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Storia sociale della bicicleta | Stefano Pivato
Stefano Pivato | Imagem: RedazioneCittaUrbino
Embora eu ainda fosse muito pequeno para estar sentado no selim da bicicleta, eu era forçado a passar uma perna por cima do cano para poder alcançar o pedal […] Então é assim que o ciclista encontra o mundo: do alto! Corre, corre a uma velocidade insana sem encostar o chão com os pés, ser um ciclista é qualquer coisa que significa quase: sou o dono do mundo (PIVATO, 2019. p.197. Tradução nossa).
Stefano Pivato encerra sua proposta de reflexão acerca da trajetória da bicicleta ao longo dos últimos 150 anos com esse pequeno trecho de Thomas Bernhard. A citação do escritor austríaco faz uma ótima síntese das transformações e rupturas que o novo meio trouxe ao mundo, fosse pelo novo ponto de vista “do alto”, pela alteração da percepção que a “velocidade insana” propunha, ou ainda as diferentes rupturas da ordem que, no imaginário vigente, nos encaminham para um suposto ideal de liberdade que a bicicleta parece carregar. Leia Mais
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità | Chritoph Cornelissen
Stretta fra la fine della Prima guerra mondiale (1918) e l’avvento del nazismo (1933), la Repubblica di Weimar viene spesso associata nell’immaginario comune a un fallimento: violenza politica, crisi economica e inflazione galoppante, instabilità nella guida dei governi e debolezza del parlamento sono alcuni degli elementi che l’avrebbero condannata all’insuccesso. Un insuccesso talmente bruciante che avrebbe portato la nuova Repubblica federale tedesca, nata dopo la fine della seconda guerra mondiale, a smarcarsi il più possibile dall’esperienza di Weimar, sostenendo che il nuovo assetto istituzionale sarebbe stato di tutt’altra pasta. Soprattutto quando, come in questo caso, le convinzioni sono così consolidate, una rinnovata attenzione storiografica può essere opportuna. Il volume curato da Christoph Cornelissen e da Gabriele D’Ottavio nasce da un convegno tenutosi nel 2019 a Trento e si propone, nel centenario della fondazione della Repubblica di Weimar, di riprendere alcuni argomenti grazie a degli articoli firmati da studiosi e studiose di entrambe le aree culturali (i saggi scritti in origine in tedesco sono stati tradotti da Enzo Morandi). Più esattamente, vengono proposte delle coppie di temi (Costituzione e rivoluzione, società postbellica e cultura politica, crisi economica e crisi sociale, aspirazioni individuali e diritti collettivi, dimensione globale e prospettiva europea, eredità e attualità) che danno forma alla struttura del libro e separano per coppie i dodici saggi presenti.
Christoph Cornelissen insegna Storia contemporanea presso l’Università di Francoforte sul Meno e dal 2017 è il direttore dell’Istituto storico Italo-Germanico della Fondazione Bruno Kessler di Trento, l’istituto che ha organizzato insieme ad altri e ha ospitato il convegno sul centenario di Weimar. Gabriele D’Ottavio lavora come ricercatore di storia contemporanea presso l’università di Trento, oltre a essere affiliated fellow presso lo stesso Istituto italo-germanico. Leia Mais
La giustizia in scena. Diritto e potere in Eschilo e Sofocle | Emanuele Stolfi
La giustizia in scena rappresenta un contributo innovativo nel vasto panorama degli studi sul diritto greco antico, ponendosi come modello per l’interlocuzione scientifica tra gli storici dei diritti antichi e gli studiosi della tragedia. L’Autore, pur riconoscendo l’attenzione di giuristi e filosofi del diritto ai quesiti posti dai testi tragici alla moderna sensibilità giuridica e la recente fortuna della corrente di studi «Law in Literature», rileva un limitato interesse da parte degli storici dell’esperienza giuridica. Questo libro indica le possibili direzioni del contributo degli studiosi di diritto greco all’esame del teatro di Eschilo e Sofocle, proponendo un’integrazione del metodo storico-giuridico entro ampie linee di indagine (filologicoletterarie, linguistiche, antropologiche) per illustrare questioni nevralgiche rappresentate dai tragediografi. Leia Mais
La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista | Guido Melis
Os interessados na história institucional e jurídica da ditadura encontram no livro de Guido Melis uma preciosa ferramenta de trabalho.
O volume dedicado aos vinte anos da ditatura fascista (1922-1943) propõe um estudo dos arranjos institucionais do estado italiano. No período no qual ocorreu uma profunda revolução no plano constitucional com um viés fortemente autoritário, permanecendo intocadas a Carta Constitucional (o Statuto Albertino) e a forma monárquica. As instituições representativas que compunham o estado liberal durante o século XIX foram sendo progressivamente enfraquecidas, o nascente sistema de partidos políticos de massa foi desmantelado, graças aos intervenção na lei eleitoral e, sobretudo, através de novos medidas policiais e formas especiais de repressão, visando neutralizar a dissidência política e o aniquilamento do que era reconhecido como inimigo político. O novo sistema se baseava na figura do Duce, Chefe do governo e, juntos, do partido político único, o Partido Nacional Fascista, auxiliado por um novo órgão constitucional, o Gran Consiglio del Fascismo. Ao mesmo tempo foi determinada uma nova reorganização das instituições públicas que redesenha em um sentido mais centralista as relações entre Estado e território, no sentido intervencionista as relações entre Estado e economia, e no sentido corporativo as relações entre Estado e sociedade. Leia Mais
La mamma, Collana L’identità italiana – D’AMELIA (BC)
D’AMELIA, Marina. La mamma, Collana L’identità italiana. Bologna: Il Mulino, 2005. 311p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.13, p.124-127, lug., 2020.
Marina d’Amelia, docente di storia moderna all’Università “La Sapienza ” di Roma e appartenente alla Società Italiana delle Storiche, si propone con questo libro di rispondere a un interrogativo ben preciso: quando nasce in Italia lo stereotipo della mamma responsabile della mancanza di senso civico da parte di cittadini educati al protagonismo individuale più che al senso del bene comune? Un rapporto madre-figlio per descrivere il quale, negli anni ’50, Corrado Alvaro introduce il termine mammismo.
L’autrice si propone di dimostrare che questa immagine materna nasce col nuovo stato italiano, poco più di due secoli fa. Non vi è traccia infatti di madri iperprotettive nella civiltà romana, caratterizzata dalla centralità del padre, dove le donne delle famiglie più ricche si facevano sostituire dalle balie nella cura dei figli e ne affidavano l’educazione a istitutori e maestri. La tradizione giurid ica romana della patria potestà si è tramandata per un lunghissimo periodo informando di sé i codici di comportamento delle strutture familiari medievali e moderne.
Solo a partire dal tardo Settecento la mentalità collettiva comincia a guardare in modo nuovo alla relazione madre-figlio. Si fa strada una nuova visione del matrimonio, della famiglia e la consapevolezza dell’importanza del legame materno soprattutto con il figlio maschio.
Nel corso dell’Ottocento la cultura romantica, centrata sulla rivalutazione del sentimento e degli affetti privati, riscopre il femminile, attribuendo alla madre un ruolo privilegiato nella formazione sentimentale dei figli e anche un importante ruolo pubblico.
Nel volume, corredato da un’amp ia bibliografia illustrata e commentata, l’autrice delinea i tratti dell’immagine della madre italiana ripercorrendo i momenti fondamenta li del suo definirsi dal Risorgimento alla II guerra mondiale, rievocando molte figure femminili, molte testimonianze, scritture pubbliche e private.
Le madri risorgimentali
L’identità della madre italiana nasce nel Risorgimento ed è caratterizzata da un rapporto quasi simbiotico con il figlio, dall’ammirazione per tutto ciò che fa, da un eccesso di protezione nei suoi confronti e dall’intromissione nella sua vita privata.
È importante ricordare come il matrimo nio per le donne di quell’epoca non fosse frutto di una libera scelta, ma dell’obbedienza a una decisione paterna. La maternità invece era vista come vocazione e missione legata alla “rigenerazione della patria” attraverso l’educazione dei figli agli ideali di libertà, dedizione e senso del sacrificio, valori che saranno alla base della nuova Italia.
La figura della madre del patriota risorgimentale, dedita a sostenerlo durante l’esilio o nelle guerre di indipendenza, nasce negli ambienti patriottici mazziniani.
Dopo il 1848 si registra un maggio re coinvolgimento delle madri a favore dell’indipendenza italiana: organizzano campagne di propaganda con giornali e manifesti volti a mobilitare l’opinio ne pubblica.
Maria Drago, madre di Giuseppe Mazzini, e Adelaide Cairoli e i suoi numerosi figli si affermano come l’asse portante del mito di un Risorgimento che ne riconosce l’importanza pubblica in quanto capaci di mettere in moto grandi emozioni collettive.
Dopo l’Unità d’Italia, nel momento in cui si tratta di riscrivere la storia, l’icona della madre sacrificale viene posta alla base di un nuovo sentimento nazionale: diviene mito fondativo, emblema di una comune madre patria che unisce tutti i suoi figli in un comune vincolo di fratellanza.
La madre angelo del focolare nell’età liberale
In un momento storico in cui la maggioranza della popolazione italiana viveva in precarie condizioni di vita il pensiero positivista assegna alle madri il compito di rigenerare il patrimonio fisico e razziale della nazione, facendosi promotric i dell’allenamento ginnico sia dei figli che delle figlie e garantendo l’igiene dell’ambiente in cui li crescono. Si tratta di abbassare il tasso di mortalità infantile e di innalzare quello di alfabetizzazione.
Il nuovo modello è dunque quello della madre totalmente dedita alla casa, al benessere familiare, disponibile ad accogliere le indicazioni degli esperti sull’allevamento e sull’educazione dei bambini.
Le materie di igiene ed economia domestica entrano a far parte del currico lo scolastico dal 1899; proliferano inoltre manuali, riviste dedicate al pubblico femminile che insegnano alle donne come fare le madri.
In tal modo, osserva giustamente l’autrice, la presenza e l’ingerenza della madre nella vita del figlio diventa ancor più indiscutibile, fondata com’è su basi scientifiche.
Lo Stato si premura comunque di ribadire la preminenza della volontà paterna nella vita dei figli, ma questo non impedisce di perpetuare in altra forma l’idea di una relazione materna appagante di per se stessa, all’interno della quale le donne possono sublimare una vita fatta di subalternità e insoddisfazione coniugale.
L’amore materno è insomma un sentimento esclusivo, molto diverso da quello paterno, che non lascia spazio ad altro. Deriva da un compito preciso assegnato dalla Natura alla donna in quanto conservatrice della specie e somiglia ad una lava sempre rovente che ribolle continua nel vulcano del cuore. Solo dopo Freud, aggiunge l’autrice, ci si interrogherà su quali ambivalenze si nascondano dietro tanta dedizione materna.
Ben radicata rimane la centralità della maternità nel primo decennio del Novecento e se ne trovano molte testimonianze nelle riviste femminili che, pur riconoscendo il diritto all’emancipazione femminile , insistono sulla specificità della donna latina , contenta di essere donna grazie alla missio ne ricevuta dalla Natura di mettere al mondo un figlio.
La maternità si impone dunque come elemento fondante e irrinunciab ile dell’identità femminile, contrappo sto all’egomania che connota l’unive rso mentale maschile.
La madre cattolica
La Chiesa cattolica non si sottrae al compito di indicare le caratteristiche della madre ideale, incaricata dell’educazione religiosa dei figli, chiamata a difendere il suo sacerdozio d’amore, così lo definisce Beppe Fenoglio nel libro La vera madre di famiglia, dalle richieste di uguaglianza e parità, dalla pericolosa concorrenza di dottrine laiche , dalla tentazione di seguire le mode straniere del tempo.
Caratteristica peculiare della madre cattolica è quella di dover essere una presenza silenziosa, capace di controllare le proprie emozioni. Le parole che non siano preghiere sono giudicate superflue e immodeste. Va coltivata anche la virtù del non rivendicare mai le proprie ragioni, pur sapendo di averle, ma di soffocare gli scontri in un sospiro, di nascondere e dissimulare le pene. Il Papa Pio X nel 1906 dichiara che la donna non deve votare, ma deve votarsi a un’alta idealità di bene umano.
Degli ideali di emancipazione femmin ile si fanno carico nel frattempo associazioni e movimenti di ispirazione socialista che si battono per l’istruzione, la parità salaria le fra uomo e donna e il suo diritto al voto.
I primi anni del Novecento vedono un importante cambiamento nelle direttive cattoliche che incoraggiano sia l’istruz io ne che la partecipazione femminile alla vita pubblica. Si riconosce alle donne il ruolo missionario di difesa dei valori cristia ni nella società.
Madri e Grande guerra
In piena continuità con il modello sacrificale proposto in età risorgimentale, la guerra chiede alle madri italiane di appellarsi al proprio senso del dovere e di sostenere i figli impegnati nello sforzo bellico, sintonizzandosi con il loro vissuto emotivo soprattutto attraverso lo scambio epistolare che raggiunge quasi i quattro miliardi di lettere e cartoline, con una media di circa tre milioni al giorno. Ne risulta un’immagine di madre disposta a penare silenziosamente, centrata sul desiderio di rispecchiare le aspirazioni dei figli e percepita come un talismano, come presenza salvifica, ultimo rifugio dallo smarrimento.
La guerra attiva inoltre molti organismi di solidarietà e di mobilitazione civile che riconoscono un ruolo centrale alle madri, ruolo ribadito alla fine del conflitto quando lo Stato italiano decide di celebrarne l’eroismo e il sacrificio con un monume nto , La Pietà di Libero Andreotti, collocato nella Chiesa di Santa Croce a Firenze e idealmente collegato con quello del Milite Ignoto a Roma.
L’enfatizzazione di questo specifico ruolo della donna lascia troppo nell’omb ra , secondo l’autrice, alcuni elementi chiave della vita femminile di questi anni come le manifestazioni contro la guerra, la diffusione del lavoro femminile, la crescente fatica di sopravvivere di molte donne diventate capifamiglia e l’impossibilità di dare voce a sentimenti e angosce repressi in nome della coerenza.
La figura della madre in epoca fascista
Alla celebrazione della maternità il fascismo dedica una festa particolare: la Giornata della madre e del fanciullo, grande “rito di amore e orgoglio nazionale” avente lo scopo di sollecitare l’incremento della popolazione.
Vi si celebra l’immagine della donna sposa e madre prolifica esemplare, tenace custode della morale sessuale tradiziona le , soprattutto nei confronti delle figlie femmine, anche se i confini di ciò che è lecito vengono definiti dal padre. Il comportamento autoritario della famiglia ha come conseguenza quella di reprimere il desiderio di affermazione e indipendenza delle figlie.
Il partito fascista cerca in ogni modo di evitare qualunque possibile commistione fra maschi e femmine sia in ambito scolastico che durante le manifestazioni pubblic he riservate ai giovani.
Comunque, grazie alle adunanze, alla divisa, alle decorazioni, le ragazze scoprono la possibilità di una sia pur piccola liberazione dal controllo familia re , alimentando in se stesse il desiderio di un’emancipazione futura.
Il modello ideale proposto dal regime fascista è quello di Rosa Maltoni, la madre del Duce, donna semplice ma ricca di spiritualità , trasformata nel mito celebrativo della donna capace di sostenere l’ascesa sociale dei figli, opponendo un fermo rifiuto a tutti i mali che possono disgregare la famiglia. Predappio, luogo natale di Mussolini diviene meta di pellegrinaggi per onorare in lei tutte le madri della Nuova Italia.
La figura della madre nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza
Mentre il Risorgimento e la Grande guerra avevano fatto leva sull’ero ismo silenzioso delle madri comuni disposte al sacrificio pur di sostenere la causa patriottica, la seconda guerra mondiale ne esalta questa caratteristica soltanto fino all’ 8 settembre 1943 che vede il disgregarsi improvviso dell’esercito.
Le madri non vengono risparmiate dall’orrore di quanto accade successivamente ed è difficile per loro superare la barriera delle opposte appartenenze dei propri figli.
Alcune si ritrovano ad essere madri di partigiani o partigiane esse stesse pronte ad impegnarsi e lottare nella Resistenza, altre si schierano con il fronte dei Repubblichini di Salò arruolandosi nel servizio ausilia rio femminile.
Il pensiero della madre percepita come rifugio rassicurante accomuna invece il sentire dei due schieramenti, a conferma di una fratellanza che la logica di guerra nega, ma anche di uno stretto collegamento fra istinto di sopravvivenza e bisogno di protezione.
Livia Tiazzoldi
[IF]Diritto pubblico e diritto privato: una genealogia storica | Bernardo Sordi
Bernardo Sordi, professor de história do direito medieval e moderno na Universidade de Firenze (Itália), grande especialista na área da história da administração e do direito administrativo, integrante da renomada Escola Florentina de História do Direito e membro do conselho editorial da importante revista jurídica “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, na obra “Diritto pubblico e diritto privato: una genealogia storica”, publicado pela editora Il Mulino, realiza uma reflexão muito interessante e erudita do longo e complexo itinerário europeu da dicotomia público e privado.
Como não poderia deixar de ser, o autor procura incansavelmente historicizar e problematizar a distinção, demonstrando que, para além das palavras (ius publicum e ius privatum), os significados e os imaginários envolvendo a dicotomia são profundamente dependentes dos seus contextos culturais, são sempre contingentes (Hespanha, 2012, p. 13)2 Bernardo Sordi evidencia e explica a profunda relatividade histórica dos termos. Diferentes temporalidades e localidades, riqueza e diversidade deste jogo de palavras. Leia Mais
Francesco de Sanctis: la scienza e la vita | Fulvio Tessitore
“Sono sempre stato colpito dalla singolare ripresa, a ben poca distanza, del gran tema della ‘utilità’ della storia da parte di due grandi e diverse personalità quali quelle di De Sanctis e di Nietzsche”.
É assim que Fulvio Tessitore conduz a publicação de suas páginas sobre Francesco De Sanctis: la scienza e la vita (il Mulino, 2019, pp. 107), nas quais, de acordo com as intenções programáticas da série que a acolhe, estão reunidos a preleção inaugural realizada por ele para o ano acadêmico de 2017-2018 do Istituto Italiano per gli Studi Storici e alguns de seus desenvolvimentos nos cursos do mesmo ano, seguidos ao fim, oportunamente, de um apêndice que reproduz o ensaio sobre de De Sanctis de 1972 e o comentário que Croce lhe dedicou na “Crítica” de 1924. Leia Mais
Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche – BETTINI (CN)
BETTINI, Maurizio. Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche. Bologna: Il Mulino, 2014. 155p. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
“La pluralità degli dèi non costituisce l’essenza delle religioni politeistiche, come vorrebbe farci credere il nome che le designa, ma solo la condizione necessaria affinché esse possano esplicare la virtù che meglio le caratterizza: ossia la capacità di pensare in modo plurale ciò che ci circonda e, nello stesso tempo, di fornire altrettanti modi d’azione per interpretarlo e intervenire su di esso” (pag. 111).
Maurizio Bettini, antropologo del mondo antico, ci fa conoscere in questo libro la specificità e l’originalità delle religioni politeistiche dell’antichità attraverso la costruzione della concettualizzazione di “quadro mentale” che, per capirci, è, nel nostro mondo, “quello costituito dalla convinzione profonda, e spesso talmente interiorizzata da risultare inconscia, che non possa esservi se non un solo e unico Dio.” (p. 21). Tale quadro mentale oggi connaturato a quella buona parte del pianeta che professa religioni monoteiste viene opposto a quello delle società antiche politeiste, in particolare quelle greca e romana. Beninteso, va subito sgombrato il campo da vecchie gerarchie evolutive di stampo colonialista, eurocentriche e cristianocentriche che considerano la religione greca e romana come una mitologia pagana e idolatra, “superata” dal cristianesimo unica e vera religione. “Gli dèi che furono venerati e onorati da [queste] due civiltà – ricorda Bettini – sono stati al centro di organizzazioni sociali, culturali e intellettuali molto complesse…” (p.9) che si fondavano, tra l’altro, su una concezione della cittadinanza considerata importantissima, al punto da coinvolgere perfino il mondo degli dèi. Infatti, nel quadro mentale dei Romani gli dèi di un altro popolo, amico o conquistato, venivano cooptati all’interno della civitas romana. Tutt’altra cosa dalla tolleranza alla quale siamo esortati dal migliore cristianesimo dei nostri tempi.
In fondo tutto il libro di Bettini costituisce una comparazione tra il quadro mentale delle religioni politeistiche e quello dei monoteismi ebraico-cristiano e islamico.
Innanzitutto, la questione della violenza. Se è vero che Greci e Romani hanno combattuto guerre e perpetrato massacri non hanno mai fatto guerre “per affermare una religione sull’altra, come invece hanno fatto nei secoli successivi cristiani e musulmani” (p. 43).
Il fatto è, sostiene Bettini, che il politeismo è flessibile: “la messa in valore di alcune caratteristiche proprie di ciascuna divinità (il fornire alimento, il portar semi, la stabilità) [costituiscono un] tramite cui costruire inferenze che producono di volta in volta l’identificazione con un’altra divinità” (p.69) ovvero la traduzione di una divinità da una cultura ad un’altra. Gli esempi sono molteplici: l’egizio Serapide diventa Esculapio o Iuppiter a seconda delle caratteristiche del dio, il Wotan germanico è identificato con Mercurius, ecc.
Il monoteismo, al contrario, non può che essere rigido, costruito com’è su una verità scritta direttamente da Dio: le sacre scritture.
Se è vero che la Chiesa cattolica “produce” una quantità sterminata di santi e beati, soddisfacendo le esigenze di “protezione divina” delle diverse attività umane, è vero altresì che il Catechismo della stessa Chiesa ribadisce l’esistenza di un solo “Dio unico e vero”. Con l’aggiunta che “evangelizzando senza posa gli uomini la Chiesa si adopera affinché essi possano ‘informare dello spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità’ in cui vivono” (p.45). Di qui allo Stato confessionale il passo è (è stato?) breve.
[IF]Culture del consumo – CAPUZZO (BC)
CAPUZZO, Paolo. Culture del consumo. Bologna: Il Mulino, 2006. 334p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.179-183, giu./nov., 2019.
Paolo Capuzzo, docente di storia contemporanea presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna, ricostruisce in questo libro la nascita, lo sviluppo della società dei consumi e le modificazioni culturali che ne accompagnano l’espansione in Europa tra il Seicento e l’inizio del Novecento. L’esperienza europea è collocata all’interno del processo che dalle prime conquiste coloniali ha portato alla formazione dell’economia mondiale.
Si mettono a fuoco da un lato la progressiva acquisizione di forza politico-economica della società europea, in particolare di quella dell’Europa urbana del Nord, dall’altro la sua capacità di democratizzarsi, nel momento in cui le classi subalterne si appropriano di beni inizialmente appartenenti alla sfera del lusso.
Il libro è suddiviso in 5 capitoli preceduti da un’Introduzione nella quale vengono delineate le linee di forza dell’intero percorso e le tematiche centrali: • il rapporto tra consumi europei e commercio mondiale • la dimensione etica del consumo • la costruzione della sfera privata • la regolazione dei rapporti di classe • la costruzione di uno spazio pubblico del consumo “Ricostruendo la storia della diffusione dello zucchero, del caffè, del tabacco, del tè, della cioccolata è possibile- scrive l’autore- mettere in evidenza i rapporti tra la domanda europea, la conquista di basi e monopoli commerciali, l’organizzazione della produzione di questi beni.
La diffusione delle nuove bevande mostra poi come, una volta approdate nei grandi porti commerciali europei, queste merci subissero un variegato processo di appropriazione da parte dei consumatori […]. Le nuove culture del consumo che si costruiscono in Europa attraverso queste bevande non sono, insomma, un epifenomeno dell’espansione coloniale, ma rispondono a un processo di produzione della quotidianità, nella quale agiscono soggetti che si appropriano di tali risorse.” (p. 10).
Nel momento in cui la ricchezza e il potere non derivano più dall’appartenenza ad un ceto sociale, ma dal successo del mercato sono i modi del consumo a decidere dell’inclusione o dell’esclusione da una determinata cerchia sociale.
Il lusso si popolarizza sovvertendo le tradizionali gerarchie sociali. E’ dunque evidente il legame tra la diffusione dei liberi consumi e il progresso della democrazia.
I processi di consumo appartengono ad una sfera dotata di autonomia, ma sono in stretta relazione con la definizione delle identità, con la costruzione dei rapporti sociali e di genere.
Il consumatore non è visto come un terminale passivo di un processo di manipolazione dei suoi desideri, ma come individuo capace di attribuire un significato al consumo, pur all’interno di un habitus, cioè di un insieme di principi legati all’estrazione sociale e interiorizzati fin dall’infanzia che ne orientano l’azione attribuendo un determinato valore alle cose.
Tale habitus viene progressivamente messo in crisi dal processo di commercializzazione, dalla logica del profitto, che utilizza la moda e la pubblicità come criterio di valore di una merce.
“La forza semiotica della commercializzazione contemporanea, scrive ancora l’autore, è certamente un carattere inedito nella creazione dell’immaginario, cosa che distingue la nostra società da quelle precedenti […] tuttavia i consumatori continuano a far udire la loro presenza […]”. (p. 15 ).
Ciascuno dei cinque capitoli in cui si articola il volume offre una sintesi ragionata degli studi prodotti dalla storiografia internazionale sui vari temi, corredata da un’ampia bibliografia.
Capitolo 1. Consumi europei e globalizzazione del commercio tra XVII e XVIII secolo
Si analizza in queste pagine l’espansione del commercio europeo all’inizio dell’Età moderna, la nascita di una prima globalizzazione collegata al colonialismo e ad una grande disponibilità di risorse materiali.
Si sottolinea il fatto che gli sviluppi e il rinnovamento dei consumi in Europa sono intimamente connessi ad un nuovo assetto del potere mondiale ottenuto con la disponibilità finanziaria, la superiorità tecnologica, con la forza delle armi e con la deportazione della manodopera africana impegnata nelle miniere di metalli preziosi e nelle piantagioni americane.
Le colonie sono luogo da cui prelevare materie prime come zucchero, caffè, legname, tabacco, cotone da trasformare e rivendere poi come prodotti finiti a prezzi ben più alti.
Sulle tavole europee arrivano nuovi prodotti (patate, pomodori, cacao, fagioli, frutta tropicale, mais, zucche) inizialmente utilizzati solo dalle classi sociali più alte, ma accessibili poi anche ad altre classi sociali, quando la produzione col sistema delle piantagioni e la commercializzazione su larga scala ne abbassano i prezzi.
Caffè, tè e tabacco (il primo dei prodotti esotici ad essere consumato dalle masse) vengono subito apprezzati per la loro capacità di garantire lucidità, al contrario del vino.
Il consumo di questi prodotti si associa anche a una specifica ritualità praticata in nuovi spazi pubblici come le coffee e le tea houses, fattori formidabili di “sociabilità”, o nelle case private, nell’ambito di un mondo soprattutto femminile.
I primi locali detti caffè, dal nome della bevanda che vi si consumava, nascono a Venezia alla metà del Seicento e diventano di moda nel secolo successivo in tutte le grandi città europee. Sono frequentati da un’ élite di uomini d’affari che leggono i giornali, discutono di politica. Vi si aggiungono poi artisti e scrittori.
Capitolo 2. Lusso, moda e ordine sociale tra XVIII e XIX secolo
Il capitolo è dedicato nella prima parte ad una riflessione sul lusso, alla sua funzione nella società di corte, in particolare quella francese, e alla sua progressiva “popolarizzazione”.
Nelle società di corte il consumo designa un modello particolare di sociabilità, quello dei cortigiani e delle cortigiane, che si afferma poi come modello anche nelle grandi città europee come Parigi, la capitale del gusto, soprattutto per le donne che frequentano i salotti dell’alta società. Quello dell’apparire, grazie all’uso di cosmetici, gioielli, abiti eleganti, diventa un valore sempre più ricercato dai nuovi ricchi, da esibire sia nella sfera privata che in quella pubblica dei teatri, delle sale da musica, dei ristoranti.
Nei contesti cittadini è lo stile del consumo a decretare l’inclusione o l’esclusione da una certa schiera di persone. La ricchezza derivante dal mercato ha sostituito la nobiltà di nascita nella costruzione della posizione sociale e pubblica, soppiantando anche qualunque codice etico nell’accumulazione del reddito.
Nasce in questi anni la categoria di “povertà” dove la miseria materiale è strettamente connessa a quella morale.
La questione dell’apparire contrapposto all’essere è al centro di molti dibattiti nel Settecento: c’è chi critica il lusso in nome di un ideale di uguaglianza sociale, chi lo considera un’opportunità per scardinare un rigido ordinamento sociale.
Molti autori concordano sul fatto che la grandezza delle nazioni si fonda sul lusso, sulla forza economica, non sulle virtù dei cittadini: è impossibile controllare e organizzare una società in base a dei valori condivisi che restano appannaggio della sfera privata.
Il dibattito proseguirà nei secoli successivi accanto al filone della critica moralistica del lusso considerato responsabile della decadenza culturale.
La seconda parte del capitolo affronta la questione della moda come nuova dimensione del consumo a partire dalla fine del Settecento. L’ostentazione del lusso cede il passo alla sobrietà, alla scelta di un abbigliamento regolato da specifici galatei, diversificato in base all’età, alle differenze di genere e ai vari contesti.
La diffusione della moda è legata agli spazi urbani delle città, alle vetrine dei negozi, alle illustrazioni colorate e alla pubblicità sui giornali.
Essere bella, elegante, consona alle varie situazioni sociali è una precisa missione sociale per la donna borghese dell’Ottocento: è occasione di legittimazione sociale e anche indiretta dimostrazione del successo economico maschile.
Le classi sociali inferiori subiscono il fascino della moda e sono spinte a imitare quelle superiori che, dal canto loro, cambiano spesso abbigliamento per mantenere la distinzione.
Si innesca così un meccanismo di continua emulazione. Lo sviluppo della moda in Inghilterra alla fine del Settecento può essere considerato come una delle cause della rivoluzione industriale favorita anche dall’importazione del cotone, usato per produrre tessuti meno costosi.
Nel corso dell’Ottocento la produzione del vestiario si diversifica in base a due segmenti di mercato: quella industriale di massa sia per i lavoratori delle grandi città che per le uniformi dell’esercito e quella dei laboratori di sartoria che, grazie all’uso delle macchine da cucire, confezionano abiti su misura per la clientela più ricca.
Il Novecento vede poi l’allargamento della classe media e la nascita dei grandi magazzini che propongono abiti colorati, in fibre sintetiche, standardizzati, ma anche diversificati in base alle varie esigenze della vita moderna.
Capitoli 3 e 4. Culture del consumo delle classi medie e della classe operaia
Questa parte del libro è centrata sull’analisi e sul confronto fra queste due classi sociali in un periodo che va dal 1700 all’inizio del 1900.
Le descrizioni sono declinate al plurale tenendo conto delle variabili geografiche, delle trasformazioni nel corso del tempo, delle dinamiche di distinzione, conflitto, emulazione.
Della classe media si sottolinea l’importante funzione di separare lo spazio pubblico da quello domestico, luogo della convivenza familiare, al riparo dalla corruzione della città.
Le famiglie borghesi in Olanda e in Inghilterra hanno il compito di ricostruire una sfera morale che l’economia e la politica non sono in grado di proporre.
Il lavoro femminile si sposta all’interno della casa dove la moglie si dedica all’amministrazione, all’arredamento, alla cucina e alla cura dei figli lasciando al marito il compito di provvedere alle necessità economiche della famiglia.
La classe operaia valorizza molto meno la sfera privata della casa, dove molte donne non possono inizialmente svolgere un ruolo simile a quelle della borghesia. Sono spesso costrette a lavorare in fabbrica assieme ai mariti e ai figli, con i quali condividono anche momenti di tempo libero fuori casa: in spazi pubblici, pub e taverne, luoghi di consumo di alcol, gioco e scommesse.
Le tipologie abitative delle due classi sociali sono ampiamente descritte e messe a confronto per quanto riguarda il numero di stanze, l’arredamento, le spese destinate ai consumi domestici.
Tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento la classe media, fatta di commercianti, imprenditori, professionisti e funzionari statali, assume un ruolo sempre più importante nell’Europa nord-occidentale dove si affermano il capitalismo industriale e lo stato moderno.
Il processo di privatizzazione dello spazio abitativo diventa uno dei principi che regolano i consumi nel XX° secolo per quanto riguarda la tipologia delle case e l’arredamento: nasce l’industria di massa del mobile e dei beni durevoli.
La separazione fra spazio privato e pubblico è alla base anche dell’edilizia seriale del Novecento, secolo nel quale gli stili di consumo della classe operaia cominciano ad avvicinarsi a quelli della classe media.
La riduzione dei tempi di lavoro nelle fabbriche lascia spazio a partire dalla fine dell’Ottocento a momenti di divertimento: il gioco del calcio, le vacanze, favorite anche dai mezzi pubblici di trasporto come ferrovie e tram.
La Grande Guerra rappresenta un ulteriore momento di profonda trasformazione della società europea per quanto riguarda la massificazione degli stili di vita, trasformazione che si compie pienamente negli anni Cinquanta dello stesso secolo.
L’industria della cultura di massa è fondamentale nel Novecento: è strumento per regolare il tempo libero, ma anche terreno di eversione identitaria.
Capitolo 5. Lo spazio pubblico del consumo: geografia urbana e reincanto del mondo
Si affronta il tema del consumo come forma di evasione dalla quotidianità, momento da vivere in grandi città quali Londra e Parigi, negli spazi che allestiscono lo spettacolo delle merci dove è possibile sognare ad occhi aperti.
L’autore sottolinea in particolare le trasformazioni della geografia urbana e dei flussi di traffico provocati dalla nascita dei grandi magazzini, strutture sviluppate su più piani, dotate di grandi vetrine e insegne luminose. Questi nuovi spazi pubblici del consumo sono frequentati soprattutto dalle donne della classe media, libere di muoversi anche non accompagnate dagli uomini.
Interessanti le osservazioni a proposito della nuova figura delle commesse che anticipano stili di vita femminili del Novecento.
La commercializzazione dei prodotti riceve un grande impulso nella seconda metà dell’Ottocento dalle grandi esposizioni di Londra, Vienna, Parigi che nel 1900 totalizza quasi 50 milioni di visitatori.
Livia Tiazzoldi
[IF]Storia della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche – OSTERHAMMEL; PETERSSON (BC)
OSTERHAMMEL, Jürgen; PETERSSON, Niels P. Storia della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche. Bologna: Il Mulino, 2005 (2003). Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.184-189, giu./nov., 2019.
Il saggio si snoda attraverso sette capitoli e una conclusione finale. Dopo aver precisato il concetto di globalizzazione nei due capitoli introduttivi, gli autori (insegnano storia contemporanea all’università di Costanza) ricostruiscono i processi che hanno portato all’attuale mondo globalizzato, a partire dall’età medievale e moderna, mostrando la progressiva interconnessione di rapporti economici, politici e culturali e al tempo stesso la profondità storica della globalizzazione.
Il presente è terreno elettivo delle scienze sociali che hanno assunto la globalizzazione (dagli anni Novanta circa del secolo scorso) come categoria interpretativa delle loro analisi, mettendone in luce le diverse caratteristiche. Che il mondo sia sempre più piccolo e interconnesso è d’altronde senso comune diffuso, esperienza quotidiana e concreta di un numero sempre maggiore di persone.
In questo scenario gli storici possono essere utili esercitando il loro mestiere: mettere in prospettiva temporale il tema (la globalizzazione), problematizzare ciò che appare come assoluta novità, verificare la tenuta euristica e interpretativa della concettualizzazione anche nel loro campo di indagine: la lettura del passato.
La storiografia che nasce come disciplina scientifica nell’Ottocento ha previlegiato la nazione come oggetto di ricostruzione e soggetto delle sue narrazioni: solo recentemente si sta affermando la necessità di una interrogazione trasversale rispetto alle storie nazionali, di una storia globale al cui interno la (storia della) globalizzazione rappresenta un campo specifico.
Il concetto di rete diventa allora essenziale: la globalizzazione è il processo di costruzione e intensificazione delle reti mondiali (ai diversi livelli, con diversa intensità e velocità di contatti e grado di integrazione). E processo significa dare conto di svolgimenti e cambiamenti che avvengono nel tempo, non in modo meccanico, regolare, scandito sulle canoniche tappe ed epoche della storia politica, ma con ritmi, accelerazioni, rallentamenti, riprese che sono proprie dei diversi ambiti coinvolti dalla globalizzazione: economico, tecnico, politico e dell’organizzazione dello Stato, sociale, culturale.
La periodizzazione è lo strumento concettuale che gli storici utilizzano per comprendere i fenomeni analizzati. Ogni periodizzazione è discutibile e provvisoria: Osterhammel e Petersson ne sono consapevoli. Ed è proprio la loro discutibilità il sale della storiografia e strumento di migliore comprensione della storia come ricerca.
Per i due storici tedeschi è possibile periodizzare il processo di globalizzazione, dopo alcune forme di integrazione verificatesi già in età antica e medievale, nelle seguenti fasi:
- 1450-1500: inizio della modernità e avvio della globalizzazione
- 1750-1880: Imperialismo, industrializzazione e libero commercio
- 1880-1945: Capitalismo mondiale e crisi mondiali
- 1945-1975: La globalizzazione dimezzata
Dagli ultimi decenni del Novecento: La globalizzazione attuale La preistoria della globalizzazione Riguarda il mondo antico e premoderno. In esso l’integrazione macrospaziale si verificò in forme diverse (l’ aggregazione di unità politiche minori in grandi imperi sulla base essenzialmente della forza militare (l’impero romano, cinese, indiano, ottomano…), l’ecumene religiosa (cristianesimo, islam, buddismo…), il commercio a distanza (la via della seta che univa la Cina al Mediterraneo, le vie carovaniere del Vicino Oriente e del Nordafrica…), le migrazioni di popoli (gli insediamenti preistorici dell’America e dell’Asia, la diffusione di popolazioni di lingua bantu della regione del Niger-Congo tra il 500 a.C. e il 1000 d. C. …).
In epoca medievale, le spinte all’integrazione di ampi spazi si possono collocare nel VIII (fondazione e diffusione dell’Islam) e nel XIII (l’impero mongolo di Gengis Khan), mentre dal XIV secolo si rafforzarono processi differenti nella parte orientale dell’Eurasia (consolidamento di Cina e Giappone) rispetto a quella occidentale e meridionale (ripresa degli imperi plurinazionali accanto alla formazione degli “Stati territoriali”).
L’inizio della modernità
Il periodo tra il 1450 e il 1500 si conferma come profonda cesura nella storia della globalizzazione e l’inizio della “modernità” anche in una prospettiva di storia globale. Ne furono fattori decisivi e connessi la scoperta e la colonizzazione dell’America, l’avanzata degli Europei nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, l’«imperialismo ecologico» (in primo luogo i virus e i batteri delle malattie europee), la rivoluzione delle tecnologie militari (polvere da sparo e artiglieria) e della comunicazione (la stampa).
Gli europei stabilirono sull’Atlantico un dominio incontrastato e nell’America si realizzò un’economia di piantagione (caffè, tè, cacao, caucciù…) coltivata da schiavi, che introdotta alla fine del Cinquecento si affermò come istituzione sociale dominante fino ai primi decenni del XIX secolo. Si intensificarono inoltre le reti commerciali transoceaniche: per il commercio di schiavi in primo luogo e delle merci preziose (spezie, tessuti, tè, pelli animali, argento).
1750-1880 Imperialismo, industrializzazione e libero commercio
Intorno alla metà del Settecento, ancora prima delle rivoluzioni politiche (americana e francese) e industriale, un altro impulso ai processi di globalizzazione venne dall’affermarsi di una politica mondiale legata alla necessità del controllo degli oceani (sia dal punto di vista militare che commerciale): il teatro dei conflitti non fu, come in precedenza, a scala locale/regionale, ma mondiale con una presenza egemonica dell’Inghilterra.
Le rivolte di coloni e schiavi delle Americhe tra il 1765 e il 1825 (le tredici colonie inglesi a Nord e le repubbliche del Sud e del Centroamerica) se da una parte indebolirono i legami della rete globale, dall’altra, superata la rottura politica, posero le basi per una diversa relazione tra Stati Uniti e Inghilterra.
La rivoluzione industriale fu ovviamente fattore decisivo per l’intensificarsi dell’interconnessione globale: gli autori mettono in evidenza da una parte le caratteristiche e le ragioni del caso inglese, dall’altro gli effetti a distanza in ambiti diversi dalla produzione di merci: armi e cannoni, trasporti, tecnologie della comunicazione (telegrafo).
Nel corso del XIX secolo l’Europa occidentale e in particolare l’Inghilterra si affermarono quali potenze dominanti e come modello di riferimento per lo sviluppo e il progresso di ogni altro stato del mondo: il futuro sarebbe stato possibile solo accostandosi almeno parzialmente al loro livello.
Gli autori parlano di una globalizzazione adattiva e ambivalente (tra ammirazione e disprezzo, vicinanza e distacco, assimilazione e preservazione della propria identità): si andava profilando un unipolarismo culturale ancora più che geopolitico, che vide nello Stato nazionale la forma ideale e desiderabile per le sfide del tempo.
Nella seconda metà dell’Ottocento la dimensione mondiale dell’economia trovò ulteriore impulso: accelerazione del commercio mondiale, migrazioni di massa (tra il 1850 e il 1894 circa 60/70 milioni di persone), nuova divisione internazionale del lavoro legata alla possibilità di inviare beni di massa a grande distanza, congiunture economiche con ripercussioni su scala planetaria (grande depressione del 1873, congiuntura favorevole del 1896).
Capitalismo mondiale e crisi mondiali (1880-1945)
Contrariamente alla vulgata corrente (soprattutto della storia economica) che racconta gli anni precedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale come epoca di estesa globalizzazione seguita da una de-globalizzazione che durò fino al secondo dopoguerra, gli autori suggeriscono una lettura del periodo secondo la quale il contrasto tra queste due fasi è meno netto: gli stessi processi di de-globalizzazione sono descrivibili dentro uno spazio economico e politico mondiale.
Alla svolta del secolo il mondo era percepito come una comunità di destino: grazie anche ad una diversa esperienza (non solo nella coscienza delle élites) della dimensione del tempo e dello spazio nella vita quotidiana. La sempre maggiore diffusione dei mezzi di comunicazione, l’alfabetizzazione crescente, l’adozione di un sistema di computo del tempo suddiviso per fusi orari e basato sul meridiano di Greenwich, la maggiore frequenza dei viaggi transcontinentali furono tra i fattori di questo cambiamento. Tra Otto e Novecento l’economia mondiale può essere descritta come un sistema multilaterale caratterizzato da flussi internazionali interconnessi (di forza lavoro, capitali e merci), reti commerciali con centro a Londra e conseguenze anche per i paesi extraeuropei, infrastrutture (trasporti e comunicazioni) garantite dagli Stati nazionali.
Non che fossero assenti “buchi” nella rete (la maggior parte dell’Africa, le regioni interne della Cina e tutti i continenti non collegati dalle reti ferroviarie e dalle rotte delle navi a vapore): nel 1913 il divario tra i più ricchi centri del mondo (che non erano già più in Europa) e i più poveri era di 10:1 (nel 1820 era di 3:1).
La globalizzazione avveniva parallelamente alla costruzione delle nazioni. E il mondo divenne uno spazio di interazione tra Stati nazionali concorrenti (con l’aggiunta di nuovi attori, gli Stati Uniti e il Giappone): un mondo sempre più piccolo (nel 1911 quando R. Amundsen arrivò al Polo Sud, ogni parte del globo era conosciuta e cartografata) nel quale si realizzarono un sistema globale di alleanze, la spartizione coloniale del pianeta, processi di territorializzazione degli Stati nazionali, all’interno della dialettica tra globalizzazione e frammentazione.
Secondo J. Osterhammel e N. P. Petersson la Grande Guerra dal punto di vista delle cause fu una guerra europea che ben presto si allargò su scala globale con l’impiego di risorse globali. Segnò la fine del potere mondiale dell’Europa e l’assunzione dello Stato nazionale come modello di organizzazione politica generale. Negli anni successivi si assistette alla ideologizzazione della politica su scala mondiale: liberalismo, leninismo e fascismo furono esperimenti politici che si scontrarono in quella che può essere definita una guerra civile internazionale.
Il cosiddetto “regionalismo” dell’economia internazionale del periodo tra le due guerre con il privilegio accordato ovunque all’ambito “nazionale” conferma il primato della politica sulle interazioni economiche. Si possono anche leggere le politiche autarchiche degli anni Trenta come forme di regionalismo: la loro valenza globalizzante fu che condussero a una nuova guerra mondiale che divenne anch’essa globale, consacrando gli Usa potenza mondiale decisiva e fu punto di partenza di un ulteriore impulso alla globalizzazione economica, politica, e culturale del dopoguerra. Il 1945 può essere considerata una data decisiva (una data globale): per la fine della guerra e la volontà dei vincitori di creare un nuovo ordine mondiale.
Dal 1945 alla metà degli anni Settanta: la globalizzazione dimezzata
La divisione del mondo in due blocchi contrapposti fu la più importante struttura politica (non prevista) del secondo dopoguerra che condizionò anche gli spazi di interazione economica ai vari livelli. Diverse furono le conseguenze di questo assetto geopolitico bipolare nella sfera di influenza sovietica e in quella occidentale nella quale la priorità della riorganizzazione interna produceva, tra l’altro, una spinta all’integrazione regionale. Il processo di integrazione europeo, in transizione dalla federazione di Stati allo Stato federale, va inquadrato in questo contesto. Se da una parte tale processo può essere letto come limitazione del potere degli Stati nazionali, dall’altro si può pensare che la cooperazione realizzata nl quadro delle strutture europee sia stata funzionale al persistere dello stesso modello dello Stato nazionale.
L’ordine della guerra fredda pose fino anche agli imperi coloniali: dal 1950 al 1970 gli Stati nazionali indipendenti passarono da 81 a 134. Nacque quello che allora si chiamò il “Terzo Mondo” che non divenne uno spazio d’integrazione e di cooperazione di politiche sovranazionali. Un ruolo politico transnazionale importante, invece, ebbe la protesta studentesca della fine degli anni Sessanta che coinvolse paesi di gran parte del mondo e le cui ragioni sono comprensibili nel quadro delle trasformazioni socioculturali del secondo dopoguerra.
Gli accordi di Bretton Woods del 1944 avrebbero dovuto assicurare un nuovo ordine mondiale dell’economia, attraverso istituzioni (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio) create per garantirne il funzionamento.
La pianificazione economica in realtà fallì ma navigazione, commercio, telecomunicazioni, traffico aereo e attività multinazionali crearono reti globali che aggregarono, a gradi diversi di intensità delle interdipendenze, anche il Terzo mondo e l’area di influenza sovietica, ad esclusione della Cina che seguiva una scelta rigidamente autarchica.
Dagli anni Sessanta si registrarono spinte verso una globalizzazione socioculturale: le migrazioni verso l’Europa con la creazione di megalopoli multiculturali, l’aumento dei flussi turistici legati alle vacanze di massa, l’omogeneizzazione globale dei riferimenti culturali e degli stili di consumo (dalla Coca-Cola che divenne un marchio mondiale alla diffusione dei jeans e delle t-shirt). Un processo che non fu privo di contraddizioni e resistenze: basti pensare ancora al movimento del ’68 e alla lotta contro l’omologazione culturale e ideologica che trovò nella mobilitazione contro la guerra del Vietnam uno dei suoi momenti più significativi.
Conseguenza della cultura della contestazione di quegli anni fu anche la consapevolezza politica che per la prima volta si ebbe sui temi del clima, dell’esauribilità delle risorse, dell’inquinamento e in generale dell’impatto dell’uomo sul pianeta. Non solo la guerra nucleare, ma anche lo sfruttamento incontrollato delle risorse del mondo potevano determinarne la fine.
La svolta del XX secolo
Può essere datata alla fine degli anni Sessanta con la trasformazione degli assetti complessivi del secondo dopoguerra. In una prospettiva storica, questa ultima (per ora) globalizzazione (per alcuni la vera globalizzazione) è caratterizzata, secondo gli autori, principalmente da questi aspetti: la fine del mondo bipolare con il crollo dell’Urss e del blocco sovietico, la crisi dello Stato sociale (conseguenza e causa al tempo stesso della globalizzazione), l’estensione delle relazioni internazionali e finanziarie internazionali (con l’affermazione delle imprese transnazionali e l’evoluzione dei paesi di recente industrializzazione, in particolare nel Sud-Est asiatico), i progressi delle reti di comunicazione e di informazione, la diffusione su scala globale di beni e modelli culturali (soprattutto americani) pur in presenza di spinte che vanno nella direzione opposta, la presenza, accanto alle reti internazionali legali di quelle illegali (droga, riciclaggio di denaro sporco, traffico di esseri umani) con un peso significativo all’interno dell’economia globale.
Per J.Osterhammel e N. P. Petersson “la sensazione diffusa a livello mondiale di vivere nell’epoca della globalizzazione ha validi fondamenti “ (p. 122), ma non si tratta di un unicum nella storia dell’umanità: la cesura fondamentale a partire dalla quale la globalizzazione è diventata tema centrale e decisivo va individuata, secondo gli autori, nella prima età moderna (epoca delle scoperte, del commercio degli schiavi, dell’«imperialismo ecologico») e non nel tardo Novecento. Spinte e tendenze alla globalizzazione si sono poi verificate in epoche precedenti, a partire dalla metà dell’Ottocento.
Nella riflessione conclusiva del saggio si sottolinea come nella storia delle modernità i processi di integrazione e di de-globalizzazione e frammentazione sono andati di pari passo e come la globalizzazione sia strettamente connessa con la modernizzazione.
Il concetto di globalizzazione, in conclusione, ha senso ed è utile se non viene usato come categoria astratta, essenzializzandone il contenuto, e senza dimenticare che dietro e dentro la globalizzazione e i legami globali ci sono attori e soggetti (Stati, imprese, gruppi, individui… con differenti visioni e strategie), conflitti di interesse, vincitori e vinti.
La globalizzazione è dunque una categoria interpretativa e un processo con una sua storia: che è compito degli storici indagare e far conoscere.
Ernesto Perillo
[IF]L’età del transito e del conflitto. Bambini e adolescenti tra guerre e dopoguerra. 1939-2015 – BACCHI (BC)
BACCHI, Maria; ROVERI, Nella. L’età del transito e del conflitto. Bambini e adolescenti tra guerre e dopoguerra. 1939-2015. Bologna: Il Mulino, 2016. 592p. Resenha de: CITTERIO, Silvana. Il Bollettino di Clio, n.9, p.66-69, feb., 2018.
Il volume: le sue parti e i suoi significati In un ponderoso volume di ben 592 pagine, le curatrici Maria Bacchi e Nella Roveri tengono insieme vicende che hanno come comun denominatore l’esperienza di bambini, bambine, adolescenti in guerra, in fuga dalle stesse e nei vari “dopoguerra”. Dette vicende si collocano nel tempo lungo dalla Seconda guerra mondiale ai giorni nostri e in un contesto globale.
Marcello Flores, nel saggio introduttivo Cartografie del Novecento: luoghi e forme del conflitto, ricostruisce la cornice spazio-temporale del “secolo breve” e ne indica i segni distintivi e contraddittori. Se, infatti, per un verso è il periodo in cui si conclamano i diritti delle persone, nasce l’opinione pubblica e si afferma il valore della libertà e della democrazia, (Flores cita per esempio la campagna di Conan Doyle e Mark Twain contro il dominio personale e feroce di Leopoldo II nel Congo), per l’altro è e sarà ricordato come un secolo di totalitarismi, razzismi e stermini. Flores ricorda: in Africa la distruzione degli Herero in Namibia da parte dell’esercito tedesco, i campi di concentramento inglesi per i boeri e, più recentemente, il Rwanda e il Congo; in Asia la Cambogia di Pol Pot; In America Guatemala e Argentina. In Europa, dopo la Shoah, ex Jugoslavia e Cecenia.
Dopo l’introduzione di Marcello Flores, il volume si articola in tre parti. La prima, Infanzie e guerre del Novecento, raccoglie l’esperienza di solidarietà e salvataggio dei ragazzi di Villa Emma a Nonantola, la testimonianza di intellettuali approdate in Italia dopo la Shoah (Edith Bruck) e dopo il conflitto serbo-bosniaco (Anja Galičić e Elvira Muičić) e la vicenda di Keiji Nakasawa che, sopravvissuto alla bomba di Hiroshima, racconterà la sua storia in un fumetto manga.
La seconda, All’inizio del terzo millennio, tratta dei ‘minori non accompagnati’ in fuga dai loro paesi e in transito o in arrivo in Italia, all’inizio del XXI secolo.
Nella terza, Memorie dell’infanzia in guerra, vengono riesaminate le esperienze dei bambini in guerra narrate nella prima parte e si aggiungono altri racconti, per esempio la vicenda della colonia di Izieu e della sua eroina e testimone, Sabine Zlatin.
Nello spazio temporale coperto dal volume (1939 – 2015), l’esperienza dei ragazzi di Villa Emma a Nonantola (fra il luglio 1942 e l’ottobre 1943) si colloca come esempio positivo di gruppo, che seppe attivare dinamiche di salvezza e di crescita. Nel 2004, la nascita della Fondazione Villa Emma a Nonantola si inserisce come buona pratica di ricostruzione storica e di conservazione dei luoghi della memoria.
Figure e ruoli femminili nel Novecento attraversato dalle guerre Mentre le storie attuali dei minori non accompagnati sono essenzialmente storie al maschile, le vicende della Shoah e quelle relative alla sanguinosa deflagrazione dell’ex Jugoslavia sono popolate da figure femminili. Le donne, si sa, sono “vittime storicamente designate”, ma chi sopravvive assume spesso il ruolo di testimone consapevole. Vediamo di seguito quali storie “al femminile” hanno rilievo nel volume.
Dalle pagine dedicate all’ex-Jugoslavia nell’ultimo decennio del Novecento, possiamo ricavare le testimonianze, analoghe ma differenti, di due scrittrici, Anja Galičić e Elvira Mujčić, preadolescenti al tempo del loro esodo in Italia durante la guerra di Bosnia.
Entrambe provengono da famiglie di intellettuali, musulmane ma profondamente laiche; entrambe trovano rifugio in Italia e vi si laureano con una tesi analoga sul ruolo dei media nella guerra dell’ex Jugoslavia; entrambe useranno l’italiano come lingua della loro produzione letteraria. Tuttavia, mentre Anja arriva 13enne in Italia dalla nativa Sarajevo con l’intera famiglia nell’aprile 1992 e si stabilisce a Gressoney, Elvira vi arriverà nel 1993 a 14 anni, dopo essersi separata dal padre e dallo zio che perderanno la vita e il corpo nel genocidio di Srebrenica, e dopo aver trascorso un anno presso un campo profughi della Caritas in Croazia.
Da queste esperienze emerge, come dato rilevante del vissuto delle bambine e dei bambini in tale contesto, quanto ci ricorda Maria Bacchi “La guerra angoscia i bambini prima e li perseguita dopo, quando gli adulti pensano che i più piccoli non ne siano toccati o ne siano finalmente fuori. Il suo svolgimento li espone a rischi terribili che, sappiamo, genera traumi, ma crea anche, paradossalmente, una sospensione della normalità che offre imprevisti spazi di libertà e di avventura”.1 Dello stesso tono la diretta testimonianza di Elvira Mujčić: “Uno degli aspetti più allucinanti di una guerra è la noia. […] Mentre gli altri bambini in giro per il mondo raccoglievano le figurine, noi raccoglievamo i pezzi di granata e facevamo le nostre collezioni, con tanto di scambi.”2 Si tratta di bambini e bambine che non possono proprio credere all’evidenza della guerra nella multiculturale Sarajevo e nella Bosnia tutta. A conforto si cita anche la testimonianza di Sasa Stanisic, giovane scrittore bosniaco in lingua tedesca.3 Del resto, il nodo della inesplicabilità dell’esplosione nazionalista nell’ex Jugoslavia è il rovello delle vittime (la stessa Mujčić lo tratta nel suo romanzo E se Fuad avesse avuto la dinamite) ed è un tema su cui si va facendo via via maggior chiarezza: con la pubblicizzazione di documenti secretati paiono delinearsi incapacità, incuria e connivenza dell’Occidente.
Un’altra storia d’infanzia in guerra è quella di Edith Bruck. Lo scenario qui è quello della Seconda guerra mondiale. Edith viene deportata a 12 anni dal suo villaggio ungherese nei lager nazisti a cui sopravvive per arrivare, dopo varie peregrinazioni, in Italia, dove comincia, con la sua autobiografia in italiano –Chi ti ama così- un’intensa attività di scrittrice e testimone. Bruck si riconosce nell’ebraismo laico (per lei archetipo di tutte le diversità) e assume la responsabilità di denunciare a quanti non sanno e non conoscono l’orrore indicibile dell’Olocausto. “Dire terrore, orrore, paura, dolore, sofferenza, fame, freddo non esprime quel freddo, quella fame, quel terrore. Anche adesso ho fame e freddo, ma non c’è confronto.”4 Signora Auschwitz verrà rinominata la Bruck da una studentessa che ne ascoltava la testimonianza. E Signora Auschwitz diventerà poi il titolo di una sua opera.
Infine Izieu. La memoria e il luogo di Pierre Jérome Biscarat ricostruisce l’episodio della colonia di Izieu, da cui il 6 aprile 1944 vennero arrestati dalla Gestapo, per ordine di Klaus Barbie, 44 bambini ebrei e 7 educatori. Imprigionati a Lione vennero successivamente internati ad Auschwitz. Sola sopravvissuta Lea Feldblum, un’educatrice di 26 anni. Tra il maggio 1943 e l’aprile 1944 la direzione della colonia era stata affidata a una coppia di ebrei francesi: Sabine e Miron Zlatin. Sabine si salverà perché quel 6 aprile 1944 si trovava a Montpellier e si prodigherà per avere giustizia, salvando la memoria e la storia di Izieu, fino a ottenere l’estradizione dalla Bolivia di Klaus Barbie che, processato nel 1987, sarà condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità.
Nel 1994 il Presidente Mitterand inaugurerà il Museo memoriale dei bambini di Izieu che è oggi accessibile alle scuole e svolge un’importante funzione pedagogica per salvare la memoria e ricostruire la storia della vicenda nell’ambito della Shoah e della Seconda guerra mondiale.
Quali analogie ritroviamo fra le storie di Anja e Elvira, le due adolescenti in fuga dalla guerra di Bosnia che eleggono l’Italia a loro luogo d’asilo, e le vicende di Edith, sopravvissuta al campo di sterminio, o di Sabine che per caso lo evitò? Sicuramente le accomuna una formazione laica, acquisita in ambito familiare – è il caso dichiarato di Anja e Elvira, intellettuali e musulmane – o conquistata successivamente, come Edith Bruck, che si riconosce in un “ebraismo laico”, o Sabine Zatlin, ebrea naturalizzata francese. In secondo luogo la volontà e la necessità di testimoniare sia con i modi della finzione letteraria (Bruck, Mujčić, Galičić) sia attraverso incontri con i giovani (Bruck). Infine l’esigenza profonda di avere giustizia a cui dedicò la sua vita Sabine Zatlin, ricostruendo la memoria di un luogo e la storia di chi altrimenti sarebbe stato cancellato.
Riflessioni e spunti didattici tra storia, memoria, narrazione Il testo offre contributi interessanti per una ricostruzione storiografica che accosta, in una riflessione non convenzionale, le storie della Shoah e il conflitto di fine Novecento nell’ex-Jugoslavia.
Il saggio di Maria Bacchi Elementi essenziali per una cronologia delle guerre jugoslave inquadra sinteticamente la complessità della vicenda. Lo sguardo di lungo periodo coglie, nella battaglia di Kosovo Polije del 1389, uno degli snodi in cui “la storia viene usata come un coltello per smembrare una nazione.”5 Infatti, in tale battaglia, divenuta simbolo della nazione serba, i serbi furono sconfitti dai turchi dell’Impero ottomano. Allo stesso modo, nel conflitto che insanguina i Balcani negli Anni ’90, Seconda guerra mondiale e Resistenza vengono richiamate in modo distorto: “Dove erano i vostri padri, mentre i nostri combattevano i nazisti?” (Detto dai paramilitari serbi ai bosniaci mentre li torturavano). Con tali modalità si sanciva la negazione del principio di Unità e Fraternità su cui si era costruita la Repubblica Jugoslava di Tito fino alla nuova Costituzione del 1974, che, a giudizio di Bacchi, è sintomo e, insieme, fattore di disgregazione.
Il testo di Nella Roveri La memoria e i luoghi. Nonantola, Izieu, Sarajevo. Quadri della memoria Note di lettura6 richiama i concetti fondamentali di memoria individuale e collettiva e il loro ruolo nella ricostruzione storica, avvicinando le vicende della Shoah – Nonantola e Izieu – a quelle del conflitto di Bosnia (Sarajevo). Con l’istituzione dei giorni della memoria e del ricordo, in Italia e in Europa si rende ufficiale la memoria collettiva del gruppo di appartenenza (sia esso l’intera nazione o la comunità religiosa e politica) e se ne rischia, al contempo, la mitizzazione e/o la banalizzazione con pratiche di “uso pubblico della storia”. In proposito Biscarat pone la questione della significatività e dell’efficacia dei “viaggi della memoria”, in particolare ad Auschwitz, in inverno e con studenti fra i 13 e i 15 anni.7 Occorre invece una ricostruzione storiografica che renda ragione dei fatti, onde evitare per le guerre e gli stermini di fine Novecento i silenzi e le negazioni imposti dopo la Seconda guerra mondiale, quando la verità dei vincitori è diventata la storia ufficiale.8 Giulia Levi nella sua intervista del 2011 a Mirsad Tokača, direttore del Centro di Ricerca e Documentazione di Sarajevo – finanziato da enti internazionali e sponsor privati – ne mette in luce la metodologia di ricerca scientifica. Il Centro opera per una ricostruzione storica capace, incrociando fonti d’archivio plurime e di diverso tipo con le testimonianze dei sopravvissuti, sia di informare con dati certi, pur se non definitivi, sia di restituire nome, volto e dignità a ogni vittima. Il lavoro del Centro ha portato alla pubblicazione nel 2013 del volume The Bosnian Book of Death, in cui viene attestato il numero di 97.207 vittime accertato a quella data. Numero che si colloca tra le cifre minime (25/30.000) e massime (300/400.000) utilizzate per una ricostruzione strumentale e di parte dei fatti.
Un altro aspetto interessante del volume dal punto di vista didattico è il rapporto fra Storia e storie personali, in particolare le storie di cui Elvira, Edith e Keiji sono stati protagonisti e vogliono essere testimoni.
Elvira Mujčić e Edith Bruck utilizzano i modi della finzione letteraria e identificano nel romanzo e nella lingua italiana (non materna e, quindi, in grado di offrire più significati e una nuova identità) la forma più adatta a veicolare la propria vicenda, perché è nella trasposizione letteraria e attraverso una lingua acquisita che la propria storia più si avvicina alla verità.
Invece Keiji Nakasawa usa la forza narrativa del manga per raccontare “la sua esperienza di bambino che rimane solo con la madre in un inferno di fuoco, mostri e morte.”9 Il contesto storico e socio-culturale del Giappone nell’estate del 1945 e nel primo dopoguerra è ben descritto nel contributo di Rocco Raspanti, Un sussidiario del dolore. La storia di Gen di Hiroshima.10 Il contributo è completato da alcune strisce del fumetto manga, con traduzione italiana in calce. Strisce, a mio avviso, molto efficaci per una presentazione del tema “Hiroshima e bomba atomica” anche con gli allievi della Scuola Primaria.
In tutti e tre i casi la volontà di narrare si intreccia con il desiderio di collocare la propria storia nella Storia ed è molto evidente l’intento di consegnare alla Storia, con la S maiuscola, dati che le siano utili.
[Notas]1 Cfr. M. Bacchi, Racconti di guerra, di fuga, di esilio.Note di lettura, pag. 187.
2 Cfr. Elvira Mujčić, Scrivere la memoria, p. 227.
3 Cfr. M. Bacchi, cit. pag. 187.
4 Cfr. N. Roveri, L’evento, il silenzio, il racconto.Note di lettura, pag. 254.
5 Cfr. M. Bacchi, cit. pag. 186.
6 Cfr. N. Roveri, pp. 473 – 485.
7 Cfr. P.J. Biscarat, Izieu. La memoria e il luogo, pp. 507-532.
8 Cfr. in N. Roveri, cit., pag. 480; Cfr. Giulia Levi, Intervista a Mirsad Tokača pag. 557 e seg.
9 Cfr. N. Roveri L’evento, il silenzio e il racconto. Note di lettura, pag. 258.
10 Cfr. pp. 287- 322.
Silvana Citterio
[IF]In cammino. Breve storia delle migrazioni – BACCI (BC)
BACCI, Massimo Livi. In cammino. Breve storia delle migrazioni. Bologna: Il Mulino, 2010. 268p. Resenha de: DONDERO, Enrica. Il Bollettino di Clio, n.8, p.71-71, dic., 2017.
Il passato, il presente e il futuro delle migrazioni. Livi Bacci, uno dei massimi esperti italiani di demografia storica, non limita tuttavia il suo studio a una storia dei gruppi migranti nel lungo periodo, ma inserisce le dinamiche demografiche in una complessa rete di relazioni con quelle economiche, sociali, antropologiche, politiche e giuridiche. A partire da un presupposto – il desiderio di spostarsi è prerogativa ed essenziale componente dell’essere umano – il fenomeno migratorio è osservato da una pluralità di punti di vista: correlato nei suoi sviluppi ad atti politici che, di volta in volta, lo hanno favorito, vincolato o negato; strettamente connesso al progresso tecnico nella comunicazione e nei trasporti; fattore di powerful delle relazioni umane e delle interazioni, delle mescolanze bioenergetiche e culturali, della conoscenza, dei tratti culturali, dei linguaggi e dei comportamenti.
L’attenzione verso il solo aspetto demografico, unitamente alle alterazioni date da distorsioni percettive, luoghi comuni e stereotipi, ha prodotto una visione limitata e riduttiva del fenomeno: nel mondo del XXI secolo, le grandi migrazioni non vengono considerate un motore primario delle società, ma piuttosto una componente deformata del cambiamento sociale, un agente ingovernabile, un disturbo di fondo che distorce la regolarità della vita organizzata. In realtà, homo sapiens è homo movens; quasi il 10% della popolazione dei paesi ricchi ha avuto una storia di migrante: condizione esistenziale comune, quindi, non eccezionale.
Il testo di Livi Bacci, nato dalla sistematizzazione di riflessioni, spunti e scritti precedenti, si basa perciò sull’interpretazione delle migrazioni come specificità umana e fenomeno costitutivo delle società. L’ambizione è quella di precisare, provare e sostenere tale convinzione attraverso il metodo di studio del fenomeno e la sua sostanza e la struttura del volume rispecchia puntualmente le intenzioni: i primi tre capitoli fondano alcuni concetti e schemi interpretativi essenziali per uno sguardo ampio sul fenomeno migratorio; i tre successivi analizzano i sistemi migratori attraverso un indicatore diacronico; gli ultimi due capitoli, a partire da raffronti e analisi incrociate a livello mondiale, prefigurano politiche migratorie tendenti a rendere effettivo il diritto allo spostamento e a dare dignità a una popolazione “con diritti dimezzati”. È presente un’appendice che riporta puntuali dati statistici.
L’onda di avanzamento e le migrazioni lente: il paradigma è tipico degli spostamenti delle società agricole in territori spopolati o radamente insediati. Due aspetti sono caratterizzanti: la capacità di adattarsi ad ambienti diversi e la possibilità di generare un surplus demografico sufficiente per operare ulteriori avanzamenti. Sono coerenti con tale modello le forme di migrazioni preistoriche, ad esempio; o la grande colonizzazione medievale (Drang nach Osten) che, tra XI e XIV secolo, spinse l’espansionismo delle popolazioni germaniche a nord dei rilievi centrali della Boemia fino alla costa baltica; nell’area intermedia dai Paesi Bassi alla Turingia, alla Sassonia e alla Slesia; a sud in direzione delle pianure ungheresi lungo la via naturale del Danubio.
Questo processo di insediamento solleva rilevanti spunti di interesse: fu infatti un movimento intenzionale, organizzato e guidato da una vera e propria politica migratoria; ebbe un cospicuo effetto ‘fondatore’ (pochi capostipiti, molti discendenti); fu sostenuto da una notevole disponibilità di capitali. Tratti similari a quell’onda di avanzamento si possono ritrovare nel graduale popolamento del continente nordamericano, nel quale lo spostamento delle frontiere avvenne per fattori di natura politica, di attrazione e tecnologica (il completamento della ferrovia transcontinentale). Anche relativamente allo stanziamento nella Russia asiatica nel periodo precedente la prima guerra mondiale si possono rinvenire tracce di un’onda di avanzamento; ma in quel caso le intrusioni della politica zarista furono più vincolanti.
Il secondo capitolo introduce il concetto di fitness, capacità di adattamento. Il riferimento non va in modo esclusivo agli elementi biologici, ma anche ai tratti sociali, culturali, antropologici. I migranti non sono un campione casuale della popolazione di partenza: sono selezionati per alcuni caratteri, quali l’età, lo stato di salute, la capacità riproduttiva, la resistenza, la forza fisica; ma anche l’inclinazione a sperimentare il nuovo o caratteristiche acquisite, come un mestiere, possono costituire un vantaggio.
D’altra parte, l’ambiente di destinazione svolge una funzione altrettanto decisiva, anche in relazione all’’effetto fondatore’, cioè al processo che determina lo sviluppo di una nuova popolazione a partire da un ridotto numero di individui. Il caso delle migrazioni funzionali allo schiavismo evidenzia come l’insuccesso dipenda da fattori plurimi: le attività pesanti delle donne, la ridotta possibilità di trovare compagni, la bassa proporzione di coppie, la preferenza dei padroni a investire nel lavoro femminile piuttosto che nella nascita di creoli, la mortalità durante il viaggio e nelle piantagioni, la malnutrizione, il difficile acclimatamento, l’alta densità abitativa e la scarsa igiene.
Le politiche migratorie costituiscono un potente fattore facilitante o ostacolante le migrazioni, di cui si avverte il peso con lo svilupparsi delle prime entità statuali: in che modo influenzano gli esiti, le fitness dei migranti e il loro successo sociale ed economico? Un esempio paradigmatico di influenza positiva è individuato da Livi Bacci nel governo degli Inca, che organizzava insediamenti a carattere coloniale con finalità di presidio, di consolidamento della conquista e di specializzazione produttiva, ma con attenzione alla compatibilità ambientale ed ecologica. Impegno che non ebbero gli Spagnoli, i quali causarono conseguenze nefaste sugli altipiani e compromisero la fitness degli abitanti, indebolendone la sopravvivenza.
Un altro caso interessante si rinviene nella migrazione tedesca (Drang nach Osten) di cui si è già riferito, in particolare nel forte ruolo organizzativo dei principi, della Chiesa o degli ordini cavallereschi. Fu decisiva, in quel caso, la capacità di scegliere i terreni incolti, di distribuirli oculatamente ai coloni, di dotare questi ultimi di materie prime e utensili. L’accortezza della politica messa in atto portò, di conseguenza, a un successo demografico.
In epoca moderna, le monarchie assolute d’Europa ricorsero frequentemente a migrazioni organizzate, sulla base di una filosofia mercantilista sostenuta dall’idea che una popolazione numerosa fosse un pilastro del benessere delle nazioni. Due fattori principalmente motivavano le scelte migratorie: il primo, di natura economica, consisteva nel mettere in valore terre ancora incolte o poco coltivate; il secondo, di natura politica e strategica, mirava a rafforzare le aree di confine adiacenti a Stati ostili di cui si temeva l’aggressività.
Il caso della Maremma toscana, nel XVIII secolo, testimonia invece un tentativo finito in disastro. Pochi anni dopo l’insediamento voluto dal granduca lorenese Francesco II, la colonia era già sull’orlo dell’estinzione. Il rapidissimo declino fu dovuto sia all’abbandono, sia all’alta mortalità favorita da pessime condizioni igieniche, inadeguatezza delle abitazioni, abusi nella distribuzione del cibo, febbri malariche.
Le numerose analisi condotte e i confronti anche sul piano mondiale, gli esempi di migrazioni nel lungo e lunghissimo periodo e gli episodi che si esauriscono in pochi anni confermano la complessa struttura metodologica adottata dall’autore e la sua scelta di non limitarsi alla prospettiva demografica: i fenomeni migratori non possono essere ridotti alla contabilità dei flussi che partono o rientrano. Anche il fattore tempo incide sulle caratteristiche delle migrazioni: la periodizzazione adottata da Livi Bacci nei capitoli specificamente dedicati (XVI-XIX secolo; 1800-1913; 1914-2010) permette l’emersione di alcuni elementi significativi per capire come le condizioni interne a un’epoca siano influenti.
La grande rivoluzione geografica di inizio Cinquecento o la Rivoluzione industriale accelerarono i processi migratori interni ed esterni agli Stati perché fattori oggettivi migliorarono le condizioni della mobilità: progresso nella navigazione, aumento delle disponibilità energetiche, potenziamento delle infrastrutture, innovazioni tecnologiche, aumento dei consumi calorici.
La profonda trasformazione del mondo rurale e il dissolversi dell’antico equilibrio conseguenti allo sviluppo industriale determinarono un nuovo modello di migrazione nel XIX secolo. L’emigrazione europea assunse le caratteristiche di un fenomeno di massa: è il tentativo di uscire dalla trappola della povertà, la rottura di uno storico equilibrio tipico delle campagne basato sulla forza di tolleranza a condizioni ritenute immutabili. La migrazione, in questo caso, seleziona chi ha una solida motivazione, chi rifiuta l’adattamento, chi sa sfruttare appieno le opportunità offerte dal dislivello di circostanze economiche tra paesi di origine e paesi di destinazione.
A partire dalla metà del XX secolo e ancor più nel passaggio del millennio, assistiamo a una serie di fenomeni – alcuni congiunturali, altri strutturali – che modificano le caratteristiche delle vicende migratorie: l’inversione del ciclo di crescita economica, il ripiegamento demografico di alcune aree del pianeta, l’allentamento dei legami umani fra Europa e resto del mondo, l’esplosione di conflitti con sconvolgimenti che hanno pochi paragoni nella storia. Tutto ciò implica la necessità di riconsiderare i fenomeni migratori e le condizioni che li generano; si impone, ad esempio, il riconoscimento della differenza concettuale tra migrazione fisiologica e migrazione di rifugiati e profughi. Pezzi di mondo sono crollati, falliti, e la loro fine innesca partenze che portano sulle nostre coste il migrante nigeriano che fugge la fame e quello siriano che abbandona una città bombardata. Il loro arrivo confligge con le difficoltà legate all’assorbimento nell’attuale contesto economico occidentale, contrassegnato da una forte disoccupazione: come affrontare il problema, come valorizzare la possibilità di accoglienza senza che sia stravolta la struttura sociale ed economica del paese? Come conciliare il diritto che gli Stati hanno di governare i flussi migratori con il dovere di accogliere chi ha lo status di rifugiato? D’altra parte, l’attuale Europa a produttività frenata, in cui la popolazione anziana ostacola l’inserimento dei giovani ma determina anche un forte aumento della domanda di servizi personali, in cui si afferma una richiesta di qualificazione ad alto livello ma anche di sostegno a lavoro poco qualificato in settori come l’agricoltura e l’edilizia, apre altri interrogativi e rende problematico ogni tentativo di soluzione: ad esempio, l’idea di armonizzare andamento economico e migrazione e di programmare i flussi, da molti sostenuta, è risultata finora fallimentare.
I costrutti delle scienze economiche e sociali restituiscono la complessità della situazione e la necessità di alcuni radicali cambiamenti di rotta; voce sempre più isolata o almeno in controtendenza, Livi Bacci sostiene l’ipotesi di un governo internazionale del fenomeno, una istituzione sovranazionale alla quale possano essere cedute frazioni, anche minime, della sovranità statuale in ambiti connessi con le migrazioni. Ma suggerisce anche di cambiare la struttura mentale nell’approccio al fenomeno: non considerare il migrante solo nella sua condizione economica di forza lavoro, elemento estraneo alla società che lo accoglie, ma valorizzare la qualità del capitale umano, attivando politiche sociali finalizzate.
Ciò implica integrare i modelli interpretativi usuali con le idee di immigrazione di insediamento e di cittadinanza e affrontare nel dibattito pubblico, e quindi anche a scuola, i temi della crisi della regione di arrivo e di una strategia politica che contempli la volontà di inclusione.
Il libro fornisce agli insegnanti una grande ricchezza di elementi per un approccio ampio e articolato sul piano interdisciplinare, ma non elude un presupposto valoriale. Livi Bacci ricorda, infatti, in conclusione, una lezione fondamentale: “Quanta strada c’è ancora da fare per dare ordine e dignità a una delle prerogative fondamentali dell’individuo: quella di spostarsi nello spazio, senza ledere i diritti altrui e senza il timore che ai propri venga fatta violenza”.
Enrica Dondero
[IF]Introduzione alla World History – VANHAUTE (BC)
VANHAUTE, Eric. Introduzione alla World History. Bologna: Il Mulino, 2015. 268p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Il Bollettino di Clio, n.5, p.61-63, giu., 2017.
Per segnalare questo bel libro di storia cominceremo dalla fine, dall’ultima pagina. Qui E. Vanhaute conclude la sua chiara illustrazione della world history, affermando che in buona sostanza, con la sua moltitudine di scale e di paradigmi, essa ha l’ambizione di spiegare, dandole un senso, la presenza umana sul pianeta; e lo fa inquadrando la storia dell’umanità in un “contesto sempre più vasto, coordinato e organico”. La parola-chiave è appunto “contesto”. La storia, infatti, viene compresa quando si riesce a coglierne l’essenza e ciò è possibile quando si riesce a guardare gli umani muoversi nel mondo, nel mondo intero. Per secoli così non è stato. Vanhaute, citando Braudel, ricorda che “avendo inventato il mestiere dello storico, l’Europa se n’è avvalsa a proprio vantaggio”, costruendo una storia eurocentrica.
Ancora oggi che disponiamo di un patrimonio di conoscenze sterminato, molto più vasto che nel passato, la storia della non-Europa stenta a farsi, a causa della disparità a favore della civiltà occidentale nella distribuzione di conoscenza.
L’abbandono del modello eurocentrico non significa, però, la ricerca di un altro “centro”. La wh non adotta un’unica scala di spazio e di tempo, da cui far scaturire tutte le altre. Ogni scala ha una sua autonomia, anche se parziale, in quanto interdipendente da tutte le altre. Le società umane, ricorda Vanhaute, sono sempre collegate tra loro per mezzo di una molteplicità di sistemi: sistemi economici, sistemi migratori, sistemi ecologici, sistemi culturali. Mediante analisi comparate dei sistemi e delle loro interconnessioni in un quadro transnazionale si può riuscire a fornire qualche risposta alle domande basilari della wh, che sono: “
In che modo i gruppi delle popolazioni appartenenti a differenti contesti spazio-temporali conseguono obiettivi simili con mezzi diversi (la riproduzione del sé fisico, del lavoro, delle conoscenze e delle scoperte a cui sono giunti, dei modelli sociali e culturali e, infine, della loro società)? Quali fattori (esterni, ossia ecologici; interni, e dunque sociali) producono risultati simili o dissimili? In che modo le popolazioni sviluppano le loro società? E in che modo i sistemi sociali cambiano in seguito al contatto, all’interazione o al conflitto con altre società? Fino a che punto determinati sistemi sociali convivono fianco a fianco o prendono il sopravvento su altri sistemi?” (p.29).
Tre sono le dimensioni in cui si articolano le scienze umani e sociali: quella spaziale, quella temporale e quella tematica. Tutte e tre sono sempre frutto di scelte culturali: le scale spaziali, le periodizzazioni temporali, le unità di analisi tematiche. A tale proposito vale la pena di ricordare cosa non è (o non è soltanto) la wh. Essa non è:
“una storia universale o totalizzante: la storia di «tutto»; una storia internazionale: non è solo la storia dei rapporti tra le «nazioni»; una storia della civiltà (occidentale): è più di una storia dell’ascesa di una civiltà (occidentale);.
la storia del non-Occidente (in precedenza chiamata storia «coloniale» o «d’oltreoceano»: è più di una storia del mondo al di fuori dell’Occidente); una storia sociale comparata: è più di una storia comparata delle società; una storia della globalizzazione: il suo campo d’indagine è ben più vasto rispetto a quello della storia della globalizzazione.” (p. 27)
Vanhaute fa bene a sottolineare che le storie “universali” non costituiscono un’invenzione recente, anzi. Le narrazioni storiche che vanno oltre i confini spaziali del proprio paese hanno una lunga tradizione in Cina, Giappone, Asia sudoccidentale, nel mondo islamico, oltre che nella cultura occidentale. Ma sempre la concezione è teleologica: la propria civiltà costituisce il naturale punto di partenza e di arrivo, a dimostrazione della naturale propria superiorità. Le maggiori religioni monoteiste hanno elaborato un proprio specifico mito della creazione, mescolando predestinazione divina, mito e linguaggio simbolico con eventi realmente accaduti, con l’obiettivo di presentare una “verità generale, universale e spesso eterna”.
Vale la pena di ricordare due tra gli esempi riportati da Vanhaute: il De civitate Dei di sant’Agostino, la cui storia teleologica e senza tempo della città dell’uomo e della città di Dio fonda la tradizione dell’historia universalis del cristianesimo e le Storie nelle quali Erodoto cerca e descrive differenze e somiglianze dei popoli non-greci (barbaroi) con i greci.
Da segnalare, infine, la breve cronologia della storia umana proposta dall’autore all’inizio del volume, dopo aver precisato che il computo del tempo, pur rifacendosi al calendario cristiano, utilizza la dicitura “avanti e dopo era volgare”, «a.e.v.» e «d.e.v.», invece di «a.C.» e «d.C.» in quanto più neutra, così come vengono evitate categorie eurocentriche come «antichità», «Medioevo», «Rinascimento», «età moderna»:
Se questa è la scansione temporale delle principali trasformazioni che segnano i periodi della storia dell’umanità a scala mondiale, i temi presentati e sviluppati sono: la trasformazione demografica (un mondo umano), l’ecologia (un mondo naturale), l’alimentazione (un mondo agrario), le sovranità e i poteri (un mondo politico), le culture e le religioni (un mondo divino), l’Occidente e il resto del mondo (un mondo diviso), globalizzazione o globalizzazioni? (un mondo globale), sviluppo e povertà (un mondo diviso), unità e frammentazione (un mondo frammentato).
Sedici pagine di bibliografia e sitografia forniscono indicazioni di studio generale e tematico per una nuova storia dell’umanità.
Enzo Guanci Acessar publicação original
[IF]Frate Francesco | Grado Giovanni Merlo
Grado Giovanni Merlo deu a seu último livro um título simples e eficaz: Irmão Francisco- Frate Francisco. 2 Duplamente eficaz pela atração imediata; por um lado, por ser um santo familiar a todos (realmente patrono da Itália desde 1939) e, por outro, pelo atual papa (eleito em 13 de março de 2013) que, pela primeira vez na história da Igreja, tomou o nome de Francisco. Tratam-se de duas figuras distantes, distintas, mas coligadas por mais do que uma linha comum, por um fio brilhante de prata: duas figuras que não cessam de surpreender, atrair e fazer pensar. Para além da inevitável atração, o título deste livro não é nem São Francisco e nem Papa Francisco (dos quais agora se encontram muitos exemplares nas livrarias), mas o menos habitual Irmão Francisco- Frate Francisco, segundo uma das múltiplas intuições do Autor espalhadas fecundamente nestas páginas. Se “São Francisco” torna-se de modo consciente e programático “Irmão Francisco“, significa que este livro captura, sacode e desvia para outros lugares as nossas expectativas introduzindo-nos em um mundo novo e diferente. Leia Mais