Tratado breve de medicina y de todas las enfermedades. Estudio, selección y notas de Marcos Cortés Guadarrama | Agustín Farfán Fray

Tratado breve de Medicina de Agustin Farfan 1610. Detalhe de capa.
Tratado breve de Medicina, de Agustín Farfán (1610). Detalhe de capa.

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Canguilhem e a gênese do possível. Estudo sobre a historização das ciências | Tiago Santos Almeida

ALMEIDA Tiago S
ALMEIDA T Canguilhem 2Marlon Salomão e Tiago Santos Almeida. “VI Colóquio de História e Filosofia da Ciência: As ciências humanas”. Goiânia, 2019 | Foto: PPGH/UFG

Este libro es la reelaboración de la tesis doctoral defendida en la Universidad de Sao Paulo por Tiago Santos Almeida, profesor en la Facultad de Historia de la Universidad Federal de Goiâs, y sin duda una de los mejores conocedores actuales de la obra del filósofo, médico e historiador de las ciencias Georges Canguilhem. La monografía ha sido prologada Carvalho Mesquita Ayres, profesor de Medicina Preventiva en la Universidad de Sao Paulo, y esto no es una casualidad. A diferencia de lo acontecido en España, los estudios sobre Salud Colectiva y Medicina Preventiva fueron marcados decisivamente en Brasil, desde su despegue en la década de 1970, por algunos de los trabajos más representativos de la tradición francesa en historia de las ciencias, en particular textos como Lo normal y lo patológico de Canguilhem y El nacimiento de la clínica, de Michel Foucault.

El desafío del libro consiste en dilucidar, a través de distintas calas en la obra de Canguilhem, hasta qué punto existe un “estilo francés” a la hora de pensar la historicidad de las disciplinas científicas. En su indagación, el autor no recurre sólo a los volúmenes publicados por Canguilhem. Avalado por una prolongada estancia de investigación en el CAPHÈS (Centre d’Archives de Philosophie, Histoire et Èdition des Siences), donde frecuentó a algunos de los principales especialistas y discípulos del pesador francés (Limoges, Debru, Braunstein), utiliza entrevistas y artículos poco conocidos del filósofo de Castelnadaury, y lo más importante, un importante acopio de los manuscritos inéditos procedentes del Fond Canguilhem, sito en el mencionado centro. Leia Mais

La Spagnola in Italia 1918-1919 / Eugenia Tognotti

TOGNOTTI E Eugenia
Eugenia Tognotti / Foto: La Stampa /

TOGNOTTI E La Spagnola in ItaliaMisure di distanziamento sociale, sospensione delle riunioni pubbliche, divieto di assembramento, limitazione all’uso dei mezzi di trasporto, chiusura di scuole, chiese e teatri: il lockdown di un secolo fa. La storia delle pandemie ci riporta, con il libro di Eugenia Tognotti, al biennio 1918-’19, nel pieno della terribile Spagnola; in effetti, gli echi di una malattia che sembrava sfuggire a ogni possibilità di intervento umano non sono poi così differenti da quelli riportati dai media oggi. La difficoltà diagnostica legata alla scarsa specificità del quadro sintomatico, simile a quello di altre malattie influenzali, ma ben più letale, l’elevato potenziale contagioso, la concomitanza con la guerra fecero rapidamente delinearsi il quadro di una tragedia collettiva.

“… Fame, peste, guerra. In tutta Italia vi è una grande epidemia chiamata febbre spagnola che anche capitò a Monterosso, non vi potete immaginare quanta gioventù muore, se dura ancora non restiamo nessuno […]. Si muore come l’animali senza il conforto di parenti e amici”. Il tono tragico di questa come di altre lettere, inviate da cittadini italiani a congiunti e amici residenti all’estero e richiamate nel volume, non lascia dubbi sulla gravità della situazione venutasi a creare a seguito della diffusione della Spagnola. Tuttavia, la documentazione ufficiale di quegli anni non fornisce un riscontro corrispondente, né permette di rilevare le reali dimensioni del problema; anzi, ci restituisce l’immagine di un dramma che si delinea a tinte flebili, almeno nella prima fase. E se anche oggi non è raro trovare memoria orale della terribile malattia, meno presente e più sfumata è la versione dei canali divulgativi ufficiali, apparati ministeriali, trattati scientifici, organi di informazione; tanto che molti interrogativi ancora rimangono in attesa di una risposta. Sui giornali dell’epoca le tracce della prima ondata dell’epidemia sono ineffabili, la tragedia che si consuma ha ancora tratti deboli e contorni sfocati. Quasi nulla riesce a trapelare della reale diffusione, delle incertezze del mondo accademico e scientifico, delle disfunzioni del sistema sanitario.

Come mai tale silenzio? Evidentemente, c’erano buoni motivi perché la realtà fosse taciuta o sottostimata. Nell’Italia lacerata dal primo conflitto mondiale, la morsa della censura dello Stato che proibiva la pubblicazione di informazioni militari si strinse, nel momento più drammatico della guerra, anche attorno alla Spagnola, la guerra sanitaria: fornire al nemico austro-ungarico informazioni sulla gravità della situazione reale era considerato contrario agli interessi nazionali, soprattutto nel momento in cui si stava preparando l’offensiva decisiva. Le direttive governative erano ferree per quanto riguarda il controllo dell’informazione: prevedevano addirittura il sequestro per le testate che avessero pubblicato articoli esplicativi. In realtà, ben prima dell’arrivo della Spagnola i giornali si erano esercitati a tacere ogni notizia che potesse avere un effetto demoralizzante sulla popolazione, aggredita già da diverse malattie epidemiche, come il colera, il tifo e il vaiolo.

Dopo il negazionismo del primo periodo – tutt’al più trafiletti tranquillizzanti, brevi note dai tratti ironici sulle pagine locali – finalizzato al consenso e al sostegno al mondo economico e produttivo necessario per la gestione della contingenza bellica, si rileva l’evidente difficoltà delle agenzie governative nel controllo e nell’orientamento della stampa; il diritto del cittadino all’informazione rimase, comunque, fortemente limitato, anche se risultò impossibile nascondere totalmente la realtà quando l’epidemia raggiunse l’acme.

Il saggio di Eugenia Tognotti, pubblicato nel 2002 e aggiornato nell’edizione del 2015, fornisce nuove conoscenze sulla pandemia influenzale del 1918. L’autrice ricorre a una molteplicità di fonti per ricostruire gli aspetti epidemiologici e socio-sanitari, ripercorrendo la cronologia di quegli anni: carteggi amministrativi, provvedimenti delle Autorità sanitarie, relazioni ministeriali. Ma sono presenti e riccamente documentati, grazie alla ricerca effettuata sui quotidiani dell’epoca e negli archivi di scrittura popolare, anche altri tratti che possono efficacemente contribuire alla costruzione del quadro storico del periodo, come le relazioni sociali, i comportamenti dei soggetti, le credenze e le idee ricorrenti: l’impatto che il dilagare della malattia esercitò sull’immaginario e che trovano, in modo sorprendente, una forma di continuità nelle crisi epidemiche, dai tempi lontani alla contemporaneità.

Chi non ricorda la mesta colonna dei carri militari diretti al cimitero di Bergamo, recentemente proposta dai media? Allo stesso modo, le immagini delle salme trasportate con mezzi speciali, delle inumazioni senza la presenza delle famiglie, dei depositi di feretri presso il cimitero monumentale e la stazione tranviaria di Porta Romana di Milano ebbero, negli anni 1918-’19, un enorme impatto sociale. “Non più preti, non più croci, non più campane” riferiva desolata una donna foggiana al genero. Le principali componenti dei rituali funebri, le cerimonie per elaborare il lutto, la condivisione del dolore nell’ambito familiare, l’intreccio fra la dimensione privata e quella pubblica erano cancellati dalla morte per Spagnola. Le fonti epistolari esprimono lo sconvolgimento del vissuto, lo smarrimento e l’angoscia di fronte ai divieti. “E’ una malattia brutta e schifosa che non ti portano nemmeno in Chiesa”, scriveva un abitante di Bedonia in una lettera diretta a New York. Ancora più della morte, sembrava incutere paura la desacralizzazione del corpo, il suo essere considerato un fardello pericoloso di cui disfarsi prima possibile.

Sono stati “i prigionieri dell’isola dell’Asinara a portare il tifo, il colera e altre malattie contagiose. Le autorità non erano riuscite a isolarle come avrebbero dovuto”; quindi, “i venditori ambulanti che bazzicavano di nascosto gli appartamenti” li introducono nelle case. Le parole del prefetto di Alghero nell’anno 1915 ci ricordano che, anche prima che si manifestasse la Spagnola, un’epidemia assume i tratti del dispositivo di emarginazione. Accade oggi, succedeva in un passato ben più lontano, avvenne anche in quel difficile biennio. La necessità dell’igiene e della disinfezione diventava un’ossessione e, almeno in alcuni strati della società, nascondeva la fobia del contatto con quelle parti sociali – quasi sempre gli abitanti dei quartieri popolari delle città – che si sottraevano all’imperativo delle norme igieniche e che venivano, quindi, considerate a rischio. Si trattava dei soggetti socialmente fragili, che occupavano misere case e angusti tuguri, in vie marginali e cosparse di rifiuti. Se non era più possibile, in pieno XX secolo, l’allontanamento coatto delle masse minacciose dei derelitti fuori del contesto urbano, rimaneva, però, lo stigma contro i portatori di germi, pericolosi vettori della Spagnola, incapaci di adeguarsi alle norme igieniche dominanti.

In realtà, scrive la Tognotti, l’aggressione epidemica del 1918 costituisce un’eccezione a una costante sociale: non operò distinzioni di classe. Tuttavia, la prospettiva storica ci restituisce una novità sul piano demografico e sociale: particolarmente bersagliate dalla malattia, con una mortalità superiore a quella degli uomini, erano le donne. L’epidemia non si era incaricata di porre rimedio all’ineguaglianza di fronte ad una morte di genere, quella in guerra, che mieteva solo vittime maschili; altrove dovevano essere ricercate le ragioni di un fenomeno che colpiva la comunità ma che, all’epoca, non furono subito chiare: l’epidemia infierì in modo particolare sulle giovani donne e sulle ragazze che si erano appropriate quasi in esclusiva del compito di assistenza e di cura dei malati, nelle famiglie e fuori. Una rilevante presenza femminile si stagliava con forza sullo scenario pubblico e si concretizzava nella partecipazione alle riunioni operative, nella distribuzione dei generi alimentari, nel confezionamento dei dispositivi di protezione civile. Le donne, inoltre, supplivano la componente lavorativa maschile impiegata nella guerra, assicurando una funzione insostituibile nelle attività produttive: erano perciò particolarmente esposte al rischio del contagio.

La Spagnola, nelle tre ondate con le quali infierì su buona parte della popolazione mondiale, mieté quasi 20 milioni di vittime; una tragedia che si aggiunse a quella della guerra, nel cui contesto – le linee dei diversi fronti, nella loro condizione di debilitazione e di malnutrizione – trovò l’ambiente giusto per prosperare. Una tragedia, tuttavia, che, come si è detto, ha lasciato scarse tracce di sé nella storiografia; per questo ha un particolare valore il libro della Tognotti. La sua documentatissima ricerca può risultare utile innanzitutto alla storia della medicina, come fa notare Gilberto Corbellini nella presentazione del volume; può rendere consapevole il futuro medico che a monte delle conoscenze e delle pratiche correnti esiste un bagaglio straordinario di esperienze, fatto sia di successi sia di errori, e che egli stesso deve essere pronto a cambiare per apprendere le nuove spiegazioni a fronte dei progressi continui del sapere e delle connessioni fra le discipline mediche. L’autrice mette in evidenza il fatto che molti interrogativi sulla patogenesi, sulle caratteristiche epidemiologiche, sui modelli di mortalità specifica per età restano ancora senza risposta, mentre la comunità scientifica pone la sua attenzione all’emergere di virus influenzali percepiti come minacce capaci di sconvolgere il mondo globale e di renderlo ancora più vulnerabile sul piano economico e sociale. La comparazione con l’attualità proposta implicitamente dal volume contribuisce a formare un clima di consapevolezza culturale in relazione alle conquiste della scienza medica, ma anche alle correlazioni che vengono a istituirsi tra medicina e vivere sociale.

Il volume della Tognotti guarda al passato e centra l’attenzione sul nostro Paese, senza dimenticare le istanze che, necessariamente, una pandemia pone sul piano mondiale. E questo è senz’altro uno dei suoi elementi di forza anche sul piano formativo, allorché si voglia ricostruire eventi trascorsi per facilitare la comprensione di ciò che può accadere in caso di riproposizione del fenomeno. Si tratta di un progetto educativo ambizioso – fa notare ancora Corbellini -, che mira a reintegrare il valore culturale ed etico-sociale della medicina attraverso il recupero della dimensione storica del sapere medico. In effetti, le dinamiche delle pandemie influenzali sembrano essere esempi emblematici di come un interesse storico, articolato a più livelli, dalle ricerche paleomicrobiologiche alle reazioni socio-culturali, possa avere ricadute sul presente.

La ricerca della Tognotti contribuisce a colmare le zone d’ombra conseguenti alla rimozione della memoria, di cui molti manuali sono esempi. Fornisce una magistrale dimostrazione di come si elabora e diffonde sapere storiografico, dal momento che le origini e le caratteristiche della crisi pandemica forse più grave dell’umanità vengono ricostruite attraverso un’approfondita ricerca d’archivio, un attento esame della letteratura medica e un’estesa ricognizione dei mezzi d’informazione; il risultato è di sicuro interesse e fruibilità da parte del mondo della scuola. Mettendo in luce il rapporto tra guerra e malattie infettive, il libro mostra come i conflitti siano luoghi dell’esistenza che travalicano ogni linea di confine per intaccare le esistenze di tutti.

Le pandemie sono eventi che si ripetono nel tempo e ricorrono spesso con le stesse modalità, anche se mai in maniera del tutto uguale: il libro fornisce utili strumenti di analisi interpretativa e permette una riflessione approfondita e a tutto tondo su un argomento di grande attualità e di interesse globale.

Enrica Dondero


TOGNOTTI, Eugenia. La Spagnola in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-19). Milano: FrancoAngeli, 2015. Resenha de: DONDERO, Enrica. Il Bollettino di Clio, n.14, p.157-160, dic., 2020. Acessar publicação original 

Pasteur’s empire: bacteriology and politics in France, its colonies and the world | Aro Velmet

Fruto de tese de doutorado, Pasteur’s empire combina ferramentas analíticas próprias à história da ciência, à história da medicina e à história global a fim de mapear as consequências políticas e científicas do encontro entre a microbiologia e o império francês. Cronologicamente, o livro abarca uma faixa de tempo compreendida entre o início da colonização francesa na Indochina, na última década do século XIX, até a capitulação de 1940, que encerra oficialmente a Terceira República. Geograficamente, embora tenha uma pretensão quase totalizante expressa em seu título, o livro recobre sobretudo a França e as colônias da Indochina (atuais Vietnã, Laos e Camboja), da Tunísia e do Senegal (este último parte integrante da então África Ocidental Francesa).

Aro Velmet trabalha um tema em particular em cada capítulo, indo desde a gestão de doenças epidêmicas como a peste bubônica, a febre amarela e a tuberculose em alguns desses espaços coloniais, passando pela tentativa dos pasteurianos em estabelecer um monopólio sobre a produção e venda de álcool na Indochina ou pela transformação geral dos pasteurianos, “monges ascetas” na metrópole, em grandes capitalistas coloniais. Após essa viagem por pelos menos três continentes ao longo de quase 50 anos, Velmet conclui que essa época pasteuriana na história da medicina possui características muito próximas da era atual: trabalho em rede, conectado ao mercado global e capaz de fornecer soluções orientadas para as causas biológicas e não sociais dos problemas. Em razão dessa similaridade, Velmet afirma que o deslocamento da microbiologia da França para as suas colônias desvela uma possível origem da saúde global. Leia Mais

Medicina e saúde pública na América Latina | Marcos Cueto e Steven Palmer

CUETO Marcos
Marcos Cueto | Foto: José Jesus Oscar

CUETO M Medicina e saaúde pública na ALA doença pertence não só à história superficial dos progressos científicos e tecnológicos como também à história profunda dos saberes e das práticas ligadas às estruturas sociais, às instituições, às representações, às mentalidades.

Jacques Le Goff

A necessidade de se pautarem estudos do campo da saúde numa perspectiva histórica originou, nas últimas décadas, novos horizontes analíticos para as condições de emergência de saberes voltados à explicação do social na determinação de processos patológicos, bem como de práticas médicas e de saúde. Nesse quadro, a história estaria apta a compreender contextual e temporalmente as políticas de saúde e suas práticas confrontando novos temas, metodologias, problemas e alternativas que requalifiquem suas interpretações. Partindo, então, dessa necessidade da documentação mais ampla possível de vários tipos e origens (documentos institucionais, didático-pedagógicos ou iconográficos, registros de viajantes, religiosos, naturalistas e cronistas etc.) -, essa concepção de história da medicina e da saúde implicou a ampliação de métodos e quadros de análise, repercutindo os saberes e as práticas no campo da medicina e da saúde pública, assim como seus espaços institucionais de ensino, pesquisa e trabalho. Com a mesma força, ampliou as práticas e representações do homem comum e os espaços de associações profissionais, sociedades científicas e periódicos, sem perder de vista o universo popular, suas formas de organização e sua leitura do mundo que o cerca. Leia Mais

The surgeon in medieval English literature – CITROME (RBH)

CITROME, Jeremy J. The surgeon in medieval English literature. New York: Palgrave MacMillan, 2006. (The New Middle Ages Series). 191 p. Resenha de: SANTOS, Dulce O. Amarante dos. Revista Brasileira de História, São Paulo, v.29, n.57, jun. 2009.

O diálogo profícuo com a produção acadêmica francesa constitui-se em uma das principais características dos estudos medievais no Brasil, sobretudo no campo da história. A leitura crítica da obra em epígrafe contribui para a ampliação desse diálogo, desta vez com a produção inglesa, já que se trata da publicação, pela editora norte-americana Palgrave MacMillan, de uma tese de doutorado realizada na University of Leeds. Seu Institute for Medieval Studies, centro de referência na área dos estudos medievais, realiza anualmente o maior congresso internacional europeu da área. O autor, Jeremy Citrome, é atualmente professor assistente de literatura inglesa na University of Newfoundland and Labrador, no Canadá.

Na introdução, Citrome afirma que não se propôs a realizar uma obra de história da medicina nem de crítica literária, mas uma análise do poder social da metáfora do cirurgião nos textos poéticos religiosos e nos textos médicos em prosa, em língua vernácula, o inglês medieval (Middle English), no final da Idade Média. O rigor da investigação repousa na erudição do medievalista, que exibe domínio das fontes manuscritas e impressas além da extensa e valiosa bibliografia compulsada.

O exame da inter-relação entre os conceitos medievais de pecado e doença não é algo novo, muito menos a associação entre o físico (médico) e o padre confessor. O médico antigo cuidava da paixão (sofrimento) do corpo, o filósofo (e depois o padre confessor) aplicava-se a curar as doenças da alma, ou seja, os pecados. É bem conhecida também a imagem de Cristo como o Supremo Médico, aquele que traz o conforto físico e espiritual, perpetuada por Agostinho de Hipona. Essa imagem justifica-se, dentre outros fatores, porque grande parte de seus milagres foi cura de doentes (paralíticos, leprosos, cegos e surdos, entre outros) e igualmente porque trouxe a salvação à humanidade enferma pelo pecado. Nessa linha, nenhum físico poderia competir com as intervenções miraculosas de Deus.1 Outra questão abordada é a não distinção muito clara entre os físicos e os cirurgiões no período anterior ao século XIII, o grande divisor na história da medicina. Ambos podiam exercer as três estratégias da arte de curar os corpos enfermos: primeiro, a composição de regimes e dietas para a preservação da saúde corporal; segundo, a prescrição de remédios apropriados para cada caso e, por fim, o último recurso adotado quando os outros falhassem, a cirurgia, ou seja, a interferência direta no corpo. Este era pensado como criação divina, algo fechado (enclosure), sem lesões, inviolável, daí a proibição da dissecação dos cadáveres até o final do século XIV e o pouco desenvolvimento da anatomia. Além disso, para os gregos antigos a enfermidade era um processo de desestruturação interna do corpo humano. Para explicá-la Hipócrates de Cós (século V a.C.) criou a teoria humoral, retomada por Galeno (século II d.C.) e utilizada em toda a medicina medieval. Nessa teoria o corpo era formado por quatro humores ou compostos líquidos, a saber, sangue, fleuma, bile amarela e bile negra. A corrupção deles constituía-se na causa primeira de todas as doenças humanas.

Paralelamente ocorreu o debate em torno desta questão: a medicina era uma arte (techné ou ars) ou uma ciência (epistemé ou scientia)? Discussão interminável, que fazia da teoria uma ciência e da prática uma arte. Segundo Aristóteles, uma das grandes autoridades do período, a medicina estava mais para a techné grega (ou ars), porque mesmo sendo uma ciência fundada em princípios universais, tem como objetivo o incerto, o particular, o que lhe confere o estatuto de arte, no saber fazer. Porém, a medicina podia ser entendida como uma ciência, já que implicava racionalidade, explicação causal, observação, indução e dedução, previsões e hipóteses. Assim, nessa afirmação da medicina como um campo do conhecimento teórico no diálogo com a filosofia natural, os físicos escolásticos, atuantes nos Studia Generalia de Paris, Montpellier ou Bolonha, tornaram-se figuras proeminentes na hierarquia dos especialistas na cura das doenças: os cirurgiões, os barbeiros, as parteiras etc. É importante ressaltar que muitos físicos eram clérigos.

O grande mérito da obra de Jeremy Citrome consiste em sua contribuição para essas questões com sua nova leitura dos cânones do IV Concílio de Latrão (1215), destacando as repercussões nos meios médicos e eclesiásticos na época posterior. Nesse concílio, o papa Inocêncio III (1198-1216) implantou uma série de reformas, dentre as quais destacam-se a obrigatoriedade da confissão auricular anual para o perdão dos pecados e a proibição do exercício da cirurgia pelos clérigos, pois qualquer contato com sangue era incompatível com o exercício da atividade clerical. Consequentemente, a cirurgia passou a ser majoritariamente exercida por leigos e socialmente desprestigiada. No entanto, no final do século XIV e inícios do XV, a cirurgia começa a integrar o currículo dos cursos de medicina. Simultaneamente ocorre a proliferação de manuais de confissão2 e de cirurgia, tais como o de Guy de Chauliac e o de Lanfranco, em línguas vernáculas na Inglaterra e em outros reinos europeus. Assim, segundo Citrome, essas duas reformas foram responsáveis pelo aparecimento da metáfora da cirurgia como tratamento para ferimentos, entendidos muitas vezes como as marcas corporais do pecado. Praticamente todo manual de confissão no século XIV incorpora essa imagem dos ferimentos corporais ligados ao pecado, pois para esses clérigos a relação entre a aflição física e a espiritual não era meramente figurativa. Associavam aflições corporais com intemperança moral. Portanto, as feridas eram sinais das punições futuras dos pecadores no post mortem. O autor demonstra essa tese numa análise instigante das fontes literárias e médicas dos séculos XIV e XV.

A título de exemplo, Citrome explora o poema-sermão Cleanness, cuja narrativa linear de história sagrada bíblica inicia-se com episódios do Velho Testamento, o Dilúvio e a destruição da cidade de Sodoma, e chega até a Encarnação de Cristo no Novo Testamento. Ao dialogar com outros estudiosos do poema, demonstra, de forma interessante, a interface da medicina com a teologia, quando o autor anônimo (Pearl Poet) comparou as diferentes ações divinas, no Velho e no Novo Testamento, com tratamentos médicos opostos. O poeta reflete a divisão discursiva já referida entre as atuações dos físicos e dos cirurgiões, apresentando o Deus do Velho Testamento como cirurgião e Jesus Cristo, num segundo momento, como o físico que cura sem ferir. Assim, a primeira imagem é a de Deus como o cirurgião que queima e destrói o tecido corrompido do corpo social, justificando, portanto, a destruição punitiva para os sodomitas em função dos desregramentos sexuais, considerados pelo poeta como lesões ou fístulas que poderiam infectar toda a sociedade. Nessa estrutura discursiva e mental que trabalha com antíteses, Cristo torna-se, para o poeta, o físico que trouxe tratamentos médicos suaves, pois cura sem ferir os pecados humanos.

Em outro capítulo da obra, Citrome volta-se para a leitura crítica da obra Concilium consciencie, uma antologia de poemas sobre diversos temas religiosos do século XIV, de autoria do clérigo John Audelay. O exame desses poemas é duplamente valioso porque aponta para a ubiquidade da metáfora das lesões do pecado e também porque se trata de um relato autobiográfico de aflições vividas, dos sofrimentos crônicos, que defende a confissão como o único remédio verdadeiramente eficaz contra esses males. Assinala ainda os vários significados da doença na cultura penitencial do final da Idade Média, na Inglaterra, e a importância contínua da metáfora do cirurgião para os discursos de salvação.

A fim de contrapor fontes médicas às literárias de cunho religioso, o autor debruçou-se também na versão em Middle English da obra latina do século XIV, Practica, do cirurgião inglês John de Arderne. Num dos tratados desse texto, Fistula-in-Ano, Citrome desvenda a imagem ambivalente do cirurgião e de sua atividade porque corta, mas depois une, remove, porém logo restaura, fere e, por fim cura, assim como o próprio Deus. Dessa maneira, justifica a cirurgia como atividade salvadora e, ao mesmo tempo, defende a proposta de valorização social do seu ofício de cirurgião.

Por fim, convém ressaltar a abordagem interdisciplinar, hoje tão incentivada nas pesquisas científicas, mas nem sempre bem-sucedida, operada por Citrome tanto na composição do corpus documental quanto no diálogo com a historiografia social da medicina e com a produção da crítica literária sobre a época medieval. Este livro integra, assim, os títulos da série The New Middle Ages, organizada por Bonnie Wheeler, especialista em literatura medieval da Southern Methodist University (SMU), nos Estados Unidos, cuja marca distintiva é a publicação de estudos acadêmicos interdisciplinares sobre as culturas medievais.

Notas

1 AGRIMI, Jole; CRISCIANI, Chiara. Charité et assistance dans la civilisation chrétienne médiévale. In: GRMEK, Mirko (Dir.). Histoire da la pensée médicale en Occident. Paris: Seuil, 1995. p.151-174.         [ Links ]

2 Em Portugal traduziu-se o Libro de las confesiones de Martim Perez (Universidade de Salamanca, 1316).

Dulce O. Amarante dos Santos – Programa de Pós-Graduação em História, Universidade Federal de Goiás (UFG). Pesquisadora do CNPq – Campus II Samambaia. 74001-970 Goiânia – GO – Brasil. E-mail: dulce@fchf.ufg.br.

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Expressions of Mercy: Brisbane’s Mater Hospitals 1906-2006 – GREGORY; The Royal. A Castle Grand, a Purpose Noble. A History of The Royal Newcastle Hospital 1817-2005 – MARSDEN; HUNTER; A Proffesion’s Pathway: Nursing at St. Vincent’s since 1893 – SHEEHAN; JENNINGS (PHR)

GREGORY, Helen. Expressions of Mercy: Brisbane’s Mater Hospitals 1906-2006. Brisbane: University of Queensland Press, 2006. 279p. MARSDEN, Susan;  HUNTER, Cynthia. The Royal. A Castle Grand, a Purpose Noble. A History of The Royal Newcastle Hospital 1817-2005. Newcastle: Hunter New England Area Healt Service, 2005. 250p.; SHEEHAN, Mary; JENNINGS, Sonia. A Proffesion’s Pathway: Nursing at St. Vincent’s since 1893. Kew (Victoria): Arcadia, 2005. 218p. Resenha de: GODDEN, Judith. Public History Review, v.14, 2007.

These three hospital histories were written by experienced professional historians, all at ease with evaluating evidence and practised in conveying complicated scenarios to commissioning bodies and the public. The result is three excellent histories which provide a model for other professional historians. Their particular interest to readers of Public History Review is that they are also three very different books, illustrating very different approaches. Which one is best? As always, that depends. It depends most of all on the scope required by the commissioning body and the intended audience.

The narrowest in scope is Sheehan’s book on nursing at St Vincent’s Hospital in Melbourne. Sheehan also had the inestimable advantage of being able to draw upon five well-researched secondary sources. Two were relevant to the hospital (Bryan Egan, Ways of a Hospital: St Vincent’s Melbourne 1890s-1990s and Michael Tyquin, A Place on the Hill: The History of St Vincent’s Private Hospitals in Melbourne 1906-1993) and three to the general context of nursing in Victoria (Angela Cushing, A Contextual Perspective to Female Nursing in Victoria; Judith and Bob Bessant, Growth of a Profession: Nursing in Victoria 1930s-1980s; and Richard Trembath and Donna Hellier, All Care and Responsibility: A History of Nursing in Victoria 1850-1993). Sheehan had another great advantage in that she was a St Vincent’s trained nurse before becoming a professional historian. It is not surprising that she straddles with ease the perspectives of the ‘insider’ and the ‘outsider’. The result is an engaging book, basically written for St Vincent’s nurses but accessible to all interested in nursing or medical history. There are no surprises in the themes – such as the mindless discipline of early nursing, the camaraderie of the nurses’ home or the Sisters of Charity’s resistance to the Hospital being brought under state control – but they are evocatively told. External events are largely confined to introductory sections of each chapter, patient experiences to the last chapter and the nurses’ experience is mostly that of the laity. There are signs of haste in completion but the production values, especially photographs, are generally high.

Marsden’s history of Newcastle Hospital is quite different in concept and scope. She had to skate over nearly 200 years, but also considerably upped the ante by her emphasis on the hospital as community. In one sense all these histories do this in their stress on the staff of their hospital being, in Gregory’s words, a ‘family’, and also in their stress on their hospital’s links to the community. Marsden extends the notion by examining how the hospital shared in, rather than was simply influenced by, community fluctuations of fortune. She also, most innovatively of all, gives broadly comprehensive biographical vignettes. These are regrettably in tiny print but are worth reading. They include the expected senior administrators, doctors, nurses and fund-raisers but also patients, domestic and auxiliary staff and volunteers. These vignettes are all interesting and, as in the description of the life of the first indigenous nurse at the Hospital, revealing equally of broader history and individual character (in this case, resilience). Other aspects of Marsden’s book have much in common with the two others reviewed here, including an admirable attempt at impartiality when dealing with the many controversial issues and personalities that are part of any hospital’s history. She too uses photographs to enliven and add to the text.

Gregory’s history of the seven Mater Hospitals in Brisbane shares with the others the excellent standard of research, the generally high production qualities and attempt to weave individual stories into the broader context. She deliberately chose a broad brush (p336) approach and, it is hard to resist concluding, primarily wrote to meet the needs of her commissioning body. The end result is basically an administrative history which traces the many vicissitudes and triumphs of the Sisters of Mercy as they, or so it appeared to this reader, constantly stretched to the limit their resources and standard of care. The promised board-brush approach translates, especially in the last half of the book, into a sustained argument about state policy and its impact on the hospital. There is also a valiant attempt to conceptualise the history as an expression of Mercy values although the comparative neglect of the health of its nearby Aboriginal community, especially during most of the twentieth century, is an unexplained and glaring anomaly.

Still, this book is a valuable record even if one not as engaging to the general reader.

These then are three excellent hospital histories, all taking a different approach to suit different requirements. Only Sheehan had the luxury of rich secondary sources upon which to draw her more specialised study. Only Marsden could tap into the distinctive Newcastle sense of a community with its hospital as a centrepiece. Only Gregory chose to stress the dominant role of the state in determining the direction of recent healthcare.

These books indicate that hospital history is in good hands which hopefully will encourage more commissions. I am less confident that two other needed developments will be soon achieved. The first need is for a generalised history of Australian hospitals Public History Review, vol 14, 2007 160 so that developments in each hospital can be placed in context. The second need is a work where ‘nuns’ are so mainstream that we, as historians, critique them in the same spirit as we do the laity.

Judith Godden – University of Sydney.

Senior Lecturer, School of Public Health, University of Sydney

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Erário Mineral – FERREIRA (VH)

FERREIRA, Luís Gomes. Erário Mineral.  Organização de Júnia Ferreira Furtado. Belo Horizonte: Fundação João Pinheiro/Centro de Estudos Históricos e Culturais. Rio de Janeiro: Fundação Oswaldo Cruz, 2002, 2 Vol. ilustr. (Coleção Mineiriana, Série Clássica). Resenha de: MIRANDA, Tiago C. P. dos Reis. Óleo de ouro: as Minas e seus tesouros médicos e minerais. Varia História, Belo Horizonte, v.18, n.26, p. 156-163, jan., 2002.

Em 1735, Luís Gomes Ferreira, natural de São Pedro de Rates, na Província do Minho, fez estampar em Lisboa um grosso volume com o relato de mais de vinte anos de experiência a combater as doenças dos novos sertões da América Portuguesa. Denominou-o Erario Mineral dividido em doze Tratados, dedicado e offerecido á Purissima, e Serenissima Virgem Nossa Senhora da Conceyçaõ: título digno, alto e elegante embora engenhoso, logo à partida, e equivocamente alusivo às virtudes do ouro. Dele houve notícia Diogo Barbosa Machado, que o registou de forma sucinta no tomo terceiro da Bibliotheca, enobrecendo as circunstâncias do seu autor (“cirurgiaõ approvado”), em “professor de Chirurgia”.

Outros letrados da altura parecem haver acolhido com mostras de estima o lançamento desse trabalho de vulto. A começar pelos censores, que lhe gabaram a utilidade, e pelos poetas que compuseram versos encomiásticos, também publicados antes do texto de Gomes Ferreira. Estudos recentes de história do livro indicam que ele figurou com alguma freqüência em coleções coloniais, sobretudo na zona das Minas (José Maurício de Carvalho, “O que se lia no Brasil Colonial”, Cultura, Vol. XIV, 2002, p. 44). Chegou-se a notar, inclusive, ser o Erario o único título constante em várias listagens de impressos setecentistas da região de Sabará (cf. texto introdutório de Júnia Ferreira Furtado, p. 26). Estranhamente, porém, ao fim de umas décadas, tornar-se-ia muito difícil conseguir encontrá-lo.

Inocêncio Francisco da Silva, no início dos anos de 1860, dizia ter visto somente um exemplar, em poder de João José Barbosa Marreca, conservador da Biblioteca Nacional de Lisboa. Nada, de resto, aduzia de novo sobre o formato da obra, nem a respeito da origem de quem a escrevera. Num curto verbete do Diccionario, o que se acha é um juízo bastante severo sobre o valor das doutrinas de Gomes Ferreira, que sofreriam de uma aflitiva falta de “precisão, methodo, ordem, e conhecimento dos termos facultativos”, como se via de suas receitas para tratar a gafeira das bestas (sarna ou morrinha) ou os “sonhos medonhos e tristes”. A esse respeito, merecedora de referência seria também uma breve passagem em que o autor aludia à maneira como utilizava “os seus segredos nos enfermos encarregados a seus collegas, mas occultamente, porque elles lhos costumavão impugnar, de certo com boa razão”. Aos olhos severos de Inocêncio, os preciosos saberes de Gomes Ferreira, por não guardarem qualquer paralelo com “formulas e dimensões pharmaceuticas”, só soavam apenas “disparatados”.

O vagaroso processo subseqüente de reabilitação processou-se sobretudo no campo da história da medicina, e no Brasil. Ainda em meados da década de 1880, pôde o Erario assegurar a sua presença numa importante iniciativa universitária para valorizar o patrimônio bibliográfico nacional (v. Carlos António de Paula Costa, Catálogo da exposição medica brasileira…, Rio de Janeiro, Typografia Nacional, 1884). Anos depois, seria citado num estudo de Álvaro A. de Sousa Reis (“História da literatura médica brasileira”, Revista do Instituto Histórico e Geografico Brasileiro, Vol. 9, 1922, pp. 501-549), basicamente com o mesmo propósito de enumeração que ainda se havia de observar num pequeno apanhado sobre práticas médicas coloniais que em 1960 Lycurgo Santos Filho redigiu para o volume segundo da História Geral da Civilização Brasileira (p. 157), dirigida por Sérgio Buarque de Holanda. Este foi, aliás, um dos raros autores que, até ao final da década de 1950, parece ter lido Gomes Ferreira em busca de dados originais: com a espantosa familiaridade de quem freqüentava os títulos mais obscuros, no seu ensaio “Metais e pedras preciosas” Sérgio Buarque de Holanda recorreu ao Erario para aduzir um efêmero exemplo individual em favor da idéia da probabilidade de um ingresso significativo de estrangeiros na região das Gerais, no início do século XVIII (Ibidem, p. 289).

Muito menos contido se veio a mostrar, logo em seguida, o erudito e historiador anglo-saxônico Charles Ralph Boxer. Vários parágrafos de um dos capítulos centrais de A Idade do Ouro do Brasil (1962) assentam sobre passagens de Gomes Ferreira. Dele são, entre outros, alguns testemunhos das condições inumanas a que se viam submetidos os negros faiscadores, das diferentes categorias em que na altura os próprios colonos os classificavam, e das doenças ou ferimentos que afligiam tanto os escravos, como os senhores da zona das Minas. Na pena de Boxer, as qualidades profissionais de Gomes Ferreira merecem leitura compreensiva: pelo cuidado em prescrever o banho diário e pelo empenho com que evitava o recurso à sangria e ao purgante, “nosso cirurgião estava muitos anos à frente de sua época” e sua obra constituiria “fascinante prólogo para um moderno Manual de Medicina Tropical”.

Tamanho encanto foi o de Boxer, que, após alguns anos, foi ele outra vez quem teve o cuidado de assinalar a obtenção para o acervo da Lilly Library de um espantoso novo espécime bibliográfico: Erario mineral, utilissimo, não só para os professores de cirurgia que residem na America Portugueza, a cujo beneficio particularmente se escreveo, mas universalmente para todos, os que professão a mesma faculdade… Agora novamente impresso, e augmentado com hum copioso numero de exquisitas, e admiraveis receitas… Lisboa, 1755. Dois volumes in-quarto (“A Rare Luso-Brazilian Medical Treatise and its Author: Luís Gomes Ferreira and his Erario Mineral of 1735 and 1755”, Indiana University Bookmark, Vol. 10 [Nov., 1969], pp. 48-70, in Opera Minora, Edição de Diogo Ramada Curto, Vol. II [Orientalismo], Lisboa, Fundação Oriente, 2002, pp. 221-234). Até ao momento, essa segunda edição nunca fora devidamente descrita. Voltando portanto a insistir no interesse da obra, Charles Boxer soube agarrar a ocasião para alargar os seus comentários na Idade do Ouro, debater um recente trabalho de Ivolino de Vasconcelos sobre o trajeto de vida de Gomes Ferreira (“Notícia histórica sobre Luís Gomes Ferreira e sua obra, o Erario Mineral”, Anais do Congresso Comemorativo do Bicentenário da transferência da sêde do governo do Brasil da cidade do Salvador para o Rio de Janeiro, 1763-1963, Vol. III, Rio de Janeiro, Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro, 1967, pp. 375412) e sugerir a existência de algumas passagens revistas e ampliadas no Tratado Terceiro do exemplar recém-descoberto. A apurada comparação das duas versões demoraria mais de três anos a efetuar-se, por causa da dificuldade de acesso ao texto de ‘35. Quando por sorte, em Indiana, se adquiriu um exemplar da primeira impressão, Charles Boxer pôde afinal confirmar a validade de suas hipóteses (“A Footnote to Luís Gomes Ferreira, Erario Mineral, 1735 and 1755”, Indiana Universty Bookmark, Vol. 11 [Nov., 1973], pp. 89-92 in Opera Minora [Supra cit.], pp. 235-237).

Atualmente, parece não haver notícia de outro qualquer conjunto completo de 1755. Ao que se sabe, apenas existe o registro de uma cópia do segundo volume na Biblioteca da Faculdade de Medicina de Lisboa (Catálogo das obras da Colecção Portugueza anteriores à fundação das Régias Escolas de Cirurgia em 1825, Lisboa, 1942, p. 138). Rubens Borba de Moraes limita-se a informar que se trata de edição ainda mais rara que a primeira (Bibliographia Brasiliana, Rio de Janeiro, Livraria Kôsmos Editora, [1983], Vol. I, p. 307).

Quanto ao tomo de ’35, Charles Ralph Boxer referiu a existência de oito exemplares; quatro, no Brasil. Infelizmente, pouco mais disse a esse respeito, além de que um deles estava na posse de familiares de Gomes Ferreira, no Rio de Janeiro. Sabe-se agora que, ainda no Rio, se acha também um exemplar na Fundação da Biblioteca Nacional, e um segundo, na FIOCRUZ. Em Belo Horizonte, o Centro de Memória da Medicina da UFMG possui uma cópia em que falta uma folha. Por fim, em Sabará, encontra-se outra a necessitar de restauro na coleção da Biblioteca Borba Gato.

As indicações bibliográficas das “Bases de dados sobre história da ciência, da medicina e da técnica em Portugal e Brasil, do Renascimento até 1900” (Lusodat), do Grupo de História e Teoria da Ciência da Universidade de Campinas (http://www.ifi.unicamp.br/~ghtc/lusodat.htm), permitem a localização de um bom exemplar na Biblioteca da Faculdade de Medicina da Universidade do Porto. Os Reservados da Biblioteca Nacional de Lisboa têm uma cópia em estado satisfatório, originária da livraria de D. Francisco de Melo Manuel da Câmara (Cabrinha); possivelmente, a que leu Inocêncio. É, no entanto, na Biblioteca de Mafra que parecem estar dois dos mais soberbos espécimes da rara edição de 1735: encadernados em inteiras de pele e com lombadas marcadas a ferros de ouro, praticamente não apresentam indícios de uso. Foram descritos em 1963 no catálogo datilografado de Guilherme José Ferreira de Assunção, “O Brasil nas obras da Biblioteca do Palácio Nacional de Mafra”, que nos últimos anos de vai ampliando (muito agradeço as informações facultadas a este respeito pela bibliotecária, Dr.ª Teresa Amaral).

Cabe agora ao Centro de Estudos Históricos e Culturais da Fundação João Pinheiro a importante iniciativa de facilitar o acesso ao texto do Erario, lançando-o na Série de Clássicos da sua já longa “Mineiriana”. Trata-se de edição acadêmica em dois volumes fartamente ilustrados. Logo a abrir, vê-se a imagem do frontispício do exemplar da Biblioteca Nacional do Rio de Janeiro, singularizado por marcas de traça marginais. Não aparece aí o carimbo de posse “Da Real Bibliotheca”, porque o puseram na folha de rosto da dedicatória “Á Puríssima Virgem Maria Nossa Senhora da Conceyção”. Quem o quiser conferir, encontrará igualmente na folha de guarda um pequeno lembrete em caligrafia cursiva setecentista: “Este Livro entregou/ o Pe Fr Antº de S Martinho/ da Provª da Solede pª q lho goar/dassem”.

Do dossiê iconográfico, também fazem parte algumas dezenas de reproduções de ex-votos do século XVIII, cenas de práticas médicas, interiores de hospitais, instrumentos de cirurgiões, utensílios de farmácia e plantas curativas. O quotidiano das Minas do Ouro surge em imagens de catas e negros. Algumas delas, oitocentistas. De interesse especial é um retrato de um homem maduro, de condição mediana, que, segundo se crê, representa Gomes Ferreira.

Esta nova publicação atualiza a ortografia do texto de ’35, mesmo nos versos encomiásticos introdutórios. Preserva, porém, as regências verbais, as contrações de preposição e artigo, e a maior parte das letras maiúsculas. Realça, além disso, em tipos de itálico, os nomes das obras e dos autores citados e as palavras e construções em latim. Graficamente, conservam-se ainda os pequenos resumos de colocação lateral e a disposição do índice de “coisas notáveis”, no fim do volume. Capitulares da “Officina do Impressor do Senhor Patriarca”, Miguel Rodrigues, rematam, por vezes, o termo das páginas.

Mais de uma dúzia de profissionais colaboraram neste projeto. Só para os glossários, contam-se sete. Escrevem ensaios temáticos cinco outros estudiosos: Eliane Scotti Muzzi, Ronaldo Simões Coelho, Maria Cristina Cortez Wissenbach, Maria Odila Leite da Silva Dias e a organizadora, Júnia Ferreira Furtado. É esta que abre o primeiro volume, com um trabalho em que procura reconstituir o percurso do autor, valorizando uma série de dados que ele próprio fornece, pelo cotejo com informações de caráter geral. Merece destaque a bem-sucedida reconstrução dos laços sangue e afinidade dos Gomes Ferreiras em diferentes paragens da arquidiocese de Mariana. Mesmo o leitor menos atento à história das Minas há de encontrar interesse nos vários indícios de proximidade do cirurgião e seu sobrinho José ao negociante João Fernandes de Oliveira, titular do primeiro contrato de diamantes na região do Tejuco e pai do senhor de Chica da Silva (pp. 20-23).

Maria Odila Leite da Silva Dias parte também do pormenor biográfico, para propor uma nova visita a todo o “Sertão do Rio das Velhas e das Gerais”, como “frente de povoamento”. As desventuras de Gomes Ferreira e os relatos de suas curas permitem rever a constituição dos grupos humanos que se encontraram no território, e observar as modalidades de interação que entre eles se foram tecendo, muitas vezes à margem da lei. Em Sabará, por exemplo, a autoridade dos governadores apenas chegou anos depois do surgimento de várias fazendas e arraiais. Ainda assim, por muito tempo, a maioria das “vilas” da zona das Minas conservaria feições bastante precárias, com suas casas de pau e taquara cobertas de barro, que a força da chuva trazia para as ruas, em forma de lama. A capacidade de reunir testemunhos escritos que hoje permitem rememorar vizinhanças inteiras de núcleos urbanos tão frágeis (pp. 91-95) não deixa de ser espantosa.

Os quinze poemas que antecedem o “Índex dos Tratados e Capítulos” existentes no Erario têm direito a um ensaio em separado. Ciente da relativa estranheza que o leitor atual deve sentir diante dos “protocolos que codificavam os gêneros do discurso nos século XVII e XVIII”, Eliane Scotti Muzzi dedica-se a apresentar em linhas gerais a estrutura do sistema de ensino neoescolástico e a esclarecer a importância que, na altura, se atribuía ao retórico. Especificamente sobre a origem das obras poéticas da edição de ‘35, que se supõem compostas por indivíduos “participantes da realidade das Minas”, parece assumir-se uma certa dificuldade em descobrir elementos de comparação inteiramente operativos no patrimônio setecentista da literatura colonial (p. 34). A referência (quase canônica) à atividade das academias provinciais, como a do Aureo Throno Episcopal (1748), sugere a hipótese de que um tão grande conjunto de versos talvez também se pudesse haver concebido, “precocemente”, para ofertar ao autor do Erario, em ato público. Nele teriam, portanto, participado Tomás Barroso Tinoco, Tomás Pinto Brandão, João Bernardes e dois ou três outros “poetas de circunstância” (ibidem), amigos de Gomes Ferreira – que, por suposta modéstia, se não assinaram.

Dessa seqüência de nomes, ressalta o de Pinto Brandão. Embora ainda não se conheçam em pormenor as circunstâncias da sua vida, sabe-se há muito que escreveu em Lisboa poemas satíricos e joco-sérios durante a maior parte do longo reinado de D. João V (Diogo Barbosa Macado, Opus cit., Vol. III, pp. 747-748). Tem-se tido por certo que visitou o Brasil por mais de uma vez, chegando a travar amizade com Gregório de Matos. No Rio de Janeiro, parece haver conseguido ajustar matrimônio com uma certa Josefa de Melo, antes de retornar ao mundo da corte, no início da Guerra da Sucessão Espanhola (v. Tomás Pinto Brandão, Antologia. Este é o Bom Governo de Portugal, Prefácio, leitura de texto e notas de João Palma-Ferreira, [Mem Martins], Publicações Europa América, 1976, pp. 5-7, Alberto Dines, Vínculos do Fogo, 2ª edição, [São Paulo], Companhia das Letras, [1992], pp. 508-509, Jair Rattner, Verdades pobres de Tomás Pinto Brandão. Edição crítica e estudo, Lisboa, Dissertação apresentada à Faculdade de Ciências Sociais e Humanas da Universidade Nova de Lisboa, 1993, pp. 21-29, e Adriano Espínola, As Artes de Enganar. Um estudo das máscaras poéticas e biográficas de Gregório de Matos, [Rio de Janeiro], Topbooks, [2000], pp. 203 e ss.). Ao publicar a mais volumosa das suas obras (Pinto renascido empenado, e desempenado. Primeiro Voo, Lisboa, Officina da Musica, 1732), morava na rua do Picadeiro, ao Bairro Alto (cf. Júlio de Castilho, Lisboa Antiga. O Bairro Alto, 3ª ed., Vol. II, Lisboa, Oficinas Gráficas da Câmara Municipal de Lisboa, p. 209). Não é improvável que conhecesse e cultivasse o convívio com indivíduos que, tal como ele, tinham passado uma parte importante das suas vidas em territórios coloniais; mais de uma vez, já se mostrou uma efetiva tendência para a conservação desse tipo de laços (v., por exemplo, Jaime Cortesão, Alexandre de Gusmão e o Tratado de Madrid, T. I, Vol. I, Rio de Janeiro, Ministério das Relações Exteriores, [1952], pp. 107-119, e Alberto Dines, Opus cit., passim), praticamente inevitável em alguns grupos, como o dos grandes comerciantes (v. Jorge Pedreira, “Brasil, fronteira de Portugal. Negócio, emigração e mobilidade social”, in Mafalda Soares da Cunha [coord.], Do Brasil à Metrópole. Efeitos Sociais, séculos XVII-XVIII, [Évora], Universidade de Évora, 2001, pp. 63-69). De qualquer modo, nada comprova que Tomás Pinto tenha, de fato, “participado da realidade das Minas” em condições equiparáveis às do autor do Erario.

Os dois derradeiros ensaios da série de cinco tratam do tema da inserção social dos cirurgiões da colônia e do saber e experiência acumulados por Gomes Ferreira. Maria Cristina Cortez Wissenbach reúne com desenvoltura as trajetórias de mais de uma dezena de profissionais, mostrando a disparidade de suas origens e estatutos. Ao discorrer sobre o Erario, mostra também a existência de um intrincado convívio entre a “ciência” colhida nos livros e as tradições forjadas na prática: na expressão de Pedro Nava, “amálgama inseparável na obra dos mestres portugueses” até ao final do XVIII (p. 132). Se algo se encontra, a este propósito, que singularize Gomes Ferreira é o cuidado com que descreve as condições específicas do interior do Brasil e as receitas aí adoptadas, com largo recurso às riquezas nativas. Botânicas e minerais.

Mesmo no centro do livro, há um tratado “da rara virtude” de um dos mais nobres medicamentos que na altura se utilizava: o “óleo de ouro”. Diz o autor que “assim como o ouro é o soberano de todos os metais, assim também o seu óleo é o mais soberano remédio que até o dia de hoje se tem descoberto […]” (p. 489). Formulação grandiloquente, mas acadêmica e assisada; pois, nesses tempos, não falta quem creia que o ouro “[…] conforta o coração, & as faculdades vitaes […]”, podendo inclusive ser consumido como “ouro potável”, na esperança de reduzir os achaques e prolongar os anos de vida (Raphael de Bluteau, Vocabulario Portuguez e Latino, Vol. VI, pp.148-152 e 651-652). Gomes Ferreira resiste a deixar que o brilho das Minas o leve tão longe: sempre que trata do uso do ouro, mantém-se restrito à consagrada receita do “óleo”. A abundância com que depara permite, porém, empregá-lo nas mais variadas patologias, que ele enumera pelo relato de casos concretos, com um orgulho de pioneiro: gangrenas, furúnculos, carbúnculos, fleumões, antrazes, panarícios, apóstemas, cirros, cancros, feridas de peito e carnes supérfluas. Todo o senhor que possa pagá-lo, deve deter uma pequena porção de óleo de ouro em sua casa. Não só para si, ou para a sua família, mas, igualmente, em benefício dos pobres (p. 513). Como resume Ronaldo Coelho, o alegado sucesso de Gomes Ferreira se assenta de fato num amplo conjunto de qualidades (pp. 151-154 e 167-168).

Fica o desejo de que esta última iniciativa do Centro de Estudos Históricos e Culturais da Fundação João Pinheiro possa ser divulgada como merece e, se possível, que incentive outros trabalhos de reedição de textos setecentistas pouco comuns.

Tiago C. P. dos Reis Miranda– Centro de História da Cultura/ Universidade Nova de Lisboa.

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Erário Mineral – FERREIRA (VH)

FERREIRA, Luis Gomes. Erário Mineral. 2ed. Belo Horizonte: Centro de Memória da Medicina, 1999. Resenha de: FIGUEIREDO, Betânia Gonçalves. Varia História, Belo Horizonte, v.16, n.23, p. 239-241, jul., 2000.

Depois de alguns anos de espera, foi finalmente lançada, pelo Centro de Memória da Medicina de Minas Gerais, UFMG, a segunda edição do Erário Mineral. O lançamento foi cercado de pompa e circunstância, como não poderia deixar de ser, pois é conhecida a dificuldade encontrada para empreender projetos como este nos espaços acadêmicos.

É interessante observar que havia uma proibição quanto às edições do Erário Mineral, solicitada pelo próprio autor, Luis Gomes Ferreira, junto às autoridades portuguesas. De acordo com o proponente, a solicitação fazia-se necessária considerando os altos custos de produção da obra. Nesse caso, o próprio autor seria o responsável pela comercialização do texto podendo, deste modo, recuperar o investimento realizado. A “provisão de privilégio” foi concedida em 22/11/1735, por dez anos, e significava que nenhum livreiro, impressor ou qualquer outra pessoa poderia, durante esse período, imprimir, vender ou mandar vir de fora do Reino o dito livro1. Desde então passaram-se mais de duzentos anos até que pudéssemos adquirir um exemplar de um dos compêndios de saúde utilizados nos séculos XVIII e XIX, especialmente no ambiente das Minas Gerais, sem ter necessidade de recorrer ao mercado de livros raros.

O Erário Mineral iniciou sua circulação em Lisboa em 1735 e a dedicatória é encaminhada “À puríssima Virgem Maria Nossa Senhora da Conceição, Mãe e advogada de todos os pecadores.”2 Mesmo confiante na sua formação, que lhe conferia o título de cirurgião-aprovado, o médico do século XVIII solicitava sempre a ajuda do mundo transcendente, e com Luis Gomes Ferreira não foi diferente. Daí a dedicatória à puríssima Virgem, acompanhada do pedido implícito de proteção.

Luis Gomes Ferreira estudou cirurgia em Lisboa, no Hospital Real de Todos os Santos, obtendo carta em 1705. Trinta anos depois, com experiência acumulada no Reino e no Brasil, divulga sua grande obra. Boa parte da sua experiência foi adquirida no cuidado ao corpo doente da população que habitava as Minas nas primeiras décadas do oitocentos. Chegou ao Brasil antes de 1710 atuando inicialmente na Bahia. Depois dessa data, circulou por várias localidades de Minas Gerais. São vários os casos de pacientes mineiros tratados por Gomes Ferreira citados ao longo do Erário Mineral.

A presente edição é fac-similar e, além dos cuidados com a reprodução do texto em si, toda a edição recebeu tratamento especial: capa dura e papel com cor envelhecida especialmente pintada para essa edição. Por certo os exemplares desta nova edição irão durar aproximadamente mais 250 anos, se consideramos a data da primeira edição.

Todo pesquisador da história da medicina no Brasil, mais especificamente, ou da história sócio-cultural no Brasil, reconhece a importância desta obra. O Erário Mineral faz parte da leitura obrigatória de todo pesquisador nessas áreas e, em especial, daqueles que investigam a região mineira. A disponibilidade deste texto nos arquivos mineiros é bem precária. Podemos encontrar um exemplar no acervo da Casa Borba Gato/Museu do Ouro, sob responsabilidade do IEPHA e há também uma edição no Acervo da Mina de Morro Velho, além do exemplar no Centro de Memória da Medicina/UFMG.

Quando o pesquisador depara-se com uma obra de importância como o Erário Mineral e a disponibilidade de consultá-la através de uma edição fac-similar fica mais fácil o trabalho de pesquisa. A regra básica dos documentos recolhidos nos acervos documentais é a não disponibilidade para empréstimos, por questões de segurança. Esta condição é necessária para preservação do acervo, muito diferente da natureza do acervo bibliotecário tradicional. A documentação que constitui os acervos históricos, incluindo os livros (obras de referência, obras raras) são documentos, quando não únicos, raros, de difícil acesso. Com o passar do tempo, a sua conservação exige cuidados especiais e estão sob a guarda e responsabilidade da instituição recolhedora. Este procedimento exige do pesquisador uma dedicação de tempo significativa. Algumas obras, devido à sua importância e repercussão nos meios acadêmicos, chegam a ser digitalizadas ou microfilmadas para que possam encontrar-se disponíveis pela internet ou por empréstimo/aquisição do microfilme. Este procedimento ainda não foi adotado para o Erário Mineral, valorizando ainda mais a recém lançada edição fac-similar.

O Erário Mineral, dividido em doze tratados, aborda os temas variados que poderiam auxiliar os enfermos nas regiões onde a existência de poucos médicos era regra. Trata-se assim de um verdadeiro guia indicando as doenças e problemas de saúde mais comuns para a população, não apenas das Minas Gerais, mas de qualquer localidade onde a freqüência de médicos era baixa. As informações de que dispomos não nos possibilitam afirmar, mas podemos indicar que médicos, com as qualificações de Luis Gomes Ferreira (cirurgião-aprovado) também utilizavam-se do manual de saúde, isto sem contar com os práticos na arte de curar, que não eram poucos diante da ausência de médicos formados.

O Erário Mineral não está sozinho neste ramo de publicação. Eram comuns obras nesse estilo, que visavam socorrer aqueles que enfrentavam problemas de saúde e os práticos/profissionais ou, para utilizarmos expressão da época, os versados na arte de curar, responsáveis por aliviar a dor e os males do corpo adoentado. Ao longo dos doze tratados do Erário Mineral podemos encontrar as doenças mais comuns, os remédios mais indicados, com suas respectivas formulações, o tratamento das fraturas e deslocamento dos membros, aspectos positivos e negativos da alimentação, permitindo um amplo leque de investigação sobre o mundo da cura no século XVIII: reconstrução do quadro nosológico, entendimento de corpo, doença e saúde, percepção dos procedimentos para restabelecimento do equilíbrio da saúde. Toda esta trajetória está pautada nos pressupostos da teoria dos Humores, herdada de Hipócrates e adaptada por Galeno.

O Erário Mineral cita vários exemplos colhidos da prática e experiência do autor na região mineradora das Minas Gerais. Mais um ponto interessante para os pesquisadores do tema: é possível desenvolver investigação das doenças e condições de saúde presentes entre a população trabalhadora, basicamente mão-de-obra escrava, nas Minas do século XVIII.

Como trata-se de uma edição especial, talvez não seja fácil encontrar o Erário Mineral em qualquer livraria. O mais indicado é entrar em contato com a equipe do Centro de Memória da Medicina, situado na Escola de Medicina da UFMG (http://www. medicina.ufmg.br/cememor). Os pesquisadores das práticas de saúde nos séculos XVIII e XIX agradecem e aguardam novas iniciativas do gênero.

Betânia Gonçalves Figueiredo – Professora do Departamento de História e pesquisadora do Grupo Scientia e Technica- UFMG.

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A paixão transformada: história da medicina na literatura | Moacyr Scliar

Se a doença é o lado reversível do amor, segundo Thomas Mann, então, como paixão transformada, ela manifesta elevados níveis de sensibilidade e transcendência que freqüentemente conduzem o ser humano a realizar obras inesperadas. Seja ela transformada num estado espiritual transcendente, numa descoberta profissional ou numa obra literária, a doença tem sido uma musa inspiradora para a arte e a ciência. E é o ofício do literato que tem beneficiado significativamente a simbiose doença/amor, numa perspectiva romântica, porém, ainda em voga nestes tempos pós-modernos se levarmos em conta a manifestação cada vez mais crescente de escritas e escritores inspirados pela “paixão transformada”.

Nesta linha, temos uma obra histórico-literária do médico-escritor Moacyr Scliar» sobre os momentos-chave da medicina mundial. Lendo o livro dos dois pontos de vista — literário e científico —, o leitor apercebe-se das qualidades e vantagens do duplo ofício de que o próprio autor vem se constituindo há tempos num exemplo vivo. A partir de citações extraídas de textos literários, memórias, diários, ensaios e aforismos escritos por médicos, escritores e médicos-escritores como Miguel Torga, William Carlos Williams e Oliver Sacks, Moacyr Scliar apresenta, através de comentários e interpretações que geralmente não excedem duas a três páginas, um vasto panorama da medicina e da sua história, sobretudo esta sendo uma história de vozes — as vozes misteriosas do corpo, da alma, da doença, do médico e do escritor. Como numa consulta médica, estas vozes nos falam de tal forma que cada leitor pode se identificar com o drama pessoal de cada enfermidade. Aliás, o livro consola o leitor contemporâneo pelo seu retrato íntimo da medicina visto através das suas múltiplas descobertas, errâncias e incertezas, desde a Antigüidade até nossos dias. É a abordagem honesta do perfil da medicina com seus altos e baixos que torna a leitura deste livro tão reveladora, pois demonstra como esta ciência é decididamente humana e que os caminhos para descobrir uma cura passam por um processo longo e árduo. Leia Mais