; PUELL DE LA VILLA, Fernando; PUIGSECH FARRÀS, Josep; RAGUER I SUÑER, Hilari; REIG TAPIA, Alberto; ROBLEDO, Ricardo; ROJO, José Andrés; SÁNCHEZ CERVELLÓ, Josep; SÁNCHEZ RECIO, Glicerio; THOMÀS, Joan Maria; VIÑAS, Ángel, e YSÀS, Pere.
Jaime Valim Mansan – Doutorando, bolsista Capes. Pontifícia Universidade Católica do Rio Grande do Sul (PUCRS). Av. Ipiranga, 6681, Partenon. 90619-900 Porto Alegre – RS – Brasil. E-mail: jaimemansan@gmail.com.
[IF]Sidereus nuncius – O mensageiro das estrelas – GALILEI (SS)
GALILEI, Galileu. Sidereus nuncius – O mensageiro das estrelas. Tradução, estudo introdutório e notas de Henrique Leitão. Porto: Fundação Calouste Gulbenkian, 2010. Resenha de: SILVA, Paulo Tadeu da. A mensagem, o mensageiro e o tradutor: a propósito da tradução portuguesa do Sidereus nuncius. Scientiæ Studia, São Paulo, v.11, n. 4, p. 937-46, 2013.
A Fundação Calouste Gulbenkian publicou, em 2010, a primeira tradução portuguesa de um dos textos mais importantes da história da ciência e, sem qualquer dúvida, aquele que causou o mais profundo impacto no mundo científico europeu das primeiras décadas do século xvii, a saber, o Sidereus nuncius, de Galileu Galilei. A publicação dessa tradução ocorreu quatrocentos anos após a primeira publicação do Sidereus nuncius, ocorrida em março de 1610 e, como diz Sven Dupré (p. 8), que escreve a nota de abertura à tradução portuguesa, no momento em que o pó de intensas e numerosas atividades e eventos comemorativos do Ano Internacional da Astronomia começava a assentar. Segundo Dupré, diversos estudiosos têm voltado sua atenção para esse pequeno texto, explorando diferentes aspectos, como, por exemplo, a importância do mecenato, a relação entre o contexto artístico e as imagens lunares produzidas por Galileu, os aspectos literários do texto ou, ainda, os aspectos técnicos relacionados com a produção de lentes e a invenção do telescópio. Essa diversidade de abordagens, como afirma Dupré (p. 8), coloca em evidência o caráter interdisciplinar dos estudos dedicados ao texto, bem como mostra a sua importância não apenas no contexto científico mais restrito, mas também no âmbito cultural mais amplo.
Apenas a tradução do texto para a língua portuguesa já mereceria destaque e reconhecimento. Contudo, Henrique Leitão vai além de uma tradução segura e cuidadosa do original latino. Além dela, Leitão oferece ao seu leitor um estudo introdutório e um bom conjunto de notas explicativas que contribuem para uma melhor compreensão dos aspectos históricos, filosóficos e científicos com os quais o livro de Galileu esteve envolvido. Antes de considerar o estudo introdutório, convém destacar alguns pontos do prefácio de Leitão.
Henrique Leitão inicia o prefácio afirmando que o Sidereus nuncius é “uma obra que pode, sem qualquer exagero, ser considerada a mais emblemática, a mais perturbadora, mas também a mais acessível de todas quantas compõem o excepcional panteão dos textos da ‘revolução científica’” (p. 11). Tal importância, entretanto, contrasta justamente com a ausência, em Portugal, de uma tradução desse texto. Como sabe o leitor brasileiro, não se trata da inexistência de qualquer tradução para a língua portuguesa. E, de fato, Leitão não deixa escapar esse detalhe. Depois de uma breve referência no prefácio, Leitão faz uma menção mais detalhada no estudo introdutório, avaliando as duas edições da tradução brasileira, feita por Carlos Ziller Camenietzki, bem como o estudo introdutório e as notas que a acompanham. De acordo com Leitão, a tradução brasileira visou um público bastante amplo, ao passo que a tradução portuguesa, ainda que não esteja endereçada ao especialista na obra de Galileu, tem em vista um público culto e informado. O principal motivo da afirmação quanto ao escopo da tradução portuguesa está no fato de que “o especialista nunca dispensará a leitura do texto de Galileu na sua versão latina original” (p. 12). Não obstante os propósitos alegados por Leitão, cumpre avaliar a natureza e o alcance desta edição do Sidereus nuncius, bem como o lugar deste pequeno texto de Galileu no longo processo que marcou a defesa do copernicanismo.
O primeiro aspecto que chama a atenção é justamente o título da primeira seção do estudo introdutório: “Uma Gazeta Sideral com ‘osservazioni di infinito stupore”. Como Leitão adverte na nota 8 do estudo, bem como na nota 1 da tradução, o termo gazeta foi adotado por Carlos Solís Santos, responsável pela tradução espanhola do Sidereus nuncius. Santos, além de deixar clara sua decisão de romper com a tradição, justifica que o termo avviso,1 além de significar “notícia” ou “noticiário”, pode ser entendido como “gazeta”. A decisão de Santos, como afirma Leitão, pretende colocar em evidência o caráter “sensacional e jornalístico do livro de Galileu”. Leitão, pelo contrário, opta pela tradução que, segundo ele, é a mais habitual. O debate em torno da tradução do título do livro de Galileu é um assunto largamente discutido, sabemos disso. Contudo, gostaria de apresentar algumas rápidas considerações sobre a decisão de Leitão, em contraste com outras soluções de tradução como, por exemplo, aquela adotada na primeira edição da tradução brasileira. Em primeiro lugar, Leitão discute nas notas 1 e 22 da tradução as duas opções quanto ao título (cf. p. 207 e 212), entretanto, ele mesmo reconhece que o sentido que Galileu tinha em mente era de “mensagem”. Em segundo lugar, na primeira nota, Leitão observa que a segunda edição da tradução brasileira apresenta uma alteração com respeito à primeira edição, substituindo “mensagem” por “mensageiro”. Mas é importante notar que essa decisão foi tomada pelos editores da segunda edição da tradução brasileira e não por Carlos Ziller Camenietzki. Como adverte Ulisses Capazzoli na nota de apresentação à segunda edição, a opção por “mensageiro” teve em vista seguir a tradição, ainda que Camenietzki “tenha justificado devidamente a opção que fez” (Galilei, 2009[1610], p. 6). De fato, Camenietzki justifica sua escolha tendo em vista o modo como Galileu referiu-se ao livro em algumas cartas. Mas certamente um dos pontos importantes quanto à tradução “mensageiro das estrelas” está relacionado a Kepler. Como adverte Mourão na apresentação da primeira edição da tradução brasileira, “é a Kepler que se deve o sentido de ‘o mensageiro das estrelas’ para a obra de Galileu que, na realidade, usou a expressão sidereus nuncius no sentido de ‘a mensagem das estrelas” (Galilei, 1987 [1610], p. 6).2 Entre a manutenção daquilo que Galileu tinha em mente e o respeito à tradição, Leitão prefere a segunda alternativa. Mas então qual a razão do título da primeira seção do estudo introdutório de Leitão? Ao referir-se a “Uma Gazeta Sideral com ‘osservazioni di infinito stupore”, o tradutor português não estaria reconhecendo justamente a pertinência do título “A mensagem das estrelas”? Feitas essas breves considerações, voltemos ao estudo introdutório.
Leitão abre sua exposição enfatizando os impactos do livro de Galileu: “é difícil encontrar na história científica um outro exemplo que se lhe compare, quer na estrondosa comoção que causou imediatamente, quer nas dramáticas consequências a que deu origem” (p. 19). Tais impactos serão destacados por Leitão nos parágrafos seguintes, quando ele trata, por exemplo, da propagação das descobertas galileanas não somente no mundo europeu, mas também para além dele, na Índia e na China. A ênfase na relevância dessas descobertas se vê fortalecida na continuidade do texto de Leitão, na medida em que discorre sobre um conjunto de aspectos relacionados à natureza das observações telescópicas de Galileu, sua adesão às teses copernicanas, as consequências da publicação do texto de 1610 para sua carreira e os efeitos das novidades por ele relatadas no meio científico e filosófico da primeira metade do século xvii. Tais aspectos estão presentes nos blocos temáticos do estudo introdutório, os quais poderiam ser resumidos da seguinte maneira: (1) breve exposição sobre a história do telescópio; (2) descrição da estrutura do Sidereus nuncius e das observações telescópicas nele contidas; (3) a redação da obra e sua relação com os Medici; (4) as observações astronômicas de Galileu depois da publicação do Sidereus nuncius; (5) os impactos da obra na comunidade científica e filosófica do período; (6) a recepção das novidades telescópicas de Galileu em Portugal.
O trajeto percorrido por Leitão ao longo desses blocos temáticos conduz seu leitor a compreender, em linhas gerais, o contexto no qual o livro de Galileu está inserido. O destaque inicial, claramente vinculado ao estupor ocasionado pelas novidades anunciadas por Galileu, dá lugar ao desenvolvimento de um panorama que coloca sob nossos olhos os aspectos técnicos, cosmológicos, filosóficos e sociais que cercam a obra em questão. Tal panorama começa com um breve histórico sobre a invenção do telescópio, a maneira como Galileu toma conhecimento do mesmo, seu trabalho na construção de telescópios cada vez mais potentes e as dificuldades práticas envolvidas nesse processo (como, por exemplo, o polimento adequado das lentes). Esse histórico prepara o leitor para o significado das observações contidas no Sidereus nuncius e, consequentemente, fortalece o papel decisivo e revolucionário desse instrumento científico. Como afirma Leitão: “o telescópio é, pois, parte integrante e essencial da ‘mensagem’ que Galileu queria dar” (p. 29). E, de fato, isso se faz notar nas primeiras páginas do texto de Galileu, nas quais encontramos o seguinte.
Grandes coisas, na verdade, são as que proponho neste pequeno tratado para que sejam examinadas e contempladas por cada um dos que estudam a natureza. Coisas grandes, digo, pela própria excelência do assunto, pela sua novidade absolutamente inaudita e ainda por causa do instrumento com o auxílio do qual elas se tornaram manifestas aos nossos sentidos (Galilei, 2010 [1610], p. 151).
Tais grandes coisas, resultado das observações astronômicas de Galileu, serão anunciadas logo após um brevíssimo relato sobre como a notícia do surgimento do telescópio chegou ao seu conhecimento e de como ele construiu esse instrumento. De acordo com Leitão, o Sidereus nuncius contém basicamente dois tratados: o primeiro sobre a Lua e o segundo sobre Júpiter, separados por algumas páginas dedicadas às estrelas fixas. Cada uma dessas partes possui caráter e consequências particulares. Como sabemos, as observações da superfície lunar determinam sérias dificuldades para a cosmologia aristotélica. Se a existência de vales, crateras e montanhas (o que se conclui a partir das imagens obtidas por intermédio do telescópio) demonstra que a superfície da Lua não é “perfeitamente polida, uniforme e exatamente esférica, como um exército de filósofos acreditou” (Galilei, 2010 [1610], p. 156), a natureza da luz secundária que banha o corpo lunar reforça a sua similaridade com a Terra para além das suas semelhanças de relevo.
As páginas que seguem ao relato sobre a superfície lunar, ainda que denominadas por Leitão como uma digressão, abordam outro aspecto importante para a cosmologia e a astronomia do período. A observação telescópica das estrelas fixas revela aos olhos do observador moderno um número muito maior desses astros e o seu papel na constituição de determinadas regiões celestes, como a constelação de Órion (até então compreendida como uma nebulosa) e a Via Láctea. Duas passagens do texto de Galileu ilustram muito bem tais aspectos.
Na verdade, com a luneta poderá ver-se uma tal multidão de outras estrelas abaixo da sexta grandeza, que escapam à vista desarmada, tão numerosa que é quase inacreditável, pois podem observar-se mais do que seis outras ordens de grandeza (…). Aquilo que foi por nós observado em terceiro lugar foi a essência ou matéria da própria Via Láctea que, com auxílio da luneta, pode ser observada com os sentidos, de modo que todas as disputas que durante gerações torturaram os filósofos são dirimidas pela certeza visível, e nós somos libertados de argumentos palavrosos. De fato, a galáxia não é outra coisa senão um aglomerado de incontáveis estrelas reunidas em grupo (Galilei, 2010 [1610], p. 175-7).
A última parte do Sidereus nuncius é dedicada ao anúncio dos quatro satélites de Júpiter, cujas implicações vão desde a sua nomeação de “estrelas mediceias” até seu papel como argumento em favor do copernicanismo. Os comentários de Leitão a respeito dessas implicações são, mais uma vez, bastante esclarecedores. Quanto ao primeiro tipo de implicação, ele dedica atenção não somente na breve análise que faz desta parte do texto de Galileu, mas também em outro momento do estudo introdutório, no qual discorre exclusivamente sobre a relação entre a publicação do Sidereus nuncius e a homenagem de Galileu à família Medici. Quanto ao segundo tipo de implicação, Leitão recupera o processo de observação de Júpiter, evidenciando a crescente importância do fenômeno para a conversão explícita e militante de Galileu ao copernicanismo (cf. p. 82). As observações posteriores à publicação do Sidereus nuncius, como foi dito acima, são brevemente tratadas por Leitão no estudo introdutório. Dentre elas, as observações das fases de Vênus e das manchas solares fortalecem a convicção de Galileu em prol do copernicanismo e, portanto, são elementos igualmente importantes para a sua defesa do novo sistema astronômico. De fato, encontramos na carta endereçada a Benedetto Castelli, datada de 21 de dezembro de 1613 (cf. EN, 5, p. 281-8), o uso de um argumento em defesa de Copérnico claramente vinculado às observações das manchas solares. A fim de demonstrar de que maneira a famosa passagem de Josué é compatível com o sistema copernicano e, por outro lado, não pode ser explicada pelo sistema ptolomaico, Galileu afirma no penúltimo parágrafo da carta:
Tendo eu, portanto, descoberto e demonstrado necessariamente que o globo do Sol gira sobre si mesmo, fazendo uma rotação completa em cerca de um mês lunar precisamente naquele rumo em que se fazem todas as outras rotações celestes; sendo, ademais, muito provável e razoável que o Sol, como instrumento e ministro máximo da Natureza, como que coração do mundo, dê não apenas, como ele claramente dá, luz, mas também movimento a todos os planetas, que giram em torno dele (Galilei, 2009, p. 25-6).
Se as observações astronômicas tiveram consequências importantes no posicionamento adotado por Galileu, o conhecimento daquelas que estão presentes no Sidereus nuncius causaram, por sua vez, profundos efeitos no ambiente científico e filosófico do período. Leitão avalia esses efeitos nos dois últimos momentos de seu estudo introdutório. O primeiro deles apresenta um exame geral desses impactos no mundo científico da época, ao passo que o segundo é particularmente dedicado à análise das novidades telescópicas de Galileu em Portugal. Mas os dois momentos não estão separados. Pelo contrário, aquilo que Leitão descreve acerca do que ocorreu em Portugal está claramente associado às repercussões das observações astronômicas de Galileu na Companhia de Jesus e entre os astrônomos do Colégio Romano. De modo geral, a exposição de Leitão sobre o impacto do Sidereus nuncius procura colocar em evidência a recepção e a avaliação dessa obra por Kepler e pelos astrônomos do Colégio Romano. No primeiro caso, trata-se da aprovação do maior astrônomo do período, a quem Galileu solicita expressamente a opinião. A resposta de Kepler à solicitação de Galileu ocorre alguns dias após receber uma cópia do Sidereus nuncius. A carta enviada por Kepler a Galileu é posteriormente corrigida e ampliada, sendo publicada sob o título Dissertatio cum nuncio sidereo. A avaliação de Kepler é marcada pelo tom elogioso e entusiasmado, não obstante ele advirta que Galileu não inventou o telescópio, como também não foi o primeiro a “falar da natureza rugosa da superfície lunar e que não fora também o primeiro a referir que havia muito mais estrelas no céu” (p. 106). Se a avaliação de Kepler depositava nas mãos de Galileu um trunfo de enorme valor, a confirmação de suas observações por parte dos astrônomos do Colégio Romano lhe conferia crédito importantíssimo no âmbito institucional e científico vinculado ao poder eclesiástico. A resposta às demandas encaminhadas pelo cardeal Roberto Bellarmino (cf. EN, 11, p. 87-8) aos membros daquela instituição não confirma apenas as observações presentes no pequeno texto de 1610, mas ainda as outras que se seguiram à publicação do Sidereus nuncius (cf. EN, 11, p. 92-3). Embora essa fosse uma vitória da maior relevância, ela não significou, no âmbito dos jesuítas, a adoção do sistema copernicano. As dificuldades oriundas das observações astronômicas requeriam uma nova explicação dos céus e dos movimentos planetários e durante algum tempo os jesuítas estiveram envolvidos com os problemas cosmológicos que então se apresentavam, resultantes das observações astronômicas com o auxílio do telescópio. Depois da morte de Clávio, em 1612, os debates continuaram de modo intenso na Companhia de Jesus. Segundo Leitão, “a verdade é que, em 1620, com a publicação da Sphaera mundi seu cosmographia, de Giuseppe Biancani (1566-1624), o sistema de Tycho Brahe passou a ser ‘oficialmente’ adotado pela Companhia de Jesus” (Leitão, 2008, p. 31).
Os reflexos das descobertas astronômicas de Galileu têm, na última parte do estudo introdutório de Leitão, um destaque especial, ainda que não exaustivo. É neste momento que o tradutor português trata particularmente das repercussões da invenção do telescópio e das observações astronômicas de Galileu entre os jesuítas da Companhia de Jesus, mais precisamente na “Aula da Esfera” do Colégio de Santo Antão. A chegada dessas notícias foi favorecida em virtude das relações entre a Companhia de Jesus e o mundo europeu culto daquele período, como, por exemplo, a estreita relação entre a “Aula da Esfera” do Colégio de Santo Antão com a Academia de Matemática de Clávio. Se a chegada dessas notícias a Portugal foi resultado desse tipo de relação, é igualmente o papel desempenhado pela Companhia de Jesus que permite que as novidades astronômicas sejam recebidas em países mais distantes da Europa, como a Índia e a China, nos quais se encontravam, respectivamente, o padre Giovanni Antonio Rubino (cf. p. 118) e o jesuíta Manuel Dias Júnior (cf. p. 120). Mas a atenção de Leitão está dirigida para a recepção e desenvolvimento da astronomia na “Aula da Esfera” do Colégio de Santo Antão, o que o leva a tratar do debate cosmológico que então se desenvolveu naquela instituição com as notícias sobre as observações telescópicas de Galileu. Nesse contexto, dois personagens merecem destaque, Giovanni Paolo Lembo, responsável pela construção de telescópios no Colégio Romano, e o jesuíta italiano Cristoforo Borri, que teve um papel importante nos debates cosmológicos do período (cf. p. 129). O primeiro deles, Lembo, foi o grande responsável pela introdução de Galileu e suas descobertas astronômicas em Portugal, ao passo que Borri foi um notável divulgador das novidades astronômicas naquele mesmo país. Ambos têm passagem pelo Colégio de Santo Antão, no qual lecionaram alguns cursos. Lembo lecionou entre 1615 e 1617, período no qual se desenvolveu o longo e intenso debate cosmológico e teológico em torno das hipóteses copernicanas e, Borri, entre 1627 e 1628. É por meio da trajetória desses dois personagens na “Aula da Esfera” do Colégio de Santo Antão que Leitão oferece ao seu leitor um quadro geral sobre a introdução das observações celestes de Galileu em Portugal, bem como sobre o posicionamento dos jesuítas portugueses frente ao debate cosmológico das primeiras décadas do século xvii. Nesse último contexto, ele mostra que os matemáticos jesuítas, embora abandonem o modelo astronômico ptolomaico (pois ele não se mostrava mais sustentável frente às descobertas feitas com o telescópio), não adotam o sistema copernicano. Como dito anteriormente, os jesuítas optam pelo modelo proposto por Tycho Brahe, ou alguma variante desse modelo.
Como dito no início desta resenha, Leitão afirma que a tradução portuguesa está endereçada ao público culto e informado e que o especialista jamais dispensará a leitura do original latino do Sidereus nuncius. Além disso, no prefácio, ele lamenta que “quase nada do que Galileu escreveu foi alguma vez traduzido em Portugal” (p. 11). Tais declarações merecem agora algumas ponderações, uma vez que a tradução é dirigida àquele público ao qual Leitão se refere. O trabalho de Leitão merece o justo reconhecimento, não apenas pela tradução cuidadosa, mas também pelo estudo introdutório. Trata-se, sem dúvida, de uma leitura fundamental para todos os interessados na obra de Galileu. Contudo, esse mesmo público, culto e informado, não deixará de perceber algumas ausências notáveis naquilo que diz respeito às traduções disponíveis, seja de textos do próprio Galileu, seja de outros que estão diretamente relacionados com a contenda em torno do copernicanismo. Nesse sentido, lamenta-se, por exemplo, a falta de referência a algumas traduções brasileiras, dentre as quais destaco as seguintes: (1) a tradução brasileira de O ensaiador, realizada por Helda Barraco (cf. Galilei, 1978); (2) a tradução brasileira comentada do Commentariolus, de Copérnico, feita por Roberto de Andrade Martins (cf. Copérnico, 1990); (3) a tradução brasileira das cartas relacionadas com o debate teológico e cosmológico com o qual Galileu esteve envolvido, realizada por Carlos Arthur Ribeiro do Nascimento (cf. Galilei, 2009); (4) a tradução brasileira comentada do Diálogo sobre os dois máximos sistemas do mundo ptolomaico e copernicano, feita por Pablo Rubén Mariconda (cf. Galilei, 2011 [1632]); (5) as traduções brasileiras comentadas da Carta de Galileu a Francesco Ingoli e da Discussão a respeito da posição e do repouso da Terra contra o sistema de Copérnico, de Francesco Ingoli de Ravena, realizadas por Pablo Rubén Mariconda (cf. Galilei, 2005; Ingoli, 2005). Essas últimas traduções, feitas por Mariconda, merecem destaque especial tendo em vista a relação dos estudos que as acompanham com a defesa galileana do copernicanismo. A tradução do Diálogo, cuja primeira edição é de 2001, conta com um valioso estudo introdutório, intitulado “O diálogo e a condenação”, a partir do qual é possível compreender, com riqueza de detalhes e profundidade de análise, todo o período no qual Galileu esteve envolvido com a defesa do modelo copernicano. As traduções do texto de Ingoli e da resposta de Galileu são, por sua vez, acompanhadas de um estudo intitulado “O alcance cosmológico e mecânico da carta de G. Galilei a F. Ingoli” (Mariconda, 2005). Tais estudos ampliam significativamente o quadro apresentado por Leitão. Todas essas traduções são anteriores àquela de Leitão e, assim, esperaríamos que estivessem referidas no prefácio, no estudo introdutório ou nas notas à tradução.
Não há dúvida de que trabalho realizado por Leitão deve ser colocado ao lado das traduções acima referidas, bem como da tradução portuguesa de As revoluções dos orbes celestes, de Copérnico, feita por A. Dias Gomes e Gabriel Domingues (cf. Copérnico, 1996 [1543]). De fato, não é difícil notar que a tradução do Sidereus nuncius preenche uma lacuna importantíssima naquela prateleira da estante, nossa e principalmente de nossos alunos. A meu ver, são especialmente estes últimos que ganham uma contribuição de valor inquestionável com o trabalho de Leitão. É por meio da tradução da mensagem enviada por Galileu, que o tradutor português lega ao futuro especialista mais uma peça para montagem do quadro de uma época que ainda reclama nossa atenção. De fato, este novo volume na estante não mostra apenas um retrato do céu que os filósofos naturais da primeira metade do século xvii descobriram, mas nos auxilia a compreender o significado de um dos períodos mais importantes da história da ciência. Cabe ao leitor manter seus olhos atentos aos detalhes desse retrato, bem como às interpretações que dele já se fizeram.
Notas
1 Note-se que ele não utiliza o termo “nuncius”, mas refere-se ao termo italiano utilizado por Galileu em algumas ocasiões como, por exemplo, em uma carta redigida em 30 de janeiro de 1610 e endereçada a Belisario Vinta (cf. EN, 10, p. 280-1).
2 Seguramente Mourão refere-se nesse momento ao texto no qual Kepler apresenta sua avaliação sobre o livro de Galileu, intitulado Dissertatio cum nuncio sidereo.
Referências
COPÉRNICO, N. As revoluções dos orbes celestes. Tradução A. D. Gomes e G. Domingues. Introdução e notas L. Albuquerque. Lisboa: Fundação Calouste Gulbenkian, 1996 [1543].
_____. Commentariolus. Pequeno comentário de Nicolau Copérnico sobre suas próprias hipóteses acerca dos movimentos celestes. Tradução, introdução e notas R. de A. Martins. Rio de Janeiro: Coppe/Mast, 1990.
FAVARO, A. (Ed.) Edizione nazionale delle opere di Galileo Galilei. Firenze: Barbera, 1933 [1891]. 20 v. (EN)
GALILEI, G. O ensaiador. Tradução H. Barraco. 2. ed. São Paulo: Abril Cultural, 1978. (Os Pensadores).
_____. A mensagem das estrelas. Tradução, introdução e notas C. Z. Camenietzki. Revisão crítica A. da G. Kury. Rio de Janeiro: Museu de Astronomia e Ciências Afins/Salamandra, 1987 [1610].
_____. Carta de Galileu Galilei a Francesco Ingoli. Tradução P. R. Mariconda. Scientiae Studia, 3, 3, p. 477516, jul./set. 2005.
_____. O mensageiro das estrelas. Tradução, introdução e notas C. Z. Camenietzki. São Paulo: Scientific American Brasil/Duetto, 2009 [1610].
_____. Ciência e fé: cartas de Galileu sobre o acordo do sistema copernicano com a Bíblia. Organização e tradução C. A. R. do Nascimento. 2. ed. rev. e ampl. São Paulo: Editora Unesp, 2009.
_____. Sidereus nuncius: o mensageiro das estrelas. Tradução, estudo introdutório e notas H. Leitão. Lisboa: Fundação Calouste Gulbenkian, 2010 [1610].
GALILEI, G. Diálogo sobre os dois máximos sistemas do mundo ptolomaico e copernicano. Tradução, introdução e notas P. R. Mariconda. 3. ed. São Paulo: Editora 34/Associação Filosófica Scientiæ Studia, 2011 [1632].
INGOLI, F. Discussão a respeito da posição e do repouso da Terra contra o sistema de Copérnico. Tradução A. M. Ribeiro e L. Mariconda. Scientiae Studia, 3, 3, p. 467-76, jul./set. 2005.
LEITÃO, H. O debate cosmológico na “Aula da Esfera” do Colégio de Santo Antão. In: Leitão, H. (Org.) Sphaera mundi: a ciência na “Aula da Esfera”. Lisboa: Biblioteca Nacional de Portugal, 2008. p. 27-44.
_____. Estudo introdutório. In: Galilei, G. Sidereus nuncius: o mensageiro das estrelas. Tradução, estudo e notas H. Leitão. Lisboa: Fundação Calouste Gulbenkian, 2010 [1610]. p. 19-136.
MARICONDA, P. R. O alcance cosmológico e mecânico da carta de Galileu Galilei a Francesco Ingoli. Scientiae Studia, 3, 3, p. 443-65, jul./set. 2005.
_____. Introdução. O “Diálogo” e a condenação. In: Galilei, G. Diálogo sobre os dois máximos sistemas do mundo ptolomaico e copernicano. Tradução, introdução e notas P. R. Mariconda. 3. ed. São Paulo: Editora 34/Associação Filosófica Scientiæ Studia, 2011 [1632]. p. 15-76.
Paulo Tadeu da Silva – Centro de Ciências Naturais e Humanas. Universidade Federal do ABC, São Bernardo do Campo, Brasil. E-mail: paulo.tadeu@ufabc.edu.br
[DR]
Investigando Piero – GINZBURG (RBHE)
GINZBURG, Carlo. Investigando Piero. Trad. Denise Bottman. São Paulo: Cosac Naify, 2010. Resenha de: AGUIAR, Thiago Borges de. Revista Brasileira de História da Educação, Campinas, v. 12, n. 2 (29), p. 267-280, maio/ago. 2012
Recomendar a leitura de uma obra escrita pelo autor de O queijo e os vermes para o público brasileiro pode ser facilmente justificável pela qualidade já consagrada de sua produção histórica. No entanto, fazê-lo para os historiadores da educação no Brasil justifica-se por dois motivos. O primeiro consiste em fugir do lugar-comum pelo qual Ginzburg é visto por aqui: um autor da micro-história que propõe uma leitura das fontes a partir de um paradigma indiciário e/ ou da circularidade cultural. O segundo é o caráter de “aula-passeio pela arte de se fazer história” que essa obra possui.
A tradução da obra Investigando Piero, lançada em 2010 pela Cosac Naify, foi baseada na edição italiana de 1994. Ela é diferente da tradução publicada pela editora Paz e Terra, que até então circulava no Brasil, visto que esta última foi traduzida de outra edição italiana, a do ano de 1982. A nova tradução para o português, em oposição à edição que circulava anteriormente no Brasil, traz diversas imagens em cores, maior quantidade de figuras, inclusão de quatro apêndices, além da revisão do próprio texto.
Ginzburg propõe com esse livro uma discussão do comissionamento das obras de Piero della Francesca e da iconogafia nelas presente, evitando a discussão de aspectos propriamente formais, questões que deixa o autor para serem respondidas pela história da arte. Três obras de Piero foram escolhidas para esse trabalho: o Batismo de Cristo, a Flagelação e o conjunto de afrescos da igreja de San Francesco, em Arezzo.
Por que investigar Piero della Francesca? Pode um estudo histórico sobre esse pintor renascentista italiano trazer resultados relevantes? É o que se questiona o autor no início de seu prefácio à edição de 1981. Ele entende que, apesar de suas limitações no campo da arte, as condições para a pesquisa sobre Piero (escassas referências biográficas e pouquíssimas obras datadas) são um rico campo de pesquisa histórica. Entendemos que, para Ginzburg (p. 15), está justamente na dificuldade de se trabalhar com esse artista a possibilidade de convertê-lo num “caso de grande importância metodológica, até independente de sua excelência artística”.
O livro de Ginzburg também estabelece um diálogo com a obra de Roberto Longhi, seu conterrâneo, cujo título é Piero dela Francesca (Florença: Sansoni, 1963/São Paulo: Cosac Naify,2007). Comenta o autor que, apesar de ser um trabalho de peso, digno de nota pela qualidade do exame realizado diante de tão parca documentação existente, é inevitável que a obra de Longhi apresente algumas falhas depois de tanto tempo de sua primeira formulação (1927).
Em uma aula que Ginzburg ministrou durante um seminário de estudos da Fundação Longhi, cujo ensaio foi publicado como “Apêndice IV” da edição aqui resenhada, o autor afirma que seu livro consiste em uma homenagem à obra de Longhi, da única maneira que é possível fazê-la: discutindo-a e criticando-a. De certa maneira, investigar Piero é investigar Longhi, e fazer dele um “modelo e um desafio constante”, mesmo quando as conclusões d ambos seguem caminhos diferentes.
A discussão que é praticamente o pano de fundo de todo o livro de Ginzburg é a datação das obras de Piero. Em diálogo com Longhi, Ginzburg (p. 11) afirma que para este “a datação era um momento decisivo na análise de uma obra”. É esse procedimento, porém, que recebe as críticas mais contundentes do historiador italiano. Uma datação estilística permite afirmar apenas que uma obra é anterior ou posterior à outra. “Só é possível converter esse ‘antes’ e esse ‘depois’ em indicações cronológicas absolutas – talvez até ad annum – se a análise estilística se enganchar com elementos de datação externa” (p. 13-14).
São os “ganchos” em documentações concernentes e relacionáveis ao comissionamento e à iconografia das obras que permitiram ao autor (p. 24) “entrar num terreno, o da cronologia das obras, que os conhecedores [da história da arte] sempre reivindicaram como área sua”. E a resposta de Ginzburg (p. 25) aos críticos de seu livro é categórica nesse sentido:
Sem dúvida, o estilo é um fenômeno histórico e, enquanto tal, está ligado a um contexto temporal, em princípio verificável. Mas a datação dos fatos estilísticos pode se prender a uma cronologia absoluta, de calendário, apenas por meio de fatos extraestilísticos, como a data inscrita no afresco de Piero em Rimini, por exemplo.
Não me cansarei de repetir que, sem essa data, o afresco não poderia constituir um “gancho”, um ponto de referência indiscutível (pelo menos até prova em contrário) para a cronologia absoluta das obras de Piero. Isso não significa que a história da arte seja uma disciplina à deriva ou que o juízo dos conhecedores seja mais frágil que o dos historiadores. Porém, o caráter relativo das datações puramente estilísticas coloca claros limites à sua capacidade demonstrativa.
Por que, então, um historiador trabalhar com Piero dela Francesca? A resposta de Ginzburg passa por uma retomada de Lucien Febvre. Se este sugeria examinar plantas, campos de lavoura, eclipses da lua, por que não examinar pinturas? Além disso, para Ginzburg (p. 20), já está na hora de reunir historiadores e historiadores da arte num trabalho interdisciplinar, “cada qual com seus instrumentos e competências próprias, a fim de chegar a uma compreensão mais aprofundada dos testemunhos figurativos”.
Essa interdisciplinaridade, já proposta por Ginzburg em obras como História noturna ou Mitos, emblemas e sinais (história e morfologia), bem como em Nenhuma ilha é uma ilha (história e literatura), tende, tradicionalmente, a se traduzir numa apregoada justaposição de resultados de áreas diversas. No entanto, o historiador italiano propõe fugir dessa prática pouco produtiva, visto que as divergências em relação a problemas concretos, como a questão da datação das obras de Piero, são mais frutíferas do que as convergências entre as áreas. É por meio das divergências que se pode “recolocar em discussão os instrumentos, as áreas e as linguagens de cada disciplina. A começar, sem dúvida, pela pesquisa histórica” (p. 21).
O livro de Ginzburg (p. 24) serviu-lhe também como alimento para “uma reflexão sobre um tema mais geral – o da prova” –, com o qual ele afirma ter-se ocupado “várias vezes na última década, e de diversos pontos de vista”. Investigando Piero, nesse sentido, fornece subsídios para o diálogo com outras obras de Ginzburg, como Relações de força e O fio e os rastros, ou ainda, mais especificamente, com o ensaio “De A. Warburg a E. H. Gombrich: notas sobre um problema de método”, publicado no Mitos, emblemas e sinais.
Vemos aqui como o Ginzburg investigador de Piero dela Francesa é muito mais do que o historiador que estudou a vida de um moleiro perseguido pela inquisição ou que reuniu Morelli, Freud e Sherlock Holmes num único texto, como ele aparece nos estudos de história da educação. É alguém que nos mostra que a construção histórica passa por uma discussão sobre o lugar da prova, diante de uma documentação escassa e da necessária interdisciplinaridade para a realização desse debate.
Mais do que isso, trabalhando com um assunto não tão próximo às temáticas mais recorrentes de sua obra, como os sistemas de crença e bruxaria, Ginzburg oferece, para quem está familiarizado com sua obra, uma oportunidade para ser enxergado por outro prisma. Visto trabalhar numa área na qual ele não circula com facilidade, Ginzburg, em seu livro, constrói sua argumentação com mais “cuidado”, deixando claramente à mostra as etapas do processo de elaboração de uma narrativa histórica valendo-se da análise de sinais que não saltam à vista num primeiro momento.
Investigando Piero está, portanto, recheado da metodologia indiciária e narrativa da escrita histórica de Ginzburg. Ao longo dos capítulos do livro, detalhes como o aperto de mãos de personagens nas obras de Piero são discutidos com historiadores da arte e documentos de época e analisados pela ótica de categorias como “convincente” e “implausível” (p. 38) à luz de critérios de análise como “exaustividade, coerência e economia” (p. 39). As conclusões que o autor (p. 140) constrói ao longo de quatro capítulos dividem-se entre comprovações e conjecturas, como comenta no final da análise do ponto mais controverso de sua obra, a identidade de um dos personagens de Flagelação:
a coerência interpretativa sem correspondências de fato sempre deixa uma margem de dúvida. Os documentos sobre a encomenda e a localização original, que no caso do Batismo permitiram que controlássemos a exatidão da interpretação iconográfica de Tanner, ainda não vieram à luz no caso da Flagelação; esperamos que algum dia apareçam. No aguardo de novas descobertas documentais, é preciso reconhecer que a interpretação acima apresentada é, em boa parte, conjectural. Tratando-se de um quadro anômalo em termos iconográficos, cujo destinatário e localização originais são ignorados, talvez seja difícil proceder de outra maneira.
Não apenas pela qualidade do exercício metodológico de Ginzburg e da ilustração de seu método indiciário de trabalho histórico vale a leitura de Investigando Piero. O exercício de autocrítica que o autor faz ao questionar seus próprios resultados com base em críticas externas é um rico exemplo de honestidade científica. No apêndice II de seu livro, Ginzburg (p. 245), ao discutir os limites da prova no campo dos estudos sobre a iconografia, apresenta “conclusões bastante autodestrutivas”, justificando que “a reflexão sobre um fracasso pode ser tão (ou talvez mais) instrutiva quanto a reflexão sobre um sucesso”. Embora termine afirmando que “preferiria de longe ter discorrido sobre um sucesso”, entendeu o autor (p. 259) que “conjecturas e refutações, ambas fazem parte da pesquisa”.
Seu fracasso constituiu num detalhe que descobriu mais tarde: a faixa vermelha que o autor (p. 258) demonstrou ser a “irrefutável e correta” interpretação de que Giovanni Bacci fora o comitente do quadro Flagelação e estava nele retratado não consistia numa faixa cardinalícia e sim num simples xale, ou um becchetto, “uma longa tira cujas pontas pendiam como uma espécie de turbante, amplamente usada na Itália quatrocentista”. O que Ginzburg pensava ser uma anomalia era, na verdade, uma série de elementos repetidos em outras obras da época. Embora essa descoberta tenha destruído boa parte de sua argumentação sobre a datação tardia do quadro, ela serviu ao autor como instrumento para novas descobertas a respeito de Piero e suas obras. Seu exercício de assunção de um erro apenas reforçou sua posição de que “a propensão a hipóteses arriscadas e o rigor na pesquisa das provas podem e devem coexistir” (p. 250).
Nesse sentido, Investigando Piero, obra que se poderia supor uma anomalia dentro do conjunto de escritos de Ginzburg, talvez um livro de deleite ou uma fuga para outra área, é um exemplo consistente do lugar da prova na pesquisa histórica e das amplas possibilidades de atuação do historiador que quer se arriscar a sair dos lugares-comuns.
Thiago Borges de Aguiar – Pedagogo e doutor em educação pela Universidade de São Paulo (USP). Pós-doutorando bolsista da Fundação de Amparo à Pesquisa do Estado de São Paulo (Fapesp) na Faculdade de Educação da USP. E-mail: tbaguiar@uol.com.br
Giorgio Agamben: Poetry, philosophy, criticism / Alberto Pucheu
Ao se debruçar sobre o conjunto da obra de um dos maiores críticos literários da atualidade, o italiano Giorgio Agamben, Alberto Pucheu Neto, nessa monumental obra, esclarece e perscruta as sendas do processo de criação artística entre a relação que envolve a poética e sua imbricada conjunção com a filosofia, sem olvidar de como a crítica no mundo ocidental construiu seu arcabouço a partir da linguagem, do texto como elemento semântico e sintagmático de explicação do mundo, à medida que a razão instrumental ora recorria à poesia, ora se distanciava dela, enquanto mecanismo compungido de expiação do sentimento de descoberta do cosmos.
Essa é uma das razões pelas quais o pensamento filosófico e teórico do século XIX caracterizou-se pela invenção de uma escrita poético-teórica, ou seja, o processo de designação de uma linguagem responsável até pela própria criação dos sentidos, dando conta de uma explicação causal das coisas. Giorgio Agamben denuncia a separação ocidental entre filosofia e poesia. O que no princípio nasceu imbricado com os gregos, aos poucos se deslindava para uma ruptura da qual a poesia cada vez mais ficava resguardada não como mecanismo de elucidação do não revelado, mas como manifestação isolada de seus criadores, os poetas, como se suas conjunções expostas sob forma poética não contivessem em si um processo de exposição, até mesmo da linguagem. Para tanto, a crítica pode ser poesia e a poesia, crítica, segundo Pucheu, porque a suposta dicotomização entre ambas dificulta a compreensão de como a crítica, nasce a partir da poesia, instrumentalizando sua interpretação, assim como a crítica ao desvendar as filigranas da poesia, é, em sua essência, também poesia, estabelecendo intermediação, paralelismo, imbricação.
Para Alberto Pucheu, Giorgio Agamben aposta numa reconciliação de uma “teoria nela mesma literária”, a fim de encontrar a unidade da palavra despedaçada. A aposta reside em (PUCHEU, 2010, p. 20).
Lidar com a filosofia, a literatura e seus entornos interventivos a partir da busca incansável por uma nova modalidade de escrita, que reconcilie o cindido ocidental em um novo destino, é o projeto perseguido por Giorgio Agamben desde a primeira página de abertura de seu primeiro livro, quando assume a herança nietzschiniana de uma anunciada reversão de Kant.
A estética tornou-se um elemento da própria configuração instrumental da reflexão desgastada da própria arte. Propôs-se a ser maior que o ato da criação, de desapego às forças internas da criação para medir a transmissão e valor da obra. Ora, a obra não se resume ao seu resultado impresso, aquilo de que a crítica e a estética tentam dar conta, já que cada vez que se “retira um livro da estante para ler, outro livro, desse mesmo livro, permanece lá, para sempre invisível, para sempre ilegível”, na asserção do escritor egípcio Edmond Jabés, segundo Pucheu (2010, p. 56); afinal, toda obra escrita é apenas um prelúdio de uma obra ausente.
Outro problema colocado pela teoria literária do século XIX é a difícil desvinculação entre poesia e prosa — uma análise acurada da obra de Euclides da Cunha dá conta disso, afinal, as estruturas poéticas comportam diferenças de uma prosa que se proveu de elementos poéticos ao longo da história como estância criadora de sua narração, posto que a prosa contém em si elementos de sonoridade.
A sonoridade existente no processo de hibridização da prosa está contida em estâncias como a Versura do enjambement, ou como diria o próprio autor (PUCHEU, 2010, p. 76): A versura é o momento exato em que ela própria, enquanto disjunção, dá passagem e nascimento à articulação necessária dos versos. Assim, a versura do enjambement, fazendo a palavra retornar à sua origem criadora, manifesta a ideia do verso e, não menos, a ideia de linguagem: confundindo-se com ela, o poema, como um de seus lugares privilegiados, se fende em duas movimentações vazadas, a mostrar as duas forças intrínsecas a ele e a ela.
Ao evidenciar as diferenças entre poesia e história e poesia e cinema, o autor não se propõe a destacar a importância desta primeira em detrimento de qualquer outra forma de linguagem, expressão ou explicação do mundo; ao contrário, os mecanismos de legibilidade de linguagens como a histórica e a cinemática, ao se colocarem por vezes como não poesia, é que perdem sua força inextrincável não de explicação, mas de expiação dos sentidos, ou seja, aquilo que não pode ser explicado nem tudo pode ser explicado – deve ser intuído pelos sentidos, sorvido, consumido, compungido. Desta feita, Pucheu recorre à alusão feita pelo cineasta Abbas Kiarostami, que, afastando cinema de literatura e aproximando-a da poesia, se nega a aceitar um cinema que conte tudo, que explique didaticamente o sentido das coisas, que conte histórias. Para Abbas, a incompreensão faz parte da essência da poesia. O cinema deveria fazer a mesma coisa.
E quanto à história? Essa, por seu turno, no afã e desiderato de “explicar” tudo, ao ter se abastado da poesia e da literatura no século XIX, perdeu a sua força criadora, sua capacidade de imbricar-se nos mecanismos da existência humana pela dinamicidade da vida, por aquilo que, ainda que não realizado no plano do real vivido, nem por isso deixou de existir, tal como o livro que, tirado da prateleira, continuou a existir como preâmbulo de outro livro ainda não escrito. A história também se faz daquilo que se sentiu, daquele que se desejou, mesmo não efetivado no plano das relações objetivas.
Por essa razão é que Pucheu, no seu último e quarto ensaio, mostra as intrínsecas relações entre poesia e filosofia, mostrando como poetar e filosofar está carregado de sentidos e de uma captura da ou das existências. Para o autor, segundo o italiano Giorgio Agamben, “na busca de acesso a uma autêntica compreensão do problema da significação, o que está em jogo é a reflexão ocidental sobre o significar ou a linguagem. Entender esta questão é entender a necessidade de filosofar” (PUCHEU, 2010, p. 119).
Não à toa o autor culmina sua obra citando Hegel na sua explanação sobre o enigma na arte egípcia os diferentes níveis do simbolismo na arte, a superação das artes por outras artes, e o esforço de Édipo em decifrar o enigma da esfinge, ou seja, libertar a Grécia do que “ainda possuía de egípcio”, ou, “a vitória do humano sobre a naturalidade da animalidade presente na figura da Esfinge”, pletora vontade potente do herói civilizador moderno.
Giorgio Agamben e Alberto Pucheu Neto são interseccionais. O pensamento dos dois se funde nessa obra reveladora de como a trajetória de um pensamento instrumental ocidental pode levar a existência humana a um aprisionamento de um tipo de linguagem. Ser interseccional é romper com a atomização dos sentidos, com o encaixotar das formas de expressão, é perceber o mundo através das suas múltiplas formas sem encerrá-las em seus sentidos estanques, é enxergar o que de filosofia existe na poesia e o que de poesia contém a substância filosófica, é retornar para casa, para quando homens e mulheres se preocupavam em existir desvelando os mistérios, e não meramente afirmar que até os mistérios são criações da linguagem, como se antes da linguagem existisse o nada.
A poesia e a filosofia não são turistas, são viajantes. O turista quer chegar ao seu destino de qualquer forma, ele quer chegar. O viajante está preocupado com o caminhar, com o processo. Ele se descobre no percurso.
José Henrique de Paula Borralho – Universidade Estadual do Maranhão – EMA São Luís, Maranhão – Brasil. E-mail: jh_depaula@yahoo.com.br.
PUCHEU, Alberto. Giorgio Agamben: Poetry, philosophy, criticism. Rio de Najeiro: Beco do Azougue, 2010. 168, p. Resenha de: BORRALHO, José Henrique de Paula. Outros Tempos, São Luís, v.8, n.11, p.341-344, 2011. Acessar publicação original. [IF].
O jogo do Eu: a mudança de si em uma sociedade global – MELUCCI (C)
MELUCCI, Alberto. O jogo do Eu: a mudança de si em uma sociedade global. São Leopoldo: Ed. da Unisinos, 2004. 184 p. Resenha de: SALVA, Sueli. Conjectura, Caxias do Sul, v. 15, n. 1, p. 155-159, jan./abr. 2010.
Esse livro direciona-se a todos aqueles que têm o desejo de compreender o ser humano que habita o mundo contemporâneo buscando saber quem ele é, e como se torna quem é em suas multiplicidades.
Alberto Melucci nasceu em Rimini, na Itália, em 1943 e faleceu em 12 de setembro de 2001. Sociólogo e psicólogo, atuou na Universidade de Milão como professor de Processos Culturais e na Escola de Psicologia Clínica. Também atuou como professor em outros países da Europa, da Ásia, da América Latina, da América do Norte e desenvolveu uma intensa atividade de pesquisa. O autor produziu uma vasta produção bibliográfica centrada nos problemas da teoria sociológica, análise da ação coletiva, mudança social, mudança cultural e identidade, aprofundando as duas últimas temáticas. Possui várias publicações sobre os processos de globalização, sociedade planetária, vida pessoal, vida cotidiana e sobre as relações sociais. Centra-se, nos últimos anos sobre o processo de transformação de si em uma sociedade que muda em grande escala e com um ritmo nunca antes imaginado. Essa é a temática central da obra: O jogo do Eu: a mudança de si em uma sociedade global. No Brasil a obra de Alberto Melucci ficou conhecida através do Professor Dr. Nilton Bueno Fischer, que a difundiu no Programa de Pós-Graduação em Educação da Universidade Federal do Rio Grande do Sul. Nilton partiu no dia 25 de julho, deixando ainda mais intenso o frio do dia mais frio do inverno de 2009, e sem a sua dedicação essa obra não estaria traduzida e publicada no Brasil.
Para apresentar a obra O jogo do Eu… tomo as palavras de Touraine (1998, p. 73), que diz: “O sujeito não é uma ‘alma’ presente no corpo ou o espírito dos indivíduos. Ele é a procura, pelo próprio indivíduo, das condições que lhe permitem ser o autor da sua própria história.” Nas palavras de Touraine (1998), o processo de busca do indivíduo “das condições que lhe permitem ser o autor de sua obra” está atravessada por inúmeros processos presentes na sociedade contemporânea. Para Melucci (2004), em O jogo do Eu: a mudança de si em uma sociedade global, esses processos não podem acontecer fora do próprio sujeito na sua relação consigo e com o mundo. A leitura dessa obra é, portanto, um convite para olhar o sujeito, sua experiência cotidiana, a relação consigo e com o mundo, procurando compreender como ele se move entre os artefatos que o circunda, na tentativa de construção da própria história. O livro instiga a construir uma sociologia da escuta, capaz de pôr em contato verdadeiro o observador e o observado, ou seja, alerta para o compromisso de olhar para o sujeito, considerando não apenas o ponto de chegada, mas os dilemas, as alegrias, as emoções, os conflitos enfrentados durante o percurso de construção de si.
O livro tem o tema da identidade como o foco central, sempre se contrapondo ao princípio da compreensão da identidade como absoluta, argumentando acerca da multiplicidade do eu, expondo a complexidade que envolve a tentativa de responder a uma pergunta simples: Quem sou eu? A busca da resposta sobre Quem sou eu? convive com outro dilema: o de tentar compreender Como me torno quem sou?. Ao tentar compreender Como me torno quem sou?, é possível visualizar o caminho construído individualmente na cotidianidade. São os labirintos do percurso que inundam de sentido a experiência do viver.
A obra está dividida em dez capítulos, e cada um deles aborda aspectos importantes da constituição do sujeito, sua relação consigo, com o outro, com o tempo, com a complexidade da sociedade contemporânea, com os processos de mudança acelerados, com a corporeidade, com o universo social e cultural, com a natureza. O consistente trabalho empírico de Alberto Melucci como sociólogo e psicólogo clínico se reflete no aprofundamento teórico de cada tema tratado e nos convida a refletir sobre os homens e as mulheres, habitantes deste mundo e suas experiências cotidianas. Essas experiências, fundantes na busca da construção de si, se movem entre o limite das estruturas e as possibilidades excessivas do mundo contemporâneo que nos impulsiona à escolha. Para o autor cada sujeito em seu viver cotidiano carrega a marca dessa tensão, sem que ela possa ser resolvida. Cada ser busca, de um lado, o impulso dinâmico para criar o espaço e os conteúdos da experiência e, de outro, a necessidade de considerar os limites naturais intrínsecos da experiência. Nessa busca constrói a si mesmo, cuja mecânica não está estruturada sobre uma engrenagem fixa. Nesse espaço do jogo, o sujeito precisa aprender a se mover, sob pena de se perder. A experiência possibilita que ele jogue a partir do que se apresenta em cada momento, pois esse jogo é dinâmico e exige o aprendizado de novas estratégias para se mover, que se torna possível através da abertura de si mesmo para o outro.
A preocupação com a busca de si que cada homem e cada mulher experimentam ao longo da vida, no intuito de se encontrarem, como sujeitos em suas múltiplas identidades é um dos aspectos em que o autor se detém. Para ele a identidade pessoal se insere em uma complexidade, dada a particularidade das experiências vivenciadas por um a um dos sujeitos. O Eu não pode ser compreendido de maneira absoluta e imediata; esse sempre conservará elementos enigmáticos, que dificultam que se responda de maneira definitiva à pergunta: Quem sou eu? A resposta à pergunta Quem sou eu? conterá sempre a ambivalência, uma vez que, para respondê-la não é suficiente que se tenha certa similaridade com o outro, mas também é preciso diferenciar-se reivindicando uma singularidade. Cada um de nós pertence a uma pluralidade de grupos, gerados por múltiplos papéis sociais, nosso eu torna-se múltiplo, entramos e saímos constantemente dos grupos de pertencimento com mais rapidez do que no passado, nos movemos “como animais migrantes nos labirintos da metrópole, viajantes do planeta, nômades do presente”. (MELUCCI, 2004, p. 60).
Para o autor a identidade se funda na relação social, é caracterizada como capacidade de reconhecer os efeitos da própria ação e reconhecê-la como nossa. As nossas ações não são o simples reflexo dos nossos vínculos biológicos e ambientais, são produções simbólicas de sentidos que, ao serem reconhecidas por nós mesmos, se tornam nossa propriedade e possibilitam a troca com os outros. Dada a dinâmica na produção da identidade, o autor argumenta que a palavra identidade parece não comportar o caráter processual da construção de nós mesmos, por esse motivo o autor sugere a palavra identização.
Nosso percurso de vida contém as diferentes dimensões do tempo, cuja metáfora da espiral as sintetiza. Essas dimensões são representadas pelo círculo, que simboliza a circularidade do ritmo da natureza que, aos poucos, vai serem substituído pela flecha. A flecha representa a meta a ser alcançada, o progresso, a salvação. Essa dimensão se mostrou bastante útil para a religião e para a indústria na modernidade. Por último, a metáfora dos pontos que se identifica com a dimensão fragmentada e descontínua da contemporaneidade cuja perspectiva de futuro se mostra sombria, e o tempo, como uma sequência de temporalidades desconexas.
Essa pluralidade de dimensões representa a temporalidade que vive o homem. Esse, por sua vez, inunda-se de outras temporalidades, relacionadas com a condição humana e expressam o desejo do homem de fluir e resistir ao tempo. A temática do “tempo” entrelaçado à análise de experiências individuais e ações coletivas se expressa em sua multiplicidade.
O corpo também é foco de preocupação do autor, pois ele considera seu papel fundante na construção e na perda da identidade, cujas experiências estão mergulhadas em uma sociedade em constante mudança que também transforma a experiência humana do tempo. O corpo, da forma como o conhecemos hoje, como cada um o tem e que se desenvolveu desde o seu nascimento, é resultado de um processo de construção no qual está implicada a forma como o nosso contexto social e cultural pensa e se relaciona com esse corpo. Esse pressuposto nos permite admitir que o corpo se transforma continuamente através dos estímulos que recebe e se constitui através da interferência que sofre do meio em que habita. Tendo sido relegado a áreas marginais ao longo da História, no tempo contemporâneo, cresce o interesse pelo corpo, pois ele é considerado “símbolo e instrumento de comunicação e canal da nossa afetividade, é nossa propriedade única e inalienável, que permite que sejamos reconhecidos quando outras formas de identificação vacilam”.
(MELUCCI, 2004, p. 93). Ao mesmo tempo, o interesse pelo corpo responde a um apelo do mercado, elevando-o a produto, sujeito, e, ao mesmo tempo, objeto. De outro modo, olhar para o corpo, prestar atenção aos seus sinais é um modo de valorização de si. A atenção ao corpo e a busca pelo bem-estar físico pode ser uma possibilidade de encontro com a sua temporalidade e com a sua totalidade, ou seja, corpo como corporeidade. Em sua delicada atenção à corporeidade, o autor atenta para a dimensão do tempo interno que corresponde ao tempo de eros, subjetivo, descontínuo, reversível e imprevisível, que depende da percepção, das situações e das experiências de cada um. Temporalidade essa que co-habita com o tempo externo que corresponde à marcação da máquina, cujas características correspondem à linearidade, irreversibilidade, previsibilidade. Tempo interno e tempo social precisam coexistir. Muitas vezes, o tempo interno, o tempo do corpo, submete-se ao tempo social, provocando conflitos e angústia, esses gerados pelo excesso de possibilidades que nos são oferecidas e que excedem aquilo que realmente podemos viver.
Melucci nos alerta sobre as questões ecológicas argumentando que esse tema, de certa maneira, virou moda; entretanto, essa temática não apenas revela a preocupação com o planeta, mas as possibilidades de intervenção na natureza desenvolvidas pelo homem. O conhecimento científico que está à disposição da humanidade não pode retroceder. A ação humana depende desses conhecimentos, mas esses também expõem um dilema de difícil solução. Dispor desses recursos significa ampliar a possibilidade de intervir na humanidade, mas, ao mesmo tempo, responder à natureza, àquela dimensão que nos constitui como seres capazes de construir sentidos para o viver.
Através da obra o autor nos convida a viver de forma menos narcisista, que nosso percurso seja impulsionado pela busca do encontro com o outro, cujo tecido que simboliza esse encontro pode ser ricamente ornado com as relações humanas, as quais as palavras jamais serão capazes de descrever.
Referências
MELUCCI, Alberto. O jogo do Eu: a mudança de si em uma sociedade global. São Leopoldo: Ed. da Unisinos, 2004. 184 p.
Sueli Salva – Doutora em Educação pela Universidade Federal do Rio Grande do Sul (UFRGS). Professora no Departamento de Metodologia do Ensino da Universidade Federal de Santa Maria (UFSM).
Uma mulher – ALERAMO (REF)
ALERAMO, Sibilla. Uma mulher. Tradução de Marcella Mortara Rio de Janeiro: Marco Zero, 1984. Resenha de: GUERINI, Adriana Ikawa da Silveira Andrade. Sibilla Aleramo: consciência e escrita. Revista Estudos Feministas v.17 n.2 Florianópolis May/Aug. 2009.
Considerada pelo historiador Natalino Sapegno1 uma escritora que consegue, com habilidade, unir arte e autobiografia, Sibilla Aleramo (1876-1960) é uma autora italiana ainda hoje pouco conhecida no Brasil, devido principalmente à falta de traduções de suas obras. Seu único livro que chegou até nós, objeto desta resenha, é Una donna (Uma mulher), de 1906, publicado em 1984 pela editora Marco Zero, com tradução de Marcella Mortara. Embora seja um livro do início do século XX, Una donna permanece atual e mereceria uma nova tradução, como mostraremos a seguir.
Além de Una donna, seu livro mais famoso e mais comentado ainda hoje pela crítica, Sibilla tem uma vasta obra, composta de romances, poemas, ensaios, textos teatrais, cartas, anotações, diários, artigos jornalísticos e traduções. O material textual deixado por ela é imenso, a atestar uma produção incessante, em que a escrita é uma necessidade vital. Um dos principais temas de sua obra é exatamente o modo peculiar de sentir e de expressar da mulher, que na escrita sibilliana vincula-se a um movimento de tomada de consciência.
Não por acaso, Sibilla Aleramo tornou-se conhecida, sobretudo, por seu romance de estreia, Una donna,2 que começou a escrever em 1902, após abandonar marido e filho, e cuja repercussão foi imediata na Itália e nos países europeus nos quais foi traduzido.3 Tal repercussão fez-se sentir na televisão – nos anos 1970 Una donna é transformado em minissérie televisiva na RAI – e posteriormente no cinema – em 2002, o filme Un viaggio chiamato amore, baseado na correspondência entre Sibilla Aleramo e Dino Campana, é premiado no Festival de Veneza.
Alguns críticos, como Alfredo Gargiulo, consideram Una donna a bíblia do feminismo na Itália, afirmando que através dele Sibilla teria feito mais “em proveito do sexo do que tinham feito e andavam fazendo todas as feministas do mundo em conjunto”.4 Além disso, podemos dizer que Sibilla antecipa um pensamento relativo à mudança de paradigma que irá transformar a sociedade italiana na segunda metade do século XX.
Una donna é dividido em três partes, com 22 capítulos breves, e narra as vicissitudes da protagonista em ordem cronológica, da infância até o momento em que redige o livro. Na primeira parte, iniciada com uma infância feliz e livre, a protagonista narra o abalar desse mundo “perfeito”, a começar pela quebra da imagem que tinha do pai, pela revelação de uma mãe depressiva e suicida, pela experiência da violência sexual, que dá origem ao casamento arranjado para encobrir a situação, pela relação infeliz, pelo nascimento do filho e pela sua própria tentativa de suicídio. A segunda parte narra a abertura da protagonista para o mundo: o encantamento por leituras (Nietzsche, Ibsen, Whitman), o início da escrita, os primeiros contatos com as lutas sociais, com o mundo político e cultural das mulheres. A terceira parte, por sua vez, concretiza o processo de “renascimento” da protagonista iniciado na segunda parte, que, ao fim de um percurso de tomada de consciência da própria vida, transforma a sua história num “libro-verità”.
Una donna, de fato, é o relato do despertar da consciência de uma mulher através da expressão literária. É fundamental na compreensão das bases da poética da autora e marco do nascimento da identidade literária de Sibilla Aleramo, pseudônimo de Rina Faccio. Há no livro, segundo Marina Zancan, um predomínio absoluto do ‘eu narrante’: os personagens não têm nome, só são inseridos na trama da narrativa à medida que são projetados pela consciência da protagonista.5 Essa narração, em tom confessional, transforma a experiência própria em ‘obra de verdade’, revelando aquele que será um lema constante, quase obsessivo, de toda a produção artístico-existencial sibilliana: sua exigência absoluta, sua total e irredutível fidelidade à verdade, que será sempre a verdade da escritora, consequência direta do conceito de obra literária, e de literatura como um todo, de Aleramo.6
A protagonista de Una donna narra a necessidade que sentia de escrever o livro que transformaria a própria história numa história exemplar de mulher:
Un libro, il libro […] Ah, non vagheggiavo di scriverlo, no! Ma mi struggevo, certe volte, contemplando nel mio spirito la visione di quel libro che sentivo necessario, di un libro d’amore e di dolore, che fosse straziante e insieme fecondo, inesorabile e pietoso, che mostrasse al mondo intero l’anima femminile moderna, per la prima volta, e per la prima volta facesse palpitare di rimorso e di desiderio l’anima dell’uomo, del triste fratello […] Un libro che recasse tradotte tutte le idee che si agitavano in me caoticamente da due anni, e portasse l’impronta della passione.7
Para Maria Antonietta Macchiocchi, em seu prefácio político de 1973, reproduzido na edição brasileira, Uma mulher é um livro que dá “um impulso à batalha da emancipação feminina como batalha revolucionária”. Ela ainda afirma que o livro “não pertence ao passado, mas ao presente e ainda quem sabe até onde ao futuro” (p. 5). Embora essas considerações de Macchiocchi sejam feitas a partir de sua observação em relação à mulher italiana dos anos 1970, podemos dizer que Una donna é universal, pois discute a situação da emancipação da mulher dominada por aquilo que Macchiocchi chama de “moralismo pequeno-burguês e burguês, onde a moral oficial […] está, ainda hoje, na fórmula ambígua de mulher + família + educação dos filhos + paridade no trabalho e na família” (p. 5).
Sibilla desperta como escritora justamente quando os movimentos de emancipação da mulher começam a ganhar força no país8 e se distingue por não ser apenas mais uma autora, uma artista como Matilde Serao, Grazia Deledda, Vittoria Aganoor, mas também uma “reivindicadora da paridade feminina, uma rebelde”.9
Certamente Casa de bonecas, de Ibsen,10 impulsiona a escrita de Una donna. A Nora de Ibsen é uma mulher supostamente feliz, que se anula e mente para manter a segurança do status quo conquistado na vida familiar. Mas alguns acontecimentos fazem com que ela se enxergue diferente, e Nora então resolve desmascarar o escondido e seguir sua estrada, abandonando tudo, como na história de Sibilla. Ambas as protagonistas rompem a alienação familiar nesse movimento de tomada de consciência e busca da verdade, mas em Una donna se destaca a relação entre consciência e escrita – marca registrada de Sibilla, como já observado.
Outra aproximação possível em tempos distantes é a de Una donna, de Sibilla Aleramo, com os escritos de outra italiana, Natalia Ginzburg (1916-1991), principalmente os da produção teatral dos anos 60 do século passado. Natalia utiliza-se de personagens femininas submetidas à autoridade de seus maridos ou pais. De modo geral, são mulheres que veem os seus casamentos se arruinarem, ou personagens que não realizam os seus desejos de amor e de relações sentimentais. A relação entre essas personagens está ligada ao acaso e à chiacchiera, como as únicas razões de vidas cinzentas, alienantes, repetitivas, sem esperança. Além disso, Ginzburg, em suas peças, mostra a falência da família e a crise existencial da personagem feminina, tal como Sibilla.
Cecilia Casini fala da produção literária sibilliana como um “percurso de formação em ato”, aproximando-o da experiência inglesa de “Bildungsroman” (Jane Austen, George Eliot, irmãs Brontë). Nesse sentido, ela diz que Sibilla “representa bem – principalmente em Una donna e Il passaggio – uma modalidade de constituição da cultura humana, isto é, uma ‘forma simbólica’ da modernidade, permanecendo ainda hoje central na reflexão sobre a identidade literária feminina”.11
Sibilla Aleramo foi, de fato, uma das primeiras escritoras italianas a apresentar uma reflexão sobre a autonomia da expressão da mulher na escrita. A modernidade das ideias de Sibilla é, segundo Casini,12 um dos motivos principais pelos quais sua obra, ainda hoje, comove e atrai. Apesar de ser uma autora “em parte superada, irremediavelmente ‘donna dell’Ottocento'”, Aleramo difunde em seus escritos intuições sobre a condição da mulher e trata de temas universais como o amor, a escrita, a vida, que revelam um olhar moderno de uma mulher à frente de seu tempo.
Segundo Marina Zancan, Una donna é um livro difícil, que pode ser lido pelo viés das teorias feministas, psicanalíticas etc., cujo tom confessional e lírico do relato não facilita a versão do texto para outras línguas. Mas, se entendemos o traduzir mantendo a sua ordem, sem acréscimo nem omissão, sem cortes, desenvolvimento, alteração das personagens, a tradução brasileira peca por algumas omissões e cortes, talvez por falta de uma revisão mais acurada, embora isso não comprometa a compreensão do texto original.
Pela atualidade do livro, pelo fato de a autora ser desconhecida no Brasil, fruto da quase ausência de traduções de suas obras em português, e porque momentos históricos diferentes requerem uma nova tradução, seria interessante retraduzir Una donna, que não pode ser considerado um livro datado. Aliás, a modernidade de Sibilla Aleramo, e, particularmente, de Una donna, reside em abordar questões que estão além da batalha pelos direitos igualitários de sua época, antecipando um pensamento sobre a singularidade da subjetividade feminina proposto pelas feministas dos anos 1970.
Notas
1 Natalino SAPEGNO, 1975.
2 Embora a menção a Sibilla Aleramo nas histórias literárias seja bastante breve, na história literária organizada e publicada por Asor Rosa em 1995, há uma seção dedicada inteiramente a analisar os diferentes aspectos de Una donna, através do minucioso estudo de Marina Zancan.
3 Entre 1907 e 1909 o romance foi traduzido para seis línguas: francês, inglês, espanhol, alemão, russo e sueco. De acordo com as fontes consultadas (Adriana Aikawa da Silveira ANDRADE, 2009), há publicações de traduções das obras de Aleramo em francês, inglês, alemão, espanhol, grego, holandês, sueco, húngaro, dinamarquês, russo, croata, eslovaco, catalão e português. Una donna é a obra mais traduzida de Sibilla Aleramo: à parte as traduções europeias feitas nos anos imediatamente sucessivos à sua primeira edição na Itália, o livro ganhará traduções que acompanham o movimento de ‘redescoberta’ da autora nos anos 1970 e 1980 para o holandês, grego, esloveno, português, dinamarquês, além de novas traduções para o inglês, francês, espanhol e alemão. Vale lembrar que a França foi o país que traduziu praticamente toda a obra de Sibilla.
4 GARGIULO apud Emilio CECCHI, 1984, p. 194.
5 Marina ZANCAN, 2000.
6 Maria Cecilia CASINI, 2005, p. 24.
7 Sibilla ALERAMO, 2005, p. 92.
8 Vale lembrar que, embora Sibilla Aleramo já se torne conhecida ao publicar Una donna, há um movimento de redescoberta da autora quando a luta feminista está em fase mais avançada, ou seja, reivindicando o divórcio e os direitos sobre o próprio corpo. É um período de grandes mudanças na Itália: o divórcio foi legalizado no país em 1970; os métodos contraceptivos, em 1971; e em 1978, um referendum legalizou o aborto. Aqui a raiz da luta não é exatamente a emancipação feminina, mas o reconhecimento da especificidade da identidade feminina, a afirmação dos direitos singulares da mulher. Nos tempos de Una donna a luta era por direitos mais básicos, como o direito ao voto (conquistado só em 1946), à instrução (acessível a poucas) e contra a exploração da mão de obra feminina nas fábricas (no processo de modernização da sociedade italiana as mulheres inserem-se no mercado de trabalho, mas ocupam cargos desqualificados ou ganham salários inferiores, como as crianças. Ainda não estavam organizadas em sindicatos, como os homens, por exemplo).
9 CECCHI, 1984, p. 195.
10 Sibilla lê Casa de bonecas nos anos anteriores à publicação de seu romance e assiste à encenação dessa peça anos depois, nos tempos de seu ensaio “Apologia dello Spirito Femminile”, de 1911.
11 CASINI, 2005, p. 17.
12 CASINI, 2005, p. 203.
Referências
ALERAMO, Sibilla. Una donna. Milão: Feltrinelli, 2005. [ Links ]
ANDRADE, Adriana Aikawa da Silveira. Ensaios de Sibilla Aleramo: uma tradução comentada. 2009. Dissertação (Mestrado em Estudos da Tradução) – Programa de Pós-Graduação em Estudos da Tradução, Universidade Federal de Santa Catarina, Florianópolis, 2009. [ Links ]
CASINI, Maria Cecilia. Sibilla Aleramo: uma mulher escrevendo na aurora do século XX. 2005. Tese (Doutorado) – Faculdade de Filosofia, Letras e Ciências Humanas, Universidade de São Paulo, 2005. [ Links ]
CECCHI, Emilio. “Posfácio”. In: ALERAMO, Sibilla. Uma mulher. Tradução de Marcella Mortara. Rio de Janeiro: Marco Zero, 1984. p. 194. [ Links ]
SAPEGNO, Natalino. Disegno storico della letteratura italiana. Firenze: La Nuova Italia, 1975. [ Links ]
ZANCAN, Marina. “Una donna di Sibilla Aleramo”. In: ASOR ROSA, Alberto (Org.). Letteratura italiana. Le Opere. Il Novecento. Turim: Einaudi, 2000. [ Links ]
Andréia Guerini; Adriana Aikawa da Silveira Andrade – Universidade Federal de Santa Catarina.
Americanismo e fordismo – GRAMSCI (TES)
GRAMSCI, Antonio. Americanismo e fordismo. São Paulo: Hedra, 2008, 96 p. Resenha de: NEVES, Lúcia Maria Wanderley. Revista Trabalho, Educação e Saúde, Rio de Janeiro, v.7, n.1, mar./jun. 2009.
É sempre bem-vinda uma iniciativa editorial que traga às novas gerações obras marxistas em tempos de um antimarxismo explícito ou subliminar, presente na literatura, que tenta dar conta das mudanças que se processam na atualidade mundial e brasileira e que fundamenta a formação dos cientistas sociais nos anos iniciais do século XXI. Antimarxismo que vem atingindo até mesmo Antonio Gramsci, autor que, até pouco tempo, pelo menos no Brasil, era citado por um largo espectro das forças políticas nacionias.
O “Americanismo e fordismo”, título dado pelo próprio Gramsci ao Caderno 22 dos Cadernos do cárcere, em 1934, composto de 16 notas, é conhecido dos brasileiros de longa data. Ele foi editado no Brasil em 1968, pela Civilização Brasileira, na chamada edição temática, como parte do livro Maquiavel, a política e o Estado moderno, com tradução de Luiz Mário Gazzaneo. Mais recentemente, em 2001, novamente pela Civilização Brasileira, ele se inclui no volume 4, Temas de cultura, ação católica. Americanismo e fordismo, da edição brasileira da íntegra dos Cadernos do cárcere, editada por Carlos Nelson Coutinho e Luiz Sérgio Henriques.
Agora, a editora Hedra nos brinda com este trecho específico da complexa e abrangente reflexão de Antonio Gramsci, traduzido por Gabriel Bogossian, com introdução e notas técnicas dos professores Ruy Braga e Álvaro Bianchi, das universidades de São Paulo e de Campinas, respectivamente.
Este recorte feito pela editora Hedra no conjunto do universo gramsciano tem como objetivo, segundo o professor Ruy Braga, no final da introdução às notas do Caderno 22, contribuir para a reflexão sobre a atual conjuntura internacional, “no instante em que a crise econômica estadunidense catalisada pelo colapso do financiamento imobiliário subprime nos rememora aquela outra de 1929″ (p. 25).
A introdução ao texto foi dividida em duas partes, precedida de um rápido preâmbulo no qual situa a relevância atribuída por Gramsci a esse bloco histórico, denominado de americanismo e fordismo, no conjunto dos seus escritos do cárcere. Na primeira parte, intitulada “Hegemonia estadunidense”, o autor ressalta primeiramente a abrangência atribuída por Gramsci ao fenômeno do americanismo. Observa também que, por envolver as dimensões econômica, política e ideológica, este fenômeno passa a constituir-se em um novo modo de vida, profundamente imbricado na esfera produtiva com o taylorismo e o fordismo. Chama a atenção ainda para o deslocamento do eixo dinâmico da economia mundial da Europa para os Estados Unidos, provocado por este fenômeno. Salienta ainda que o marxista italiano privilegia nessas notas “a organização do trabalho e da produção social do consentimento na indústria moderna”, realçando que o fordismo, ao se expandir da fábrica para o conjunto das relações sociais de produção, propicia a criação de um novo tipo de trabalhador, conformado a partir da conjugação dos elementos da força e do consentimento. Por fim, o autor destaca ainda a percepção gramsciana de que o ‘fenômeno americano’, aparecendo como uma resposta à queda tendencial da taxa de lucro, se constitui em estratégia burguesa de superação da crise de hegemonia em processo à época.
Na segunda parte da introdução, denominada “A dialética da pacificação”, o professor Ruy Braga salienta que, no americanismo e fordismo, a burguesia estadunidense alcança sua elaboração ‘superior’, distinguindose das classes dominantes tradicionais. Essas novas frações hegemônicas fundam um novo Estado que amplia suas esferas estruturais, para além da aparelhagem estatal, com a expansão de aparelhos privados de hegemonia na sociedade civil. Esse Estado ampliado efetiva a passagem de um individualismo econômico característico das fases anteriores do capitalismo para uma economia programática, viabilizadora de novas relações sociais, baseadas no consumo de massas; aumenta a produtividade capitalista; efetiva a pacificação das classes trabalhadoras e, ao mesmo tempo, restaura a hegemonia burguesa abalada por um período significativo de crise orgânica. Salienta, por fim, na análise do americanismo e fordismo, o seu caráter de revolução passiva.
Tais observações introdutórias ao texto gramsciano levam o professor Ruy Braga a concluir que “americanismo e fordismo representam as duas faces de uma mesma moeda”: um processo de racionalização do trabalho e da produção e, ao mesmo tempo, um novo ajuste entre estrutura e superestrutura, “(…) no sentido de recompor a unidade entre as relações sociais de produção e os aparelhos de hegemonia” (p. 25).
Comparando a edição da Civilização Brasileira de Americanismo e fordismo, de 2001, com esta nova edição da editora Hedra, de 2008, podemos observar que esta última tenta atribuir maior leveza ao texto, dando às notas uma aparência de ensaio, especialmente quando traz para notas de rodapé trechos em que Gramsci intercala observações paralelas. Percebe-se, ainda, nessa perspectiva, uma tentativa de dar maior clareza aos parágrafos, subdividindo-os em frases mais curtas.
Não obstante esses recursos tornem, de fato, a leitura mais fácil e estimulante ao leitor iniciante, retiram, em parte, o caráter fragmentário da escrita das notas, característica fundamental dos Cadernos do cárcere, em que pese a robustez e a organicidade do seu pensamento.
Merecem destaque ainda, no tocante à tradução, certas discrepâncias significativas entre a edição de 2001 e a de 2008, algumas quanto à imprecisão no uso da língua portuguesa, outras no que se refere a divergências no próprio conteúdo. Essas imprecisões de conteúdo e forma podem ser verificadas, por exemplo, na nota 11, na página 71. Enquanto a editora Hedra traduziu: “O industrial americano se preocupa em manter a continuidade da eficiência física do trabalhador, da sua eficiência muscular e nervosa. É seu interesse ter uma competência estável, um complexo harmonizado permanentemente, porque até o complexo humano o coletivo trabalhador de uma grande empresa é uma máquina que não deve ser desmontada com grande freqüência, nem ver renovados os seus pedaços individuais sem grandes perdas”, a edição de 2001, na página 267, traduz esse mesmo trecho de maneira diversa, certamente mais adequada em termos conceituais: “O industrial americano se preocupa em manter a continuidade da eficiência física do trabalhador, de sua eficiência muscular-nervosa: é de seu interesse ter um quadro estável de trabalhadores qualificados, um conjunto permanente harmonizado, já que também o complexo humano (o trabalhador coletivo) de uma empresa é uma máquina que não deve ser excessivamente desmontada com freqüência ou ter suas peças individuais renovadas constantemente sem que isso provoque grandes perdas.”
Em que pese estas e outras imprecisões verificadas, esta nova tradução tem o mérito de trazer mais uma vez à tona a atualidade impressionante do pensamento gramsciano, por apontar e discutir, neste trecho e no conjunto de sua obra, temas pertinentes à pauta da agenda política mundial e nacional desses anos iniciais do século XXI, tão bem destacados pelo professor Ruy Braga na introdução.
A leitura desta nova edição deve se traduzir em um convite para um aprofundamento do estudo das idéias gramscianas, cuja obra completa está à disposição do leitor brasileiro nos dois volumes das Cartas do cárcere, nos dois volumes dos Escritos políticos e nos seis volumes dos Cadernos do cárcere, todos publicados pela editora Civilização Brasileira.
Lúcia Maria Wanderley Neves – Escola Politécnica de Saúde Joaquim Venâncio, Fiocruz, Rio de Janeiro, Brasil. E-mail: lucianeves@fiocruz.br
[MLPDB]Entre a história e a liberdade: (Luce Fabbri e o anarquismo contemporâneo) – RAGO (RBH)
RAGO, Margareth. Entre a história e a liberdade: (Luce Fabbri e o anarquismo contemporâneo). São Paulo: UNESP, 2001. 368 p. Resenha de: LEITE, Miriam Lifchitz Moreira. Revista Brasileira de História, São Paulo, v.23, n.46, 2003.
Margareth Rago teve uma oportunidade raríssima: conversar com Luce Fabbri na casa dela, em Montevidéu. Enquanto a autora italiana (1908-2000) se empenhava em terminar de escrever a biografia de seu pai, Luigi Fabbri (1877-1935), relata à brasileira etapas de sua vida e o desenvolvimento de suas idéias.
Apesar da diferença de aproximadamente 40 anos, a historiadora brasileira e a italiana tinham, como professoras universitárias, um universo de discurso comum. Partilhavam inúmeras idéias e aspirações, não só políticas como educacionais. Encontraram as condições ideais para uma troca produtiva de idéias, raramente atingida em entrevistas comuns.
Assim como a biografia de Luigi Fabbri estava inserida na história do anarquismo europeu, a de Luce insere-se na do anarquismo europeu e sul-americano. Houve, portanto, não apenas a oportunidade de comparar experiências, como também a possibilidade de discutir o processo de trabalho que estavam realizando. As duas recuperavam, através de vida intelectual, uma história de que eram representantes e que tem sido desmerecida, deformada e ocultada pela história dos poderosos.
Para Luce, os instrumentos de trabalho e as fontes provinham de amigos de infância, textos escritos, documentos recolhidos através da vida organizados por critério diversos dos da história oficial. Para Margareth Rago, com um gravador e um computador, bolsas de estudo e visitas sucessivas à casa, à biblioteca e ao arquivo de uma anfitriã erudita, tão interessada no seu, como no trabalho da jovem anarquista.
As duas estavam conscientes de estar revelando aos contemporâneos o sentido da libertação social do anarquismo, que vem sendo desprezado como utopia pré-capitalista e soterrado sob o título de utopias românticas. Esta corrente de elos históricos vem desde Malatesta (1853-1922), que no maior Congresso Anarquista, em Amsterdã, em 1907, já teria apresentado o então jovem Luigi como seu “filho.” Esta, amigo de Malatesta até a morte, encarregou-se de sua biografia. O anti-autoritarismo fundamental do anarquismo, a sua busca de uma liberdade solidária e fraternal como um meio de vida e a rejeição os poderes macros e micros da vida social vêm sendo revelados em inúmeras de suas faces por esses biógrafos sucessivos. E agora, através das línguas italiana, castelhana e portuguesa, pelas duas militantes contemporâneas.
A casa em que Luce nasceu tinha um ambiente de compreensão e liberdade sem imposições externas — nem de opiniões, nem de atitudes, nem de religiões. Eram todos antiautoritários e solidários. Nem sequer o anarquismo lhes foi imposto. O pai explicou aos filhos os seus pensamentos a respeito, pediu-lhes que refletissem sobre isso e decidissem quando se sentissem capazes de fazê-lo. Luce estudou Letras na Universidade de Bolonha e seu irmão tornou-se marceneiro, sem qualquer ingerência em suas vocações, nem apelos aos seus gêneros. O pensamento de cada um era respeitado, o que é comprovado pela contestação que Luce, ainda muito jovem, fez ao pensamento de Malatesta, já figura proclamada do pensamento anarquista.
Nessa casa de uma harmonia invejável, Luce teve contato desde muito cedo com os amigos de seu pai, um professor primário e depois secundário, criador de uma Biblioteca popular para os operários, por volta de 1917. Esses contatos constituíram um outro perfil de educação, além da educação formal pequeno-burguesa, e revelou a sua vocação teórica em trabalhos de literatura, história e crítica política que publicava nos jornais criados pelos amigos de seu pai.
O respeito a essa vocação fez com que sua mãe, e depois no Uruguai, seu marido — um operário italiano imigrado e autodidata — a eximissem das “obrigações femininas” da vida privada (com comida e crianças) para que pudesse desenvolver sua vocação. Neste sentido, não passou pelos problemas de gênero que sufocaram inúmeras feministas, proibidas de estudar, proibidas de pensar e de trabalhar fora, consideradas como elementos de Segunda classe. A questão feminina não se apresentava como prioritária em suas reflexões. Considerava que resolvido o problema social, o sexual estava automaticamente decidido. Mais tarde, retomou a questão verificando a possibilidade das mulheres, habituadas a administrar situações não-lucrativas, como cuidar de crianças, de velhos e doentes, serem mais capazes de administrar as associações solidárias.
Sofreu desde a infância as injustiças e os temores provocados pela perseguição política infringida ao seu pai pela polícia fascista. Viver vigiada pela polícia foi uma experiência de toda a vida. Seu pai perdeu o cargo de professor, conquistado em concurso, por não Ter jurado fidelidade ao fascismo italiano, o que ela veio a repetir por ocasião de seu doutoramento na Universidade de Bolonha, com uma tese sobre o geógrafo anarquista Eliseé Reclus.
Perderam assim o direito a ter passaporte, e para sobreviver foram obrigados a sair clandestinamente da Itália, através do auxílio de núcleos anarquista capazes de se articularem sob a truculenta polícia fascista.
Nas mais difíceis condições e deixando para trás o irmão, a família Fabbri emigrou para Montevidéu, onde uma grande população de italianos imigrados os acolheu e auxiliou.
Luigi Fabbri sofreu muito com o afastamento do filho e da terra em que sempre vivera e da qual se afastara obrigado. Luce ainda moça, conhecendo a língua e com um entusiasmo militante, teve condições de aproveitar as características sociais do país a que tinha chegado, com suas associações e ateneus, além de um clima bem mais ameno que o de Bolonha. Ademais, veio a encontrar aí, em sua própria casa, o marido. Trabalhou inicialmente como professora de História, e mais tarde, na Universidade, pôde voltar-se para sua paixão pela literatura italiana, que nunca a abandonara.
Em Montevidéu, formara-se a Comunidad del Sur e uma editora, a Nordan-Comunidad, que funcionavam de acordo com os princípios anarquistas, de autogestão, incorporando a tecnologia contemporânea. A liberdade individual era cultivada como meio de criatividade e desenvolvida por formas educacionais alternativas, através de jornais, panfletos e trabalhos que levavam em conta pensamentos e sentimentos dos componentes da comunidade.
Uma questão mal estudada e que preocupou Luce Fabbri foi o autodidatismo dos trabalhadores. A necessidade de absorver o conhecimento com que ela conviveu desde muito cedo e a sede de instrução que sentiu entre homens e mulheres, sem oportunidade de contar com educação formal, que freqüentavam a Biblioteca Popular, depois de um dia de dez horas de trabalho estafante, estimularam os seus esforços didáticos e suas reflexões dirigidas para a auto-educação. “Caracteres e importância del autodidactismo obrero”, que publicou em Brecha, jornal de Montevidéu, em 1998, foi apenas uma de suas abordagens desse aspecto da educação.
Intercalando as entrevistas com cenas do convívio diário, Margareth Rago nos apresenta uma obra restauradora da confiança no ser humano e em sua capacidade de viver o presente. Embora disfarce as dificuldades da tarefa interlingüística a que se propôs com um entusiasmo contagiante, é possível constatar o esforço exigido para organizar uma bio-bibliografia de tais proporções e de tal conteúdo.
Mostra claramente como a idéia de anarquismo não deve ser pensada como ponto fixo ao qual se deve chegar, mas como um caminho a seguir, como Luce escreveu em 1952, em La Strada. Esse caminho que Luce continuou a percorrer pela vida afora, sempre preocupada em inventar um presente que permitisse a descoberta e a criação de novas alternativas. O conhecimento do passado e das tradições nos é necessário como solo onde é possível enraizar-se e fortalecer-se, para politizar constantemente as palavras e reconhecer o seu poder e a magia da produção poética por sua capacidade criadora. Ao trabalhar sobre a reforma do secundário, insistiu no ensino da língua castelhana em todos os graus, como o grande instrumento de comunicação e congraçamento.
Escrito como tese para obtenção do título de livre-docência, ele deve ser lido mais como um ato de militância e de esperança no momento presente.
Miriam Lifchitz Moreira Leite – Universidade de São Paulo.
[IF]La terra abitata dagli uomini – BRUSA et al (CC)
BRUSA, Antonio; BRUSA, Anna; CECALUPO, Marco. La terra abitata dagli uomini. Bari, Irrsae Puglia: Progedit, 2000, 205p. Resenha de: HEIMBERG, Charles. Le cartable de Clio – Revue romande et tessinoise sur les didactiques de l’histoire, Lausanne, n.3, p.326, 2003.
Cet ouvrage traite de l’histoire enseignée sous l’angle de l’éducation interculturelle. La réalité du fait migratoire dans les écoles italiennes est relativement récente et n’a pas manqué de provoquer une large réflexion du monde de l’éducation sur la manière de s’adresser à tous les élèves qui sont désormais présents dans les classes. Mais le rôle de l’histoire scolaire pour les processus interculturels, dans un premier temps, est demeuré occulté. Dans son introduction, Antonio Brusa explique en quoi il est pourtant essentiel, et évoque ce qui a été fait depuis lors en la matière. L’ajout de nouvelles thématiques dans les programmes a d’abord provoque une telle surcharge qu’il a bien fallu se résigner à repenser l’ ensembre du curriculum. La réflexions est malheureusement déroulée em dehors des structures universitaires, mais elle a permis de remettre enfin en cause un récit linéaire et seulement européen de l’histoire humaine. De fait, le dépassement d’une histoire ethnocentrique et le développement d’une histoire qui tienne bien compte de la dimension mondiale sont équivalents, dans le domaine de l’histoire, à ce que représente l’antiracisme dans l’espace public.
Le schéma traditionnel et linéaire de l’histoire ne comprend aucune donnée spatiale, il se déroule à partir d’un lieu donné sans prendre suffisamment en considération des tableaux synchroniques du monde, sans interroger l’altérité dans la contemporanéité. En outre, ce grand récit pourrait être repensé autour des trois modèles d’organisation sociale que séparent les deux grands changements ayant marqué l’histoire de l’humanité, la révolution néolithique et l’industrialisation. La reconstruction de l’histoire enseignée par des synthèses globales et des récits qui les donnent à voir permet aussi de faire construire une grammaire de l’histoire et d’exercer des activités dans ce sens. Une typologie des exercices que l’on peut développer en classe d’histoire est ainsi proposée. De même que des exemples de jeux de rôles ou de simulation qui permettent aux élèves de construire des connaissances d’histoire sur des thèmes très variés.
Ce volume, avec les nombreux exemples didactiques qu’il présente, concerne avant tout la scolarité obligatoire, soit l’enseignement primaire et l’école moyenne. Sa dernière partie suggère toute une série d’activités scolaires qui peuvent être développées dans le cadre du « laboratoire d’histoire ». Il dégage ainsi de nouvelles perspectives pour l’histoire enseignée qui sont vraiment très stimulantes.
Charles Heimberg – Institut de Formation des Maîtres (IFMES), Genève.
[IF]Anarquismo, Estado e pastoral do imigrante. Das disputas ideológicas pelo imigrante aos limites da ordem: o caso Idalina – SOUZA (RBH)
SOUZA, Wlaumir Donizeti de. Anarquismo, Estado e pastoral do imigrante. Das disputas ideológicas pelo imigrante aos limites da ordem: o caso Idalina. Sn. Editora da Unesp, 2000. 243p. Resenha de: ALMEIDA, Vasni de. Revista Brasileira de História, São Paulo, v.22, n.44, 2002.
Um bom estudo em ciências humanas, um estudo histórico em particular, ganha relevância ao primar por dois aspectos: a preocupação com as mudanças que marcam uma sociedade numa determinada trajetória histórica e a atenção redobrada com as alterações verificadas nas instituições inseridas e ativas nesse processo de transformação1. Um tratamento cuidadoso para com as redes de interdependências entre diferentes grupos no estabelecimento de uma nova ordem social e cultural e para com os rearranjos internos que acompanham cada um dos grupos envolvidos aponta para a eficácia de um estudo acadêmico transformado em publicação. Esse é o caso do livro de Wlaumir Donizeti de Souza, voltado para a imigração italiana para o Brasil, ocorrida entre a segunda metade do século XIX e os primeiros decênios do século XX. Transição da monarquia para o sistema republicano de governo, a imigração como fator de mudança cultural e social e os elementos sociais em conflito (Estado, catolicismo e anarquismo) formam o esteio da obra.
Procurando se desvincular das armadilhas que tendem a estreitar “o leito do rio”, o autor verificou e destacou a intrincada teia de interesses desse significativo período de mudanças políticas e culturais pelo qual passou o País. Seu olhar esteve atento para as ações da Igreja Católica em relação às forças sociais externas a ela e em relação aos “catolicismos” coexistentes na sua esfera interna. Da mesma forma, sua atenção se voltou para os movimentos anarquistas em suas relações com o poder social do catolicismo, notadamente no que tange ao trato com o imigrante. Completando as forças que se locomoviam ao redor do trabalhador imigrante, estava o agricultor contratador de mão-de-obra. Esses são os elementos básicos que compõem a trama tecida pelo autor.
Para Donizeti de Souza, a população imigrante italiana, contratada para trabalhar no Brasil a partir da segunda metade do século XIX, foi instrumentalizada pelo catolicismo ultramontano, com a Igreja Católica buscando influenciar a política imigratória num período em que se aproximava o rompimento formal e tardio entre essa religião e o Estado brasileiro. Na tentativa de estabelecer os critérios para a arregimentação de trabalhadores, o catolicismo romanizado estimulou a elaboração de pastorais voltadas para o enquadramento do imigrante, tendo em vista o seu projeto religioso e político. Aos scalabrinianos, instituição missionária fundada em 1887, por dom Giovanni Baptista Scalabrini, religioso com larga experiência no trato com os postulantes `a imigração nas suas cidades de origem, coube essa tarefa. Para sustentar sua análise, o autor se apega ao conceito de imigrante ideal, ou seja, um trabalhador lapidado para atender a interesses econômicos políticos dos grupos que pensavam no sentido de nação, que então se desenhava lentamente, tanto na visão de fazendeiros quanto na de políticos de linhagem conservadora. O imigrante ideal seria aquele comprometido com os laços culturais e religiosos propostos na perspectiva romana de sociedade e indivíduo, imagem idealizada também pela oligarquia que o contratava. Para os fazendeiros, o estrangeiro contratado deveria ser “dócil, ordeiro, familiar e trabalhador”, uma mão-de-obra com as marcas da “resignação”. Na visão do poder religioso ultramontano, caberia ao catolicismo a moldagem do imigrante que satisfizesse os requisitos dos contratantes. O autor aponta com acuidade a conexidade entre o ideal de trabalhador desenvolvido pelo catolicismo romano e o tipo de trabalhador procurado pelo coronel para ser empregado na lavoura. Os dois ansiavam por trabalhadores obedientes. Quais as pretensões de um catolicismo que se via ameaçado por intrincada e complexa rede de inimigos, dentre os quais podemos encontrar os anarquistas, os maçons, os políticos liberais e os protestantes? Donizeti de Souza responde sem mais delongas: ser fonte inspiradora da cidadania brasileira e fonte única de unidade nacional. Enquanto o chefe local buscava aumentar o lucro (com a devida ordem) na unidade agrícola, o catolicismo buscava forjar, sob seus auspícios, a unidade cultural e religiosa do País. O que um fazendeiro esperava de um padre era que este ressaltasse “as obrigações morais do empregado para com o patrão, seu dever de obediência, de humildade, de docilidade e resignação, aceitando sua situação como desígnio divino, uma vez que a ordem social era por ele estabelecida”.
Da sua parte, o ultramontanismo pretendia, além das prerrogativas políticas e econômicas, enquadrar religiosamente o colono do interior do País, pouco afinado com as doutrinas da Igreja, procurando “instar um tempo sem magia”. Sendo assim, os scalabrinianos foram os designados para acompanhar o homem católico, desde a partida até sua instalação definitiva na sociedade hospedeira, isso dada a experiência acumulada por esses religiosos na missão junto ao imigrante. Na visão dos scalabrinianos, a religião seria um fator de patriotismo e de princípios civilizadores para os imigrantes em terras brasileiras. No entanto, como acontece em todos os processos de incursões missionárias, o agente não fica incólume na sociedade envolvente, não tardando muito para que esses religiosos percebecessem os fatores complicadores de sua missão. Havia inúmeras dificuldades em implantar o projeto de pastoral de imigrante: falta de padres, custo das viagens de religiosos, descontinuidade na formação de trabalhadores contratados. Padres ávidos por lucros, ostentadores, boêmios, apresentavam-se também como percalços na organização de uma pastoral alicerçada no ultramontanismo.
Os scalabrinianos, assim, tencionavam atuar junto ao imigrante italiano com maior independência possível do clero local, dada a influência que esse exercia junto às populações interioranas e por serem poucos afeitos às exigências de um catolicismo disciplinador. A religiosidade praticada em regiões distantes dos grandes centros, com a complacência dos padres, poderia colocar em risco o projeto educacional que pretendiam implantar. As divergências entre os scalabrinianos e padres das paróquias logo emergiram e são reveladoras dos embates internos no seio de um catolicismo que atuava numa sociedade que passava por profundas transformações, tanto na esfera política quanto na cultural. Em determinado momento da missão dos scalabrinianos no Brasil, mais precisamente no período em que o padre Cansoni esteve no País, a ordem foi aconselhada a assumir paróquias, onde o sustento seria mais viável. Isso porque a inquietude entre o clero nacional e o ultramontano estava se tornando visível, com os primeiros cada vez mais resistentes à presença da ordem em sua área de atuação, já que esta tinha a liberdade de acompanhar os imigrantes em qualquer paróquia, mesmo sem estar comprometida com ela.
Uma proposta de Domenico Vicentine, substituto de Scalabrini na condução da ordem, restringia a missão dos carlistas à formação de quadros para o serviço junto aos imigrantes, cabendo aos bispos das dioceses a administração da política pastoral ao imigrante. Na verdade, o clero nacional pretendia enquadrar os scalabrinianos nas estruturas das paróquias, impedindo assim que a missão junto aos imigrantes invadisse a jurisdição das dioceses, o que contrariava a intenção da ordem, que era a de agir sem necessariamente estar vinculado às estruturas eclesiais vigentes. Percebendo as dificuldades em atuar na jurisdição das paróquias, os scalabrinianos fundaram um orfanato cujo objetivo seria o de amparar crianças órfãs que vagavam pelas ruas (esquálidas, tristes, fracas e miseráveis), preparando-as para o trabalho e para serem “bons cidadãos” e “cidadãs”. Utilizando como recurso de convencimento o fato de o orfanato ser um espaço de formação de crianças desvalidas, moldando-as para o trabalho, os scalabrinianos obtiveram dos fazendeiros o apoio necessário para a implantação do projeto, conseqüentemente, da estruturação da ordem no País. Lembra o autor que os orfanatos constituíam-se através de uma mentalidade tridentina, fato que mais uma vez denota a tentativa de romanização do imigrante por meio da ação educacional.Ao saírem em missão para angariar fundos para o orfanato, os padres scalabrinianos batizavam, ouviam confissões, faziam casamentos, enfim, atrelavam a proposta educacional à estruturação da ordem, funcionando o orfanato como um ponto estabilizador das missões.
O autor destaca que os scalabrinianos foram acossados, no final do processo imigratório, em três frentes: na primeira, pela oligarquia, já que o imigrante não mais se apresentava como um investimento seguro; na segunda, pelos párocos locais, temerosos de perder a arrecadação junto aos poucos imigrantes que ainda entravam no país; na terceira, sofria a concorrência dos anarquistas e dos maçons. Nessas frentes de combate, a que mais merecia atenção por parte do clero romano era a política desencadeada pelos anarquistas juntos aos imigrantes.
A celeuma entre a ordem scalabriniana e grupos anarquistas, na atuação junto aos imigrantes, mereceu por parte do autor um capítulo à parte. De posse de um documento desses religiosos sobre o desaparecimento de uma das internas do orfanato, Donizeti de Souza rastreou em publicações anarquistas o mesmo assunto. Nas leituras dos periódicos, percebeu com perspicácia a disputa que se travava entre o movimento político anarquista e o movimento religioso católico ultramontano pelo controle do imigrante. Tencionando alcançar o monopólio do acompanhamento ao imigrante em diversas regiões do País, as duas partes procuravam atingir a imagem do outro perante a opinião pública e perante o Estado. Não foi intenção do autor apontar o desenlace da trama envolvendo a menina Idalina, personagem central da discórdia, o que certamente o faria enveredar para um texto novelesco, tão em moda na historiografia atual. Antes, sua atenção esteve voltada para a distinção dos elementos em conflito, fazendo de sua obra uma possibilidade de compreensão dos interesses de instituições nas formulações ideológicas de um período que ainda carece de novos estudos.
Resta apontar os complicadores das considerações de Donizeti de Souza, que são de duas ordens: a primeira diz respeito à afirmação de que a intenção dos scalabrinianos era a de constituir, nas pequenas cidades em ascensão, dada a presença do imigrante italiano, “pequenas itálias”; o segundo complicador desse texto bem articulado reside na afirmação do autor de que no projeto dos religiosos estava embutido um projeto “neocolonial”. Não estariam essas responsabilidades aquém das forças de uma ordem religiosa que não se configurava entre as mais influentes dentre o escopo missionário católico, tanto no Império quanto na Primeira República?
Para além desse pequeno deslize (se é possível considerar como tal uma afirmação que não compromete o texto), essa obra é um alerta para quem reduz aos liberais, à maçonaria e ao protestantismo a capacitação de indivíduos voltados para uma sociedade ordeira e laboriosa, quesitos básicos para a consolidação da República. Em se tratando de moralização de condutas, as intenções de protestantes, católicos e maçons não eram tão díspares quanto podem parecer numa análise estreita. Os ultramontanos buscavam com disposição instilar o rigor disciplinar entre os trabalhadores imigrantes tendo em vista a composição de uma nova ordem social, um tanto quanto ameaçada pelos ideais políticos anarquistas, dos quais os italianos não estavam distantes.
Notas
1 Temos em mente, quando sinalizamos para a rede de interdependências em processos de mudanças (ou de desenvolvimento), as concepções teóricas de Norbert Elias sobre transformações sociais no processo civilizador. O processo civilizador. Rio de Janeiro: Jorge Zahar, 1993, vol. 1.
Vasni de Almeida – Doutorando em História-UNESP/Assis.
[IF]Insegnare storia. Riflessioni a margine di un’esperienza di formazione – BALDOCCHI et al (CC)
BALDOCCHI, Umberto; BUCCIARELLI, Stefano; SODI, Stefano (a cura di). Insegnare storia. Riflessioni a margine di un’esperienza di formazione. Pise: Edizioni ETS, 2002. 278p. Resenha de: HEIMBERG, Charles. Le cartable de Clio – Revue romande et tessinoise sur les didactiques de l’histoire, Lausanne, n.2, p.288-290, 2002.
Enseigner l’histoire, tel est le thème de cet ouvrage collectif qui émane des activités de formation des maîtres des Ecoles de spécialisation de l’enseignement secondaire (les SSIS, selon les initiales de leur dénomination italienne) de la région toscane (soit les antennes de Florence, de Sienne et de Pise). A travers de courtes mais riches contributions – beaucoup ont été rédigées par les trois coordinateurs du livre, mais leurs réflexions sont encore prolongées par de nombreuses interventions ponctuelles de chercheurs universitaires ou de spécialistes de questions particulières – c’est un véritable tour de la question, une évocation systématique, mais synthétique, des problèmes posés par la formation didactique en histoire qui est proposé aux lecteurs.
Ce regard italien sur la formation professionnelle des maîtres d’histoire de l’enseignement secondaire est évidemment inscrit dans un contexte particulier qui exerce largement son influence sur la problématique qui est décrite. Mais cela donne d’autant plus de sens, au-delà des différences culturelles, et malgré un cadre institutionnel fort différent, à toute une série de points communs, de difficultés partagées ou d’interrogations de nature analogue qui peuventêtre identifiées au fil de ces pages. Notamment au fait que, dans l’enseignement secondaire, ceux qui enseignent l’histoire enseignent aussi d’autres disciplines qui prennent souvent plus de place dans les esprits, ce qui ne les pousse pas spontanément à affronter la complexité réelle de l’enseignement de cette discipline.
Les grands chapitres proposés évoquent tour à tour les dimensions spatiales de l’histoire enseignée, sa programmation annuelle, les problèmes posés par les manuels scolaires, l’usage didactique des sources, celui des instruments électroniques de communication et les dimensions culturelles de l’histoire enseignée. Des questions aussi fondamentales que l’utilisation des sources orales, les réflexions sur l’historiographie et son histoire, ou l’éducation à la citoyenneté, font par ailleurs l’objet de développements particuliers.
Quelques options fortes de ce recueil d’articles méritent d’être soulignées en tant que telles, mais aussi parce qu’elles font largement écho à nos réflexions suisses-romandes ou francophones. Ainsi Mauro Ronzani insiste-t-il avec raison sur l’intérêt d’un usage didactique direct de sources historiques. Et Gaetano Greco sur l’intérêt d’une prise en considération de l’histoire de l’histoire, tout comme de celle de l’enseignement de l’histoire, pour la formation initiale des maîtres. Les pages sur la dimension spatiale de l’histoire enseignée plaident pour une pluralité de ces échelles en montrant surtout la nécessité d’éviter des trous noirs (l’absence de toute dimension régionale, celle de toute perspective extra-européenne, etc.). Et si Umberto Baldocchi insiste sur la nécessité de développer une véritable histoire européenne, ou même pan-européenne, les auteurs insistent tous sur la nécessité de concevoir une histoire globale qui sache concilier le particulier et le général en faisant interagir les différentes échelles considérées.
L’enseignant d’histoire est de plus en plus confronté à la nécessité de programmer son enseignement en fonction d’un certain nombre de critères, finalités et consignes. La recherche italienne en matière de didactique de l’histoire a développé la perspective de programmation modulaire de l’histoire enseignée. Ainsi un module, unité d’enseignement-apprentissage qui traite d’une manière globale un thème d’histoire dans un contexte donné, peut-il comprendre plusieurs unités didactiques et durer jusqu’à deux ou trois mois. S’il s’agit bien par-là de rompre avec une histoire narrative, linéaire et encyclopédique, ce n’est pas pour autant un renversement de l’histoire enseignée ne privilégiant que l’entrée thématique et conceptuelle. De fait, notamment parce que la dimension diachronique et temporelle ne doit pas être évacuée, beaucoup d’enseignants pratiquent déjà sans le revendiquer, ni parfois le savoir, un enseignement-apprentissage de l’histoire qui va dans le sens de cette vision modulaire.
La question des manuels scolaires est évidemment significative. Du point de vue historique, il est fait mention d’une enquête d’Antonio Brusa montrant qu’au cours des années soixante, les manuels italiens étaient passés d’une fonction strictement narrative, l’enseignant devant raconter l’histoire avec le manuel, à une fonction documentaire, les élèves devant lire eux-mêmes le manuel et apprendre à utiliser un appareil éditorial (titres et sous-titres, glossaires, renvois de pages, etc.) toujours plus complexe. Et Umberto Baldocchi note en particulier que le paradigme romantico-national sur lequel ces manuels étaient basés induisit également, et pendant longtemps, une toute-puissance de la causalité qui empêchait de donner à voir dans l’histoire l’existence d’acteurs tentant librement d’agir sur le cours des événements ; et une conception très simplifiée de cette causalité (d’où le piège de la cause unique, notamment en l’absence de toute vision complexe et systémique des relations internationales dans l’exemple de la Grande Guerre). Cependant, le contenu de ces manuels ne dit pas tout, loin s’en faut, des pratiques réelles en classe. Aussi Stefano Sodi, à partir d’une analyse typologique et critique des manuels disponibles, évoque-t-il de son côté quelques manières dont ils pourraient être utilisés à bon escient.
L’ouvrage comprend des exemples de modules d’enseignement-apprentissage, ainsi que des propositions de sources pouvant faire l’objet d’unités didactiques. Dans une section consacrée à l’enseignement de l’historiographie, et à propos de l’origine du capitalisme, Alberta Patacchini développe en particulier la manière dont les élèves pourraient être amenés à comparer, en les schématisant, des points de vue différents sur tel ou tel phénomène historique. Enfin, la question des images, qui peuvent être à la fois des documents d’histoire et des supports pour la raconter, est traitée par Luca Baldassira qui insiste à juste titre sur les problèmes nouveaux qu’elles posent à la notion de vérité en histoire.
La dernière section de l’ouvrage regroupe deux thèmes tout à fait essentiels, mais sous l’étrange intitulé commun de dimension culturelle de l’histoire enseignée. Ainsi l’intérêt d’une histoire des genres, et pas seulement d’une histoire des femmes, comme prise en compte des interactions sociales liées aux sexes dans toute société humaine est-il notamment défendu avec pertinence par Simonetta Soldani. Alors que les débats italiens sur l’éducation civique sont également évoqués.
Plusieurs auteurs font allusion à des faits d’actualité qui ont marqué l’histoire scolaire italienne de ces dernières années: la volonté – absolument indéfendable dans une démocratie digne de ce nom – de certaines instances politiques de pratiquer une censure sur les manuels d’histoire pour décider elles-mêmes de leur contenu, surtout en matière d’histoire contemporaine ; le décret ministériel qui renforça il y a quelques années l’enseignement de l’histoire du XXe siècle en prévoyant de lui consacrer la dernière année de chaque cycle de formation ; le projet de nouveau curriculum de l’histoire enseignée, rejeté en fin de compte par le nouveau gouvernement, qui prévoyait de ne plus répéter à plusieurs reprises un enseignement chronologique de l’histoire et fit l’objet de réactions très contrastées parmi les historiens (voir les deux pétitions publiées dans le n° 1 du cartable de Clio, ainsi que l’article de Luigi Cajani et le projet de curriculum italien dans le présent volume).
Cette vision d’ensemble de l’histoire enseignée et des problèmes qu’elle pose dans une perspective de formation des maîtres, qui est bien sûr trop succinctement présentée ici, est donc des plus intéressante. Peut-être la définition même de l’histoire, c’est-à-dire l’explicitation de son apport spécifique au regard critique sur le monde qui devrait se construire au cours du cursus scolaire aurait-elle pu être développée avec plus de précision. Mais cette question de la nature de la pensée historique en matière d’enseignement-apprentissage devrait sans doute faire l’objet d’un vaste débat international, dans une perspective comparative. Ce à quoi cette très intéressante publication toscane ne pourra que contribuer utilement.
Charles Heimberg – Institut de formation des maîtres (IFMES), Genève.
[IF]Uncertain Refuge: Italy and the Jews During the Holocaust – CARACCIOLO (CSS)
CARACCIOLO, Nicola. Uncertain Refuge: Italy and the Jews During the Holocaust. Urbana and Chicago: University of Illinois Press, 1995. 176p. Resenha de: TOTTEN, Samuel. Canadian Social Studies, v.35, n.1, 2000.
Uncertain Refuge is a fascinating book. Comprised of a series of interviews conducted by Italian journalist Nicola Caracciolo of more than sixty Italian Jewish survivors and some of their rescuers, this book explores the complex and unique way the state of Italy and the Italian people reacted to Nazi pressure to ostracize, isolate, and expel Jews to Nazi-dominated territories. The interviewees talk about how Jews were harassed, denounced, terrorized and, in some cases, saved. The cumulative effect of the interviews provide a telling picture as to why and how in Italy, an ally of Germany, 42,000 of the 50,000 Jews survived the Nazis’ efforts to murder them.
The annotation of the interviews constitutes a particular strength. Such annotations are helpful in assisting readers to gain a clearer and more in-depth understanding of certain personages, events, situations, and organizations. While the book also includes an appendix, “Historical Personnel, Organizations, and Places”, in which the annotations are located, an introduction to each interview establishing the historical context vis-à-vis the information contained therein would have been helpful.
In places Caracciolo has the unfortunate habit of interrupting the interviewees in mid-sentence. Over and above that, he often neglects to bring the interviewee back to the point of interruption, thus losing key information. At times, he also tends to ask two questions at once, and then neglects to answer both. In some instances, he also neglects to ask follow-up questions, thus leaving the reader wondering about certain issues.
All-in-all, though, this is an informative and interesting book on a significant topic. For those teachers who are intent on ‘complicating’ the study of history for their students, this book is a must. It will avail students of the important point that not all countries or people reacted in the same way to the Holocaust; and that, in fact, various circumstances, perspectives and belief systems dictated how governments and individuals acted under varying conditions.
Samuel Totten – University of Arkansas, Fayetteville.
[IF]
La Crisis 1898 – VILLAR (PR)
VILAR, J.B. (DIR). Anales de Historia Contemporanea, n.14. Monográfico sobre: La Crisis 1898, MURCIA, 1999. Departamento de Historia Moderna Contemporánea y de América, Servicio de Publicacion esd e la Universidad de Murcia, Murcia, 1999. Resenha de: PEREZ, M. C. Panta Rei – Revista de Ciencia Y Didáctica de la Historia, Murcia, n.4, p. 1998.
Anales de Historia Contemporánea realiza un estudio sobre la crisis del 98 con motivo del centenario de la pérdida colonial en América y el Pacífico. Los autores han pretendido hacer unapuesta al día de cómo marcha la investigación tras los numerosos encuentros científicos que hantenido lugar en los últimos años. Para ello se han servido de reediciones de textos contemporáneos alos hechos, o los novedosos estudios informatizados, exposiciones, prensa y televisión.
La obra cuenta con la participación de investigadores de diversas universidades españolas (Murcia,Madrid, Cantabria) y de otras instituciones (Archivos Históricos locales y nacionales) que nosaportan variedades de miras según las fuentes de las cuales se han servido (archivos, biografías,oralidad, cine…).
De la siguiente manera se divide el monográfico; un primer apartado dedicado a “Corrientes de Interpretación y Fuentes” (págs. 17-73), donde hay varios niveles de análisis: seguimientohistoriográfico de lo que supuso el 98, acercamiento a la época durante el franquismo a través de losrecuerdos y memoria de los protagonistas y crítica de los fondos de archivos provinciales ygenerales, fuentes inéditas y esenciales para entender la historia de la Península en el contexto americano.
El segundo apartado lleva por título “El Marco Internacional” (págs. 77-175), y se centra en la diplomacia española con las potencias extranjeras de EE.UU. y Europa (Italia, Austria-Hungría,Alemania y Francia) en el entorno americano, asiático y africano.
“Del Marco Nacional al Regional” (págs. 179-294) es el siguiente guión, donde se insiste en el devenir de los acontecimientos en la fecha de 1898 (conflictos, crisis – a nivel político(regeneracionismo), religioso (implantación de minorías protestantes)-, y los efectos sentidos de esos cambio en Murcia).
Se añaden otras dos partes, “Varia” (págs. 297-391) dedicada a temas regionales y nacionales, y “Bibliografía” (págs. 393-433) con casillas de estudios críticos, recensiones y bibliografías.
C. Pérez Almagro
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Population Politics in Twentieth-Century Europe. Fascist Dictatorships and Liberal Democracies – QUINE (VH)
QUINE, Maria Sophia. Population Politics in Twentieth-Century Europe. Fascist Dictatorships and Liberal Democracies. London: Routledge, 1996. Resenha de: FARIA, Carlos Aurélio Pimenta de. Varia História, Belo Horizonte, v.13, n.17, p. 282-287, mar., 1997.
É fato reconhecido que os historiadores têm hesitado em penetrar em uma seara praticamente monopolizada por sociólogos, cientistas políticos e economistas, qual seja, a área de estudos que constitui uma verdadeira indústria de pesquisa sobre o wefare state. Sob a égide dos auto-denominados ” hard scientists”, a teorização sobre a origem e expansão do Estado de Bem-Estar Social, partindo da tese conhecida como “lógica da industrialização”, passando pela argumentação marxista e pela “lógica dos recursos de poder” (que destaca o papel dos movimentos sindicais e dos partidos trabalhistas), desembocou na hoje prevalecente elaboração “neo-institucionalista”. Essa teorização, tantalizada pela regularidade, tem relegado a um segundo plano elementos que constituem a verdadeira essência do ofício do historiador: a temporal idade e as particularidades. As explicações genéricas desenvolvidas para elucidar a conformação do wefare state têm tomado como variáveis o processo de industrialização e modernização, a democracia, o capitalismo, a competição partidária e os grupos de interesse. Sua aversão à contextualização, informada pela busca de fatores generalizantes e universalmente aplicáveis, mostra-se flexível apenas no consenso sobre a utilidade de se estabelecerem tipologias dos Estados de Bem-Estar Social.
Não nos cabe aqui listar os sucessos recentes daqueles historiadores que “ousaram” cruzar as fronteiras. Talvez possamos apenas, de passagem, endossar a sugestão de Peter Baldwin, para quem o “temor” da historiografia em fazer sua a temática talvez se deva, em parte, ao “inevitável atraso com o qual os historiadores respondem aos tópicos” (“The Welfare State for Historians. A Review Article”. Compara tive Study of Society and History, Vo1. 34, No 4, 1992, pp.695-707).
Contudo, mesmo que essa não seja uma ambição explícita do trabalho de Maria Sophia Ouine, que leciona História Européia Moderna na Universidade de Londres, fato é que seu Population Politics in TwentiethCentury Europe cumpre bem o papel de alertar para o fato de que a historiografia tem muito a contribuir para a compreensão das origens e do desenvolvimento do Estado de Bem-Estar Social. Na verdade, a contribuição de Ouine nesse sentido é apenas implícita, uma vez que a autora, através de uma análise apurada das políticas populacionais implementadas na Itália, na França e na Alemanha na primeira metade deste século, procura apontar as distintas soluções nacionais a um problema comum aos países mais industrializados da Europa Ocidental: a acentuada queda na taxa de natalidade.
É possível dizer que, em todos os países envolvidos, o fenômeno desencadeou acalorados debates que, em graus diferentes, se nortearam por questões da seguinte ordem: considerações militares e estratégicas, o recorrente temor quanto à “extinção da raça” e ao declínio da nação, ataques ao neo-malthusianismo, o papel dos princípios religiosos e da eugenia na reversão do processo de declínio das taxas de natalidade, a central idade da família enquanto instituição social, a revalorização da maternidade e a expansão dos mecanismos de seguridade social visando proteger crianças e mães e redistribuir os custos envolvidos na manutenção de uma família. Contudo, a perspectiva historiográfica deixa evidente o fato de as políticas populacionais discutidas e implementadas terem englobado mais que políticas familiares de incentivo à natalidade ou políticas sociais que lançariam as bases da cidadania social marshalliana. O foco do trabalho de Ouine é exatamente o papel crucial das diversas políticas populacionais nos projetos de “reconstrução nacional” da Itália de Mussolini, da Terceira República francesa e do Terceiro Reich.
Em uma concisa introdução, precedendo os estudos de caso, a autora discute o impacto da pessimista teorização de Malthus acerca do inevitável desequilíbrio entre a produção de alimentos e o crescimento populacional, a influência do neo-malthusianismo e o pânico alarmista, já nas últimas décadas do secúlo XIX, quanto ao espectro do “despovoamento” nacional, uma vez que o declínio acentuado das taxas de natalidade, a partir da década de 1870, passou a eclipsar qualquer temor quanto a uma eventual super-população.
Uma vez que a ênfase no pró-natalismo da Terceira República tem sido o objeto de inumeráveis estudos, a grande originalidade do trabalho em questão talvez resida na comparação das políticas de incentivo à natalidade implementadas no Terceiro Reich com aquelas advogadas pelo regime de Mussolini. É certo que a historiografia ainda não chegou a um consenso quanto à natureza do processo que culminou na Endíosung, a “Solução Final” de extermínio em massa dos judeus e demais “indejesados”. Sem se furtar ao polêmico debate, Maria Ouine encontrou uma solução engenhosa, que não pretende endossar de maneira conclusiva qualquer das posições em contenda. Alertando quanto às armadilhas do “revisionismo” em curso, a autora emprega, de maneira quase intuitiva, um instrumento heurístico eficaz, qual seja, a distinção entre propostas e medidas populacionais “positivas” ou “negativas”.
Apesar da natural repulsa quanto às consequências nefastas da política racial do Terceiro Reich, classificada como “negativa”, a distinção proposta não se prende a julgamentos de valor, atendo-se a aspectos essencialmente quantitativos. “Positivas” são as medidas de incentivo à natalidade, tais como salários família, exames pré-natal gratuitos, acompanhamento médico aos recém-nascidos, creches, prêmios honoríficos ou em dinheiro para famílias numerosas e qualquer outro auxílio financeiro às famílias. “Negativas” são as medidas que procuram restringir a fertilidade, como a divulgação de métodos contraceptivos, a liberalização do aborto e, também, medidas como a esterilização compulsória e outras dirigidas a grupos sociais específicos.
Na Itália de Mussolini, as políticas populacionais foram ativadas muito mais devido às consequências da Primeira Guerra Mundial do que por qualquer persistente e alarmante queda nas taxas de natalidade. A hostilidade gerada pelo neo-malthusianismo na Itália, com sua propaganda dos meios contraceptivos, deveu-se, segundo Ouine, não à força crescente do movimento, mas sim à aguda ambivalência de se discutir abertamente o significado social da sexualidade e da reprodução em um país onde o catolicismo sempre teve raízes tão profundas. As idéias que vertebraram a política populacional de Mussolini foram derivadas de uma peculiar eugenia que, em vez de preconizar a “procriação seletiva”, desejava encorajar a classe trabalhadora a procriar ainda mais. O movimento eugênico italiano era nitidamente pró-natalista e favorável à estruturação de um aparato de seguridade social capaz de amparar mães e crianças. A frustração dos anseios imperialistas italianos responderia por boa parte do pró-natalismo do movimento eugênico no país, bem como pelas políticas populacionais do fascismo.
A faceta assistencialista das políticas populacionais do Duce baseava-se na premissa, defendida pela Sociedade Eugênica Italiana, fundada em 1912, segundo a qual devem ser dadas aos cidadãos recompensas materiais na forma de benefícios sociais e isenções fiscais que possam induzi-Ios a cumprir sua “obrigação cívica” de procriar prolificamente. Como, segundo o suposto, povo fértil é povo robusto, as políticas populacionais do fascismo passaram a enfatizar tanto a “quantidade” como a “qualidade”.
Autores pró-natalistas italianos, além de enfatizar questões militares e estratégicas em sua defesa da necessidade de se elevarem as taxas de natalidade, chegaram mesmo a reverter o argumento de Malthus e destacar que a auto-suficiência na produção de alimentos e a aceleração do processo de industrialização só seriam possíveis com o aumento da população. O investimento em “capital humano” compensaria o país por sua carência de recursos. O título de um ensaio de Mussolini de 1928 sumariza bem o raciocínio: “Números como Força”.
Buscando capitalizar a generalizada frustração nacionalista dos italianos, o pró-natalismo, que cruzava fronteiras partidárias e ideológicas, tornou-se política oficial do regime fascista, servindo de mediador das relações entre o Estado e a sociedade. A “ressureição nacional” preconizada pelo fascismo, galvanizadora da legitimidade do regime, teria como pilar básico uma política populacional nacionalista, ferramenta essencial do planejamento social e da transformação da Itália em um país produtivo, orgulhoso e prolífico, verdadeiro herdeiro da Civilização Romana. A campanha demográfica fascista legitimava a intervenção estatal na esfera privada, transformando a família em instrumento político. O fato de grande parte dos mecanismos de seguridade social preconizados pelo regime jamais ter sido implementada apenas reforça a noção da centralidade da propaganda para a legitimação do “Novo Império Fascista”.
O incremento populacional há muito é reconhecido com uma das principais metas do nazismo. O crescimento demográfico almejado, entretanto, não era irrestrito, mas racialmente qualificado. Mesmo antes dos campos de extermínio, a política populacional do Terceiro Reich poderia ser classificada tanto como “pró-natalista” quanto como “antinatalista”. Maternidade e esterilização compulsórias foram a tônica da campanha de procriação seletiva implementada. O programa nazista de esterilização seria a primeira etapa de um processo de progressiva radicalização que passaria pela campanha da “eutanásia” para culminar no genocídio. A campanha demográfica de Mussolini, quando comparada ao programa de “higiene racial” do nazismo, parece, segundo Ouine, demasiadamente obcecada com os números, com a quantidade. Se a “batalha pela natalidade” advogada pelo Ouce enfatizava mecanismos de natureza “positiva”, parece evidente o destaque dado pelo Terceiro Reich a medidas “negativas”.
Se a brutalidade absoluta do Holocausto levou analistas a buscar razões socio-culturais para tamanho radicalismo, um dos pontos de destaque do livro de Ouine é certamente sua ênfase na quase universalidade dos movimentos eugênicos na Europa, isto é, no fato de, em muitos aspectos, compreensivelmente negligenciados pelos estudiosos ante a malignidade da Endlöosung, o Terceiro Reich não ter sido assim tão excepcional. A “Solução Final”, assim, é explicada tanto pela ideologia hitlerista como pelo monopólio da “biologia social” e da “higiene racial” sobre o aparato público e privado do wefare state alemão. “Essa influência institucional constituiu uma base firme a partir da qual foi promovida uma aceitação gradual de um amplo programa de saúde pública que tinha como objetivo o ‘melhoramento’ racial” (p.103).
Concluindo o livro, Ouine deixa claro o seu ponto: os estudiosos ainda são relutantes em desmitificar as agendas sociais traçadas pelos regimes fascistas comparando-as àquelas estabelecidas por regimes políticos “convencionais”. Na verdade, a noção generalizada de que o Estado deveria controlar a reprodução é um dos pilares básicos das políticas populacionais tanto nas ditaduras como nas democracias (p.132). A peculiar política populacional da Terceira República francesa, assim, com seu notório conservadorismo, seu pró-natalismo clerical, sua ênfase na família como clientela privilegiada do Estado de Bem-Estar Social em formação e no papel dos pais como “salvadores da nação”, compartilha muitas de suas características com os outros regimes analisados pela autora. De maneira similar, as comparações estabelecidas demonstram a falácia recorrente de que havia algo particularmente “fascista” na adoção de políticas populacionais agressivas e autoritárias.
Apenas nas últimas páginas, Ouine reconhece a relevância de sua abordagem para o debate sobre a origem e natureza do Estado de BemEstar Social. As políticas populacionais, centrais no weffare statemoderno, foram implementadas na esteira da ansiedade generalizada acerca de probemas demográficos, que deram o estímulo ideológico e emocional a essas políticas, tanto nas democracias como nas ditaduras.
Se, por um lado, a seleção das experiências italiana, alemã e francesa permite que a autora estabeleça distinções importantes entre fascismo e nazismo, contrapondo-as às políticas populacionais francesas, com resultados desmitificadores, sua contribuição ao debate acerca das origens e expansão do Estado de Bem-Estar Social poderia ser maximizada caso se tivesse optado por uma seleção distinta. Os sistemas de seguridade social da Alemanha, França e Itália têm sido qualificados como “continentais”, “corporativistas” ou “conservadores”, dependendo da tipologia. Alguns analistas chegam mesmo a distinguir uma variante “latina”, englobando França e Itália, entre outros. Caso se resolvesse tomar de empréstimo a renomada tipologia de Esping-Andersen e se analisassem, por exemplo, as políticas populacionais da França (welfare state conservador), da Inglaterra (liberal) e da Suécia (social-democrata), um estudo comparativo dessa natureza poderia marcar definitivamente o terreno para que a historiografia fizesse também sua uma seara da qual ela se alheou por tantas décadas.
Para encerrar, o trabalho de Quine deixa aos historiadores brasileiros a impressão de que as relações do Estado Novo com a eugenia e a “política da reprodução” ainda não foram suficientemente analisadas. Aos estudiosos das políticas públicas, fica a sugestão de que o fator “gênero” venha a assumir papel de maior destaque.
Carlos Aurélio Pimenta de Faria – Doutorando em Ciência Política no IUPERJ. Professor da Escola de Governo da Fundação João Pinheiro – BH/MG.
[DR]
Como se faz uma tese – ECO (RBHE)
ECO, Umberto. Como se faz uma tese. Tradução de Gilson C. C. Souza. São Paulo: Perspectiva, 1983. Resenha de: AQUINO, Maria Aparecida. Revista Brasileira de História, São Paulo, v.5, n.7, n.15, p.205-210, set.1986/fev.1987.
Maria Aparecida Aquino – Professora da Escola Prof. Gabriel Ortiz, São Paulo.
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