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La conquista del espacio público en Bogotá, (1945-1955) | Ana María Carreira
Ana María Carreira | Imagem: UTADEO
En esta adaptación de su tesis doctoral en Historia, la arquitecta e historiadora argentina Ana María Carreira analiza las transformaciones espaciales en Bogotá, haciendo especial énfasis en el Bogotazo y su impacto en la ciudad, vinculando el urbanismo y la relación de los distintos grupos sociales que habitaron el espacio y lo modificaron desde su realidad.
El problema planteado por Carreira surge a partir de la comprensión del urbanismo de una forma desprovista de ingenuidad, donde detrás de esta operan ciertos intereses tanto políticos como económicos, inmiscuidos dentro de lógicas de higiene, valorización, optimización, entre otros. Por ello, la autora se basa en primer lugar no solo en teorías urbanísticas de la época, como las planteadas por Brunner y Le Corbusier, sino también en el contraste con los diversos intereses de las clases políticas bogotanas, como los que se evidencian con los diferentes arreglos propuestos por el alcalde Fernando Mazuera para la IX Conferencia Panamericana en 1948. En este caso, la excusa de la “modernidad” justificó la demolición de estructuras con valor histórico, sustentado y argumentado a partir de una serie de teóricos de la época1. La actuación política y los ánimos por traer a reconocidos urbanistas no respondía a un capricho, ya que se buscó constantemente mantener el statu quo y establecer claras diferenciaciones entre los espacios que habitaba cada grupo social. Leia Mais
La mamma, Collana L’identità italiana – D’AMELIA (BC)
D’AMELIA, Marina. La mamma, Collana L’identità italiana. Bologna: Il Mulino, 2005. 311p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.13, p.124-127, lug., 2020.
Marina d’Amelia, docente di storia moderna all’Università “La Sapienza ” di Roma e appartenente alla Società Italiana delle Storiche, si propone con questo libro di rispondere a un interrogativo ben preciso: quando nasce in Italia lo stereotipo della mamma responsabile della mancanza di senso civico da parte di cittadini educati al protagonismo individuale più che al senso del bene comune? Un rapporto madre-figlio per descrivere il quale, negli anni ’50, Corrado Alvaro introduce il termine mammismo.
L’autrice si propone di dimostrare che questa immagine materna nasce col nuovo stato italiano, poco più di due secoli fa. Non vi è traccia infatti di madri iperprotettive nella civiltà romana, caratterizzata dalla centralità del padre, dove le donne delle famiglie più ricche si facevano sostituire dalle balie nella cura dei figli e ne affidavano l’educazione a istitutori e maestri. La tradizione giurid ica romana della patria potestà si è tramandata per un lunghissimo periodo informando di sé i codici di comportamento delle strutture familiari medievali e moderne.
Solo a partire dal tardo Settecento la mentalità collettiva comincia a guardare in modo nuovo alla relazione madre-figlio. Si fa strada una nuova visione del matrimonio, della famiglia e la consapevolezza dell’importanza del legame materno soprattutto con il figlio maschio.
Nel corso dell’Ottocento la cultura romantica, centrata sulla rivalutazione del sentimento e degli affetti privati, riscopre il femminile, attribuendo alla madre un ruolo privilegiato nella formazione sentimentale dei figli e anche un importante ruolo pubblico.
Nel volume, corredato da un’amp ia bibliografia illustrata e commentata, l’autrice delinea i tratti dell’immagine della madre italiana ripercorrendo i momenti fondamenta li del suo definirsi dal Risorgimento alla II guerra mondiale, rievocando molte figure femminili, molte testimonianze, scritture pubbliche e private.
Le madri risorgimentali
L’identità della madre italiana nasce nel Risorgimento ed è caratterizzata da un rapporto quasi simbiotico con il figlio, dall’ammirazione per tutto ciò che fa, da un eccesso di protezione nei suoi confronti e dall’intromissione nella sua vita privata.
È importante ricordare come il matrimo nio per le donne di quell’epoca non fosse frutto di una libera scelta, ma dell’obbedienza a una decisione paterna. La maternità invece era vista come vocazione e missione legata alla “rigenerazione della patria” attraverso l’educazione dei figli agli ideali di libertà, dedizione e senso del sacrificio, valori che saranno alla base della nuova Italia.
La figura della madre del patriota risorgimentale, dedita a sostenerlo durante l’esilio o nelle guerre di indipendenza, nasce negli ambienti patriottici mazziniani.
Dopo il 1848 si registra un maggio re coinvolgimento delle madri a favore dell’indipendenza italiana: organizzano campagne di propaganda con giornali e manifesti volti a mobilitare l’opinio ne pubblica.
Maria Drago, madre di Giuseppe Mazzini, e Adelaide Cairoli e i suoi numerosi figli si affermano come l’asse portante del mito di un Risorgimento che ne riconosce l’importanza pubblica in quanto capaci di mettere in moto grandi emozioni collettive.
Dopo l’Unità d’Italia, nel momento in cui si tratta di riscrivere la storia, l’icona della madre sacrificale viene posta alla base di un nuovo sentimento nazionale: diviene mito fondativo, emblema di una comune madre patria che unisce tutti i suoi figli in un comune vincolo di fratellanza.
La madre angelo del focolare nell’età liberale
In un momento storico in cui la maggioranza della popolazione italiana viveva in precarie condizioni di vita il pensiero positivista assegna alle madri il compito di rigenerare il patrimonio fisico e razziale della nazione, facendosi promotric i dell’allenamento ginnico sia dei figli che delle figlie e garantendo l’igiene dell’ambiente in cui li crescono. Si tratta di abbassare il tasso di mortalità infantile e di innalzare quello di alfabetizzazione.
Il nuovo modello è dunque quello della madre totalmente dedita alla casa, al benessere familiare, disponibile ad accogliere le indicazioni degli esperti sull’allevamento e sull’educazione dei bambini.
Le materie di igiene ed economia domestica entrano a far parte del currico lo scolastico dal 1899; proliferano inoltre manuali, riviste dedicate al pubblico femminile che insegnano alle donne come fare le madri.
In tal modo, osserva giustamente l’autrice, la presenza e l’ingerenza della madre nella vita del figlio diventa ancor più indiscutibile, fondata com’è su basi scientifiche.
Lo Stato si premura comunque di ribadire la preminenza della volontà paterna nella vita dei figli, ma questo non impedisce di perpetuare in altra forma l’idea di una relazione materna appagante di per se stessa, all’interno della quale le donne possono sublimare una vita fatta di subalternità e insoddisfazione coniugale.
L’amore materno è insomma un sentimento esclusivo, molto diverso da quello paterno, che non lascia spazio ad altro. Deriva da un compito preciso assegnato dalla Natura alla donna in quanto conservatrice della specie e somiglia ad una lava sempre rovente che ribolle continua nel vulcano del cuore. Solo dopo Freud, aggiunge l’autrice, ci si interrogherà su quali ambivalenze si nascondano dietro tanta dedizione materna.
Ben radicata rimane la centralità della maternità nel primo decennio del Novecento e se ne trovano molte testimonianze nelle riviste femminili che, pur riconoscendo il diritto all’emancipazione femminile , insistono sulla specificità della donna latina , contenta di essere donna grazie alla missio ne ricevuta dalla Natura di mettere al mondo un figlio.
La maternità si impone dunque come elemento fondante e irrinunciab ile dell’identità femminile, contrappo sto all’egomania che connota l’unive rso mentale maschile.
La madre cattolica
La Chiesa cattolica non si sottrae al compito di indicare le caratteristiche della madre ideale, incaricata dell’educazione religiosa dei figli, chiamata a difendere il suo sacerdozio d’amore, così lo definisce Beppe Fenoglio nel libro La vera madre di famiglia, dalle richieste di uguaglianza e parità, dalla pericolosa concorrenza di dottrine laiche , dalla tentazione di seguire le mode straniere del tempo.
Caratteristica peculiare della madre cattolica è quella di dover essere una presenza silenziosa, capace di controllare le proprie emozioni. Le parole che non siano preghiere sono giudicate superflue e immodeste. Va coltivata anche la virtù del non rivendicare mai le proprie ragioni, pur sapendo di averle, ma di soffocare gli scontri in un sospiro, di nascondere e dissimulare le pene. Il Papa Pio X nel 1906 dichiara che la donna non deve votare, ma deve votarsi a un’alta idealità di bene umano.
Degli ideali di emancipazione femmin ile si fanno carico nel frattempo associazioni e movimenti di ispirazione socialista che si battono per l’istruzione, la parità salaria le fra uomo e donna e il suo diritto al voto.
I primi anni del Novecento vedono un importante cambiamento nelle direttive cattoliche che incoraggiano sia l’istruz io ne che la partecipazione femminile alla vita pubblica. Si riconosce alle donne il ruolo missionario di difesa dei valori cristia ni nella società.
Madri e Grande guerra
In piena continuità con il modello sacrificale proposto in età risorgimentale, la guerra chiede alle madri italiane di appellarsi al proprio senso del dovere e di sostenere i figli impegnati nello sforzo bellico, sintonizzandosi con il loro vissuto emotivo soprattutto attraverso lo scambio epistolare che raggiunge quasi i quattro miliardi di lettere e cartoline, con una media di circa tre milioni al giorno. Ne risulta un’immagine di madre disposta a penare silenziosamente, centrata sul desiderio di rispecchiare le aspirazioni dei figli e percepita come un talismano, come presenza salvifica, ultimo rifugio dallo smarrimento.
La guerra attiva inoltre molti organismi di solidarietà e di mobilitazione civile che riconoscono un ruolo centrale alle madri, ruolo ribadito alla fine del conflitto quando lo Stato italiano decide di celebrarne l’eroismo e il sacrificio con un monume nto , La Pietà di Libero Andreotti, collocato nella Chiesa di Santa Croce a Firenze e idealmente collegato con quello del Milite Ignoto a Roma.
L’enfatizzazione di questo specifico ruolo della donna lascia troppo nell’omb ra , secondo l’autrice, alcuni elementi chiave della vita femminile di questi anni come le manifestazioni contro la guerra, la diffusione del lavoro femminile, la crescente fatica di sopravvivere di molte donne diventate capifamiglia e l’impossibilità di dare voce a sentimenti e angosce repressi in nome della coerenza.
La figura della madre in epoca fascista
Alla celebrazione della maternità il fascismo dedica una festa particolare: la Giornata della madre e del fanciullo, grande “rito di amore e orgoglio nazionale” avente lo scopo di sollecitare l’incremento della popolazione.
Vi si celebra l’immagine della donna sposa e madre prolifica esemplare, tenace custode della morale sessuale tradiziona le , soprattutto nei confronti delle figlie femmine, anche se i confini di ciò che è lecito vengono definiti dal padre. Il comportamento autoritario della famiglia ha come conseguenza quella di reprimere il desiderio di affermazione e indipendenza delle figlie.
Il partito fascista cerca in ogni modo di evitare qualunque possibile commistione fra maschi e femmine sia in ambito scolastico che durante le manifestazioni pubblic he riservate ai giovani.
Comunque, grazie alle adunanze, alla divisa, alle decorazioni, le ragazze scoprono la possibilità di una sia pur piccola liberazione dal controllo familia re , alimentando in se stesse il desiderio di un’emancipazione futura.
Il modello ideale proposto dal regime fascista è quello di Rosa Maltoni, la madre del Duce, donna semplice ma ricca di spiritualità , trasformata nel mito celebrativo della donna capace di sostenere l’ascesa sociale dei figli, opponendo un fermo rifiuto a tutti i mali che possono disgregare la famiglia. Predappio, luogo natale di Mussolini diviene meta di pellegrinaggi per onorare in lei tutte le madri della Nuova Italia.
La figura della madre nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza
Mentre il Risorgimento e la Grande guerra avevano fatto leva sull’ero ismo silenzioso delle madri comuni disposte al sacrificio pur di sostenere la causa patriottica, la seconda guerra mondiale ne esalta questa caratteristica soltanto fino all’ 8 settembre 1943 che vede il disgregarsi improvviso dell’esercito.
Le madri non vengono risparmiate dall’orrore di quanto accade successivamente ed è difficile per loro superare la barriera delle opposte appartenenze dei propri figli.
Alcune si ritrovano ad essere madri di partigiani o partigiane esse stesse pronte ad impegnarsi e lottare nella Resistenza, altre si schierano con il fronte dei Repubblichini di Salò arruolandosi nel servizio ausilia rio femminile.
Il pensiero della madre percepita come rifugio rassicurante accomuna invece il sentire dei due schieramenti, a conferma di una fratellanza che la logica di guerra nega, ma anche di uno stretto collegamento fra istinto di sopravvivenza e bisogno di protezione.
Livia Tiazzoldi
[IF]Corpos em aliança e a política das ruas: notas para uma teoria performativa da assembleia / Judith Butler
Conhecida internacionalmente pelo livro Problemas de gênero: feminismo e a subversão da identidade2, publicado no início da década de 1990 e lançado no Brasil apenas em 2003, a filósofa estadunidense Judith Butler se dedica às análises sobre feminismos, gêneros, corpos e sexualidades. Sua obra, que mantém fluxo entre teoria e engajamento político, exerce significativa influência, tanto nos debates acadêmicos em diferentes áreas do conhecimento quanto nos movimentos sociais e em setores da sociedade civil. Suas teorias, em destaque sobre a performatividade dos gêneros, ensejaram um intenso debate e tensões, por deslocar certezas naturalizadas como a do sexo biológico. Na sua perspectiva, há um esforço em retirar o caráter ontológico das interpretações sobre as identidades de gênero e sobre o sexo, gerando uma dissociação entre o sexo, gênero e desejo.
Nos últimos títulos publicados pela autora, como Quadros de guerra: quando a vida é passível de luto?3 e Corpos em aliança e a política das ruas: notas para uma teoria performativa de assembleia4, há o interesse em discutir sobre formas de inserção políticas contemporâneas, violências institucionalizadas ou não e sobre a precariedade a que determinados conjunto de sujeitos são induzidos e que limitam a prática efetiva da democracia e que encontram no gênero e na experiência corporificada espaços privilegiados de acontecimento.
O livro Corpos em aliança e a política das ruas: notas para uma teoria performativa de assembleia reúne seis capítulos que possuem como eixo norteador a relação entre os corpos, suas performances em assembleias e a ocupação de espaços públicos promovida pelas manifestações que se multiplicaram em vários países do mundo, desde 2010, quando cerca de um milhão de pessoas se reuniram na Praça Tahrir no centro do Cairo, no que ficou conhecido como Primavera Árabe. Para a autora, as manifestações no Egito, além de servirem de exemplo para lutas políticas em outros países, renovaram o interesse de pesquisadores de várias partes do mundo sobre o estudo de assembleias públicas e de movimentos sociais que tomaram como fator estimulante a condição precária a que muitos corpos são submetidos, nas chamadas democracias neoliberais.
Para iniciar a reflexão, Butler apresenta algumas categorias importantes para pensar os temas desenvolvidos ao longo dos capítulos, entre elas: democracia, povo, precariedade e performance. A autora sofistica a análise dessas categorias, considerando a polifonia à qual são sujeitas. No que se refere à conceitualização de democracia, é apontada a necessidade de pensá-la, para além de uma abordagem nominalista que não considera os limites da prática democrática em contextos neoliberais que operam pela precarização da vida, limitando o direito à existência de grupos. Em outros termos, para pensar em democracia na contemporaneidade é necessário ir além de estruturas governamentais que se autoproclamam democráticas, discutindo a inserção de práticas em assembleia que reivindicam formas de existência não precárias. Verticalizando ainda mais a análise sobre esse aspecto, Butler aponta que os discursos que se apoiam no marketing e na propaganda são os definidores de quais movimentos populares podem ou não serem chamados de democráticos.
Nesse debate, emerge a segunda categoria problematizada pela autora: povo. Seu interesse é responder às seguintes questões: quem realmente é o povo? Que operações de poder discursivo e com que intencionalidades se constrói essa categoria? A resposta que a autora constrói para essas perguntas é a de que não existe “povo” sem uma fronteira discursiva, ou seja, sua definição é um ato de autodemarcação que corresponderia a uma “vontade popular”. Aplicando à análise dos movimentos contra a condição precária, como a Primavera Árabe e o Occupy the Wall Street, a autora conclui que é necessário “ler tais cenas não apenas através da versão de povo que eles enunciam, mas das relações de poder por meio das quais são representadas”5.
Por precariedade, Butler entende uma condição induzida por violência a grupos vulneráveis ou ainda a ausência de políticas protetivas. Sua análise situa em torno das economias neoliberais que cada vez mais retira direitos – previdenciários, trabalhistas, de moradia – e acesso a serviços públicos como escolas e universidades.
A última categoria basilar para entender as discussões que seguem nos seis capítulos do livro é a de performance, já discutida pela autora em outros textos, mas que, nesta obra, é pensada através do viés das coletividades e para além do gênero. Em outros termos, Butler incorpora o seu conceito de performance para entender como os corpos agem de forma coordenada em assembleias. Para a autora, podemos perceber as manifestações de massa como uma rejeição coletiva à precariedade e, mais que isso, como um exercício performativo do direito de aparecer, “uma demanda corporal por um conjunto de vidas mais vivíveis”6.
A tese sobre a qual os capítulos versam é a de que, quando os corpos se reúnem em assembleias, quer sejam em praças, ruas ou mesmo no ambiente virtual, eles estão exercitando o direito plural e performativo de aparecer e de exigir formas menos precárias de existência. Os objetivos dessas assembleias são desde oposição a governos autoritários até redução de desigualdades sociais, questões ecológicas ou de gênero. Pensar sobre elas e sobre a pluralidade que incorporam é discutir como a condição precária é representada e antagonizada nesses movimentos e como se materializam na expressão de corpos que entram em alianças.
Os capítulos deste livro “buscam antes de tudo compreender as funções expressivas e significantes das formas improvisadas de assembleias públicas, mas também questionar o que conta como público e quem pode ser considerado povo.”7 Os primeiros capítulos se concentram na discussão sobre formas de assembleia que possuem modos de pertencimento e que ocorrem em locais específicos. Já os últimos capítulos discutem movimentações que acontecem entre aqueles que não compartilham um sentido de pertencimento geográfico ou linguístico.
No capítulo 1, intitulado “Políticas de gênero e o direito de aparecer”, Butler discute as manifestações de massa, com destaque àquelas que pautam as questões de gênero, como uma rejeição coletiva à precariedade de corpos que se reúnem por meio de um exercício performativo do direito de aparecer. Nesse sentido, a autora insere a discussão sobre o reconhecimento com um dos cernes dessas manifestações públicas. Segundo ela, os sujeitos estariam lutando por reconhecimento em um campo altamente regulado e demarcado de zonas que permitem ou interditam formas corporificadas. No capítulo, a autora ainda se lança a responder questões como: por que esse campo é regulado de tal modo que determinados tipos de seres podem aparecer como sujeitos reconhecíveis e outros tantos não podem? Quais humanos contam como humanos? Quais humanos são dignos na esfera do aparecimento e quais não são? Para a autora, o reconhecimento passa pela noção de poder que segmenta e classifica os sujeitos de acordo com as normas dominantes que buscam normalizar determinadas versões de humanos em detrimentos a outras. A autora avança ainda mais: a necessidade de se questionar como as normas são instaladas é o começo para não as tomar como algo certo/ um dado.
Utilizando o gênero para pensar essa questão, Butler argumenta que as normas de gênero são transmitidas por meio de fantasias psicossomáticas como patologização e a criminalização, que buscam normalizar determinadas práticas e versões do humano em relação às outras, basta pensar que há formas de sexualidade para as quais não existe um vocabulário adequado porque as lógicas como pensamos sobre o desejo, orientação, atos sexuais e prazeres não permitem que elas se tornem inteligíveis. Nesse processo de apagamento, o que se observa é a luta em assembleia pelo direito de viver uma vida visível e reconhecível que opera por meio de rompimentos no campo do poder.
No segundo capítulo, “Corpos em aliança e a política das ruas”, é dada visibilidade para os significados das manifestações no espaço público que articulam pluralidades de corpos que compartilham a experiência da precariedade e que se exibem e lutam por direito de existir. Para a autora, a política nas ruas deve congregar uma luta mais ampla contra a precariedade, sem que sejam apagadas as especificidades e pluralidades identitárias. Para tanto, há a necessidade de uma luta mais articulada que requer uma “ética de coabitação”. A ideia não é de “se reunir por modos de igualdade que nos mergulhariam a todos em condição igualmente não vivíveis”8, mas sim de “exigir uma vida igualmente possível de ser vivida”9.
Para pensar no espaço de aparecimento, Butler recorre e questiona Hanna Arendt que pensa o espaço a partir da perspectiva da pólis, onde a ação política é sine qua non ao aparecimento do corpo no espaço público. Para Butler, o direito de ter direitos não depende de nenhuma organização política particular para sua legitimação, pois antecede qualquer instituição política. O direito, então, passa a existir quando é exercido por aqueles que estão unidos em alianças e que foram excluídos da esfera pública, que é marcada por exclusões constitutivas e por formas de negação. Isso fica claro quando:
Ocupantes reivindicam prédios na Argentina como uma maneira de exercer o direito a uma moradia habitável; quando populações reclamam para si uma praça pública que pertenceu aos militares; quando refugiados participam de revoltas coletivas por habitação, alimento e direito a asilo; quando populações se unem, sem a proteção da lei e sem permissão para se manifestar, com o objetivo de derrubar um regime legal injusto ou criminoso, ou para protestar contra medidas de austeridade que destroem a possibilidade de emprego e de educação para muitos. Ou quando aqueles cujo aparecimento público é criminoso – pessoas transgênero na Turquia ou mulheres que usam véu na França – aparecem para contestar esse estatuto criminoso e reafirmar o seu direito de aparecer10.
Em outros termos, o espaço público é tomado por aqueles que não possuem nenhum direito de se reunir nele. Indivíduos que emergem de zonas de invisibilidade para tomarem o espaço, ao mesmo tempo em que se tornam vulneráveis às formas de violência que tentam reduzi-los ao desaparecimento. Neste capítulo, a autora discute o direito de ter direitos não como uma questão natural ou metafísica, mas como uma persistência dos corpos contra as forças que buscam sua erradicação.
No terceiro capítulo chamado “A vida precária e a ética da convivência”, Butler discute os significados de aparecer na política contemporânea e as possibilidades de aproximação entre corpos identitariamente diferentes e espacialmente separados, unidos apenas pela experiência da globalização e mediados pelos fenômenos tecnológicos e comunicacionais atuais, como as redes sociais. Para Butler, “alguma coisa diferente está acontecendo quando uma parte do globo, moralmente ultrajada, se insurge contra as ações e os eventos que acontecem em outra parte do globo”11. Para a autora, trata-se de laços de solidariedade que emergem através do espaço e do tempo, ou seja, uma forma de indignação que não depende da proximidade física ou do compartilhamento de um língua. Em outros termos, as obrigações éticas são surgem apenas nos contextos de comunidades “paroquiais” que estão reunidas dentro das mesmas fronteiras, constituintes de um povo ou uma nação.
Em parte, essas experiências compartilhadas são possibilitadas pelas novas mídias que, além de espaço de mobilização, se configuram também como uma potente possibilidade de transpor a cena, simultaneamente, para vários outros lugares. De outro modo, “quando o evento viaja e consegue convocar e sustentar indignação e pressão globais, o que inclui o poder de parar mercados ou de romper relações diplomáticas, então o local terá que ser estabelecido, repetidas vezes, em um circuito que o ultrapassa a cada instante”12. Assim:
Quando a cena é transmitida, está ao mesmo tempo lá e aqui, e se não estivesse abrangendo ambas as localizações – na verdade, múltiplas localizações – não seria a cena que é. A sua localidade não é negada pelo fato de que a cena é comunicada para além de si mesma e assim constituída em mídia global; ela depende dessa mediação para acontecer como o evento que é. Isso significa que o local tem que ser reformulado para fora de si mesmo a fim de ser estabelecido como local, o que significa que é apenas por meio da mídia globalizante que o local pode ser estabelecido e que alguma coisa pode realmente acontecer ali. […] As cenas das ruas se tornam politicamente potentes apenas quando – e se – temos uma versão visual e audível da cena comunicada ao vivo ou em tempo imediato, de modo que a mídia não apenas reporta a cena, mas é parte da cena e da ação; na verdade, a mídia é a cena ou o espaço em suas dimensões visuais e audíveis estendidas e replicáveis. Quando a cena é transmitida, está ao mesmo tempo lá e aqui, e se não estivesse abrangendo ambas as localizações – na verdade, múltiplas localizações […]13
O quarto capítulo – “A vulnerabilidade corporal e a política de coligação” – estrutura-se em torno de três questões fundamentais: vulnerabilidade corporal, coligações e políticas das ruas. A vulnerabilidade é uma experiência corpórea de exposição a possíveis formas de violências como conflitos entre manifestantes, violência policial ou violência de gênero, pois “algumas vezes o objetivo de uma luta política é exatamente superar as condições indesejadas da exposição corporal. Outras vezes a exposição deliberada do corpo a uma possível violência faz parte do próprio significado de resistência política”14. Para a autora, essa vulnerabilidade torna-se menos problemática quando os coletivos criam redes de proteção. A multidão, então, assumiria a função de suporte coletivo, pois:
Quando os corpos daqueles que são considerados “dispensáveis” se reúnem em público (como acontece de tempos em tempos quando os imigrantes ilegais vão às ruas nos Estados Unidos como parte de manifestações públicas), eles estão dizendo: “Não nos recolhemos silenciosamente nas sombras da vida pública: não nos tornamos a ausência flagrante que estrutura a vida pública de vocês.” De certa maneira, a reunião coletiva dos corpos em assembleia é um exercício da vontade popular, a ocupação e a tomada de uma rua que parece pertencer a outro público, uma apropriação da pavimentação com o objetivo de agir e discursar que pressiona contra os limites da condição de ser reconhecido em sociedade. Mas as ruas e a praça não são a única maneira de as pessoas se reunirem em assembleia, e sabemos que uma rede social produz ligações de solidariedade que podem ser bastante impressionantes e efetivas no domínio virtual15.
No quinto capítulo intitulado “Nós, o povo – considerações sobre a liberdade de assembleia”, Butler discute a categorização e a reivindicação da ideia de “povo”, em meio às lutas políticas, problematizando concepções restritivas de povo, como no caso da Constituição dos Estados Unidos. Necessário pensar que a construção de “povo” é uma autodenominação que opera por meio de uma construção discursiva, integrando e excluindo grupos que estão ou não dentro dessa categoria. Ainda no capítulo, a autora discute as privatizações no contexto neoliberal, que minimiza a proteção do Estado e enseja formas de alianças nas ruas que lutam contra o precário.
No último capítulo, intitulado “É possível viver uma vida boa em uma vida ruim?”, Butler aborda, a partir da proposta analítica de Adorno, sobre as possibilidades de vida em um mundo marcado pela condição de desigualdade. Para a autora, a luta política e a performance coletiva em assembleia são ações que vão de encontro à lógica da precarização e que podem ser uma alternativa no contexto neoliberal de diminuição de direitos.
O fio que costura toda a argumentação do livro é o da necessidade de criar condições coletivas de existência e de visibilidade de corpos contra as formas de precariedade que limitam a vida de vários sujeitos. A proposta da autora é a criação de alianças políticas que incluam várias pautas e demandas no contexto das democracias neoliberais. Butler revisita alguns conceitos como de performatividade e de precariedade, já utilizados em outras obras, aplicando-os às questões contemporâneas. Nessa obra, Butler extrapola a análise teórica acerca das assembleias contemporâneas e assume uma postura política de incitação à luta por democracia e direitos sociais no contexto de precarização provocada pelo neoliberalismo.
Laura Lene Lima Brandão – Doutoranda/Universidade Federal do Piauí. Teresina/ Piauí/ Brasil. E-mail: laurallbrandao@hotmail.com.
BUTLER, Judith. Corpos em aliança e a política das ruas: notas para uma teoria performativa da assembleia. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, 2018. Resenha de: BRANDÃO, Laura Lene Lima. Pelo direito de (r)existir: os corpos nas ruas. Outros Tempos, São Luís, v.17, n.29, p.396-342, 2020. Acessar publicação original. [IF].
Culture del consumo – CAPUZZO (BC)
CAPUZZO, Paolo. Culture del consumo. Bologna: Il Mulino, 2006. 334p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.179-183, giu./nov., 2019.
Paolo Capuzzo, docente di storia contemporanea presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna, ricostruisce in questo libro la nascita, lo sviluppo della società dei consumi e le modificazioni culturali che ne accompagnano l’espansione in Europa tra il Seicento e l’inizio del Novecento. L’esperienza europea è collocata all’interno del processo che dalle prime conquiste coloniali ha portato alla formazione dell’economia mondiale.
Si mettono a fuoco da un lato la progressiva acquisizione di forza politico-economica della società europea, in particolare di quella dell’Europa urbana del Nord, dall’altro la sua capacità di democratizzarsi, nel momento in cui le classi subalterne si appropriano di beni inizialmente appartenenti alla sfera del lusso.
Il libro è suddiviso in 5 capitoli preceduti da un’Introduzione nella quale vengono delineate le linee di forza dell’intero percorso e le tematiche centrali: • il rapporto tra consumi europei e commercio mondiale • la dimensione etica del consumo • la costruzione della sfera privata • la regolazione dei rapporti di classe • la costruzione di uno spazio pubblico del consumo “Ricostruendo la storia della diffusione dello zucchero, del caffè, del tabacco, del tè, della cioccolata è possibile- scrive l’autore- mettere in evidenza i rapporti tra la domanda europea, la conquista di basi e monopoli commerciali, l’organizzazione della produzione di questi beni.
La diffusione delle nuove bevande mostra poi come, una volta approdate nei grandi porti commerciali europei, queste merci subissero un variegato processo di appropriazione da parte dei consumatori […]. Le nuove culture del consumo che si costruiscono in Europa attraverso queste bevande non sono, insomma, un epifenomeno dell’espansione coloniale, ma rispondono a un processo di produzione della quotidianità, nella quale agiscono soggetti che si appropriano di tali risorse.” (p. 10).
Nel momento in cui la ricchezza e il potere non derivano più dall’appartenenza ad un ceto sociale, ma dal successo del mercato sono i modi del consumo a decidere dell’inclusione o dell’esclusione da una determinata cerchia sociale.
Il lusso si popolarizza sovvertendo le tradizionali gerarchie sociali. E’ dunque evidente il legame tra la diffusione dei liberi consumi e il progresso della democrazia.
I processi di consumo appartengono ad una sfera dotata di autonomia, ma sono in stretta relazione con la definizione delle identità, con la costruzione dei rapporti sociali e di genere.
Il consumatore non è visto come un terminale passivo di un processo di manipolazione dei suoi desideri, ma come individuo capace di attribuire un significato al consumo, pur all’interno di un habitus, cioè di un insieme di principi legati all’estrazione sociale e interiorizzati fin dall’infanzia che ne orientano l’azione attribuendo un determinato valore alle cose.
Tale habitus viene progressivamente messo in crisi dal processo di commercializzazione, dalla logica del profitto, che utilizza la moda e la pubblicità come criterio di valore di una merce.
“La forza semiotica della commercializzazione contemporanea, scrive ancora l’autore, è certamente un carattere inedito nella creazione dell’immaginario, cosa che distingue la nostra società da quelle precedenti […] tuttavia i consumatori continuano a far udire la loro presenza […]”. (p. 15 ).
Ciascuno dei cinque capitoli in cui si articola il volume offre una sintesi ragionata degli studi prodotti dalla storiografia internazionale sui vari temi, corredata da un’ampia bibliografia.
Capitolo 1. Consumi europei e globalizzazione del commercio tra XVII e XVIII secolo
Si analizza in queste pagine l’espansione del commercio europeo all’inizio dell’Età moderna, la nascita di una prima globalizzazione collegata al colonialismo e ad una grande disponibilità di risorse materiali.
Si sottolinea il fatto che gli sviluppi e il rinnovamento dei consumi in Europa sono intimamente connessi ad un nuovo assetto del potere mondiale ottenuto con la disponibilità finanziaria, la superiorità tecnologica, con la forza delle armi e con la deportazione della manodopera africana impegnata nelle miniere di metalli preziosi e nelle piantagioni americane.
Le colonie sono luogo da cui prelevare materie prime come zucchero, caffè, legname, tabacco, cotone da trasformare e rivendere poi come prodotti finiti a prezzi ben più alti.
Sulle tavole europee arrivano nuovi prodotti (patate, pomodori, cacao, fagioli, frutta tropicale, mais, zucche) inizialmente utilizzati solo dalle classi sociali più alte, ma accessibili poi anche ad altre classi sociali, quando la produzione col sistema delle piantagioni e la commercializzazione su larga scala ne abbassano i prezzi.
Caffè, tè e tabacco (il primo dei prodotti esotici ad essere consumato dalle masse) vengono subito apprezzati per la loro capacità di garantire lucidità, al contrario del vino.
Il consumo di questi prodotti si associa anche a una specifica ritualità praticata in nuovi spazi pubblici come le coffee e le tea houses, fattori formidabili di “sociabilità”, o nelle case private, nell’ambito di un mondo soprattutto femminile.
I primi locali detti caffè, dal nome della bevanda che vi si consumava, nascono a Venezia alla metà del Seicento e diventano di moda nel secolo successivo in tutte le grandi città europee. Sono frequentati da un’ élite di uomini d’affari che leggono i giornali, discutono di politica. Vi si aggiungono poi artisti e scrittori.
Capitolo 2. Lusso, moda e ordine sociale tra XVIII e XIX secolo
Il capitolo è dedicato nella prima parte ad una riflessione sul lusso, alla sua funzione nella società di corte, in particolare quella francese, e alla sua progressiva “popolarizzazione”.
Nelle società di corte il consumo designa un modello particolare di sociabilità, quello dei cortigiani e delle cortigiane, che si afferma poi come modello anche nelle grandi città europee come Parigi, la capitale del gusto, soprattutto per le donne che frequentano i salotti dell’alta società. Quello dell’apparire, grazie all’uso di cosmetici, gioielli, abiti eleganti, diventa un valore sempre più ricercato dai nuovi ricchi, da esibire sia nella sfera privata che in quella pubblica dei teatri, delle sale da musica, dei ristoranti.
Nei contesti cittadini è lo stile del consumo a decretare l’inclusione o l’esclusione da una certa schiera di persone. La ricchezza derivante dal mercato ha sostituito la nobiltà di nascita nella costruzione della posizione sociale e pubblica, soppiantando anche qualunque codice etico nell’accumulazione del reddito.
Nasce in questi anni la categoria di “povertà” dove la miseria materiale è strettamente connessa a quella morale.
La questione dell’apparire contrapposto all’essere è al centro di molti dibattiti nel Settecento: c’è chi critica il lusso in nome di un ideale di uguaglianza sociale, chi lo considera un’opportunità per scardinare un rigido ordinamento sociale.
Molti autori concordano sul fatto che la grandezza delle nazioni si fonda sul lusso, sulla forza economica, non sulle virtù dei cittadini: è impossibile controllare e organizzare una società in base a dei valori condivisi che restano appannaggio della sfera privata.
Il dibattito proseguirà nei secoli successivi accanto al filone della critica moralistica del lusso considerato responsabile della decadenza culturale.
La seconda parte del capitolo affronta la questione della moda come nuova dimensione del consumo a partire dalla fine del Settecento. L’ostentazione del lusso cede il passo alla sobrietà, alla scelta di un abbigliamento regolato da specifici galatei, diversificato in base all’età, alle differenze di genere e ai vari contesti.
La diffusione della moda è legata agli spazi urbani delle città, alle vetrine dei negozi, alle illustrazioni colorate e alla pubblicità sui giornali.
Essere bella, elegante, consona alle varie situazioni sociali è una precisa missione sociale per la donna borghese dell’Ottocento: è occasione di legittimazione sociale e anche indiretta dimostrazione del successo economico maschile.
Le classi sociali inferiori subiscono il fascino della moda e sono spinte a imitare quelle superiori che, dal canto loro, cambiano spesso abbigliamento per mantenere la distinzione.
Si innesca così un meccanismo di continua emulazione. Lo sviluppo della moda in Inghilterra alla fine del Settecento può essere considerato come una delle cause della rivoluzione industriale favorita anche dall’importazione del cotone, usato per produrre tessuti meno costosi.
Nel corso dell’Ottocento la produzione del vestiario si diversifica in base a due segmenti di mercato: quella industriale di massa sia per i lavoratori delle grandi città che per le uniformi dell’esercito e quella dei laboratori di sartoria che, grazie all’uso delle macchine da cucire, confezionano abiti su misura per la clientela più ricca.
Il Novecento vede poi l’allargamento della classe media e la nascita dei grandi magazzini che propongono abiti colorati, in fibre sintetiche, standardizzati, ma anche diversificati in base alle varie esigenze della vita moderna.
Capitoli 3 e 4. Culture del consumo delle classi medie e della classe operaia
Questa parte del libro è centrata sull’analisi e sul confronto fra queste due classi sociali in un periodo che va dal 1700 all’inizio del 1900.
Le descrizioni sono declinate al plurale tenendo conto delle variabili geografiche, delle trasformazioni nel corso del tempo, delle dinamiche di distinzione, conflitto, emulazione.
Della classe media si sottolinea l’importante funzione di separare lo spazio pubblico da quello domestico, luogo della convivenza familiare, al riparo dalla corruzione della città.
Le famiglie borghesi in Olanda e in Inghilterra hanno il compito di ricostruire una sfera morale che l’economia e la politica non sono in grado di proporre.
Il lavoro femminile si sposta all’interno della casa dove la moglie si dedica all’amministrazione, all’arredamento, alla cucina e alla cura dei figli lasciando al marito il compito di provvedere alle necessità economiche della famiglia.
La classe operaia valorizza molto meno la sfera privata della casa, dove molte donne non possono inizialmente svolgere un ruolo simile a quelle della borghesia. Sono spesso costrette a lavorare in fabbrica assieme ai mariti e ai figli, con i quali condividono anche momenti di tempo libero fuori casa: in spazi pubblici, pub e taverne, luoghi di consumo di alcol, gioco e scommesse.
Le tipologie abitative delle due classi sociali sono ampiamente descritte e messe a confronto per quanto riguarda il numero di stanze, l’arredamento, le spese destinate ai consumi domestici.
Tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento la classe media, fatta di commercianti, imprenditori, professionisti e funzionari statali, assume un ruolo sempre più importante nell’Europa nord-occidentale dove si affermano il capitalismo industriale e lo stato moderno.
Il processo di privatizzazione dello spazio abitativo diventa uno dei principi che regolano i consumi nel XX° secolo per quanto riguarda la tipologia delle case e l’arredamento: nasce l’industria di massa del mobile e dei beni durevoli.
La separazione fra spazio privato e pubblico è alla base anche dell’edilizia seriale del Novecento, secolo nel quale gli stili di consumo della classe operaia cominciano ad avvicinarsi a quelli della classe media.
La riduzione dei tempi di lavoro nelle fabbriche lascia spazio a partire dalla fine dell’Ottocento a momenti di divertimento: il gioco del calcio, le vacanze, favorite anche dai mezzi pubblici di trasporto come ferrovie e tram.
La Grande Guerra rappresenta un ulteriore momento di profonda trasformazione della società europea per quanto riguarda la massificazione degli stili di vita, trasformazione che si compie pienamente negli anni Cinquanta dello stesso secolo.
L’industria della cultura di massa è fondamentale nel Novecento: è strumento per regolare il tempo libero, ma anche terreno di eversione identitaria.
Capitolo 5. Lo spazio pubblico del consumo: geografia urbana e reincanto del mondo
Si affronta il tema del consumo come forma di evasione dalla quotidianità, momento da vivere in grandi città quali Londra e Parigi, negli spazi che allestiscono lo spettacolo delle merci dove è possibile sognare ad occhi aperti.
L’autore sottolinea in particolare le trasformazioni della geografia urbana e dei flussi di traffico provocati dalla nascita dei grandi magazzini, strutture sviluppate su più piani, dotate di grandi vetrine e insegne luminose. Questi nuovi spazi pubblici del consumo sono frequentati soprattutto dalle donne della classe media, libere di muoversi anche non accompagnate dagli uomini.
Interessanti le osservazioni a proposito della nuova figura delle commesse che anticipano stili di vita femminili del Novecento.
La commercializzazione dei prodotti riceve un grande impulso nella seconda metà dell’Ottocento dalle grandi esposizioni di Londra, Vienna, Parigi che nel 1900 totalizza quasi 50 milioni di visitatori.
Livia Tiazzoldi
[IF]O papel social do historiador: da cátedra ao tribunal – DUMOLIN (FH)
DUMOULIN, Oliver. O papel social do historiador: da cátedra ao tribunal. Trad. Fernando Scheibe. 1. Ed. Belo Horizonte: Autêntica Editora, 2017. Resenha de: GAIOTTO, Mateus Américo. Historiadores no espaço público: questões para o debate. Faces da História, Assis, v.5, n.1, p.366-369, jan./jun., 2018.
Voltada ao público em geral, a obra O papel social do historiador, de autoria do francês Oliver Dumoulin e traduzida por Fernando Scheibe, acrescenta mais um título à coleção História e Historiografia, promovida pela Editora Autêntica que tem por objetivo principal fazer circular, entre estudantes e pesquisadores de história brasileiros, títulos que, ainda que não traduzidos, inspiravam certa curiosidade local por conta das abordagens instigantes e/ou pela renovação que promoveram nos âmbitos temáticos, metodológicos e teóricos.
A obra chega em momento oportuno, afinal, o debate contemporâneo a respeito da(s) função(ões) do historiador e da História na sociedade contemporânea encontra no Brasil da última década novas problemáticas, principalmente, em função da situação política nacional.
Oliver Dumoulin, de forma elegante, introduz o tema ao seu leitor ao apresentar discussões que permearam o chamado “processo Papon”. Os episódios que atravessaram a trajetória do político francês e colaborador nazista representam, ainda hoje, um ponto traumático na experiência histórica francesa; seus diversos julgamentos, ocorridos na década de 1980, são exemplos das situações nas quais o papel de historiadores se fez central, visto a não prescrição dos crimes contra a humanidade. A presença de profissionais da História, nesse e em outros casos, suscitaram não só o debate em torno do processo, mas do papel e dos limites dos historiadores nas sociedades contemporâneas.
Na função de espectadores autorizados do passado, esses profissionais trariam o “contexto” para que o júri pudesse guiar-se por algo que não havia vivido, questão central para os julgamentos de crimes de Guerra e contra a humanidade cometidos no século XX.
Assim, o tema central da obra é apresentado pela própria fonte do historiador, que monta sua análise e a divide em três partes: I – Hoje, a encomenda e a expertise, em nome do interesse geral, em nome dos interesses particulares; II – O erudito e o professor 1860-1920; III – O triunfo do cientista impotente e as vias alternativas 1920- 1970.
A divisão realizada pelo autor subverte a ordem cronológica e aborda o tema proposto de forma a iniciar diretamente pelo problema, ou seja, apresenta o tempo e as práticas atuais da historiografia, para, em um segundo momento, mostrar ao leitor as diversas raízes do debate em questão.
Na primeira parte, as discussões em torno do julgamento do “Processo Touvier” são o ponto central da questão. Os ataques sofridos pelos historiadores presentes no tribunal questionaram a qualidade e a importância do trabalho historiográfico e servem de pano de fundo para o autor caracterizar o momento experienciado pelo profissional frente à sua importância social. A figura do expert, aquele que tem uma postura mais próxima a do cientista, em contraposição a do amador, é colocada em destaque; a metodologia de trabalho com as fontes, o olhar diferenciado, a abstração frente ao seu próprio trabalho, são o foco do texto nesse primeiro momento.
O papel da imprensa também é enfatizado nesse e em outros momentos do livro. Os jornais, revistas e folhetins aparecem como os responsáveis por fazerem a ponte entre debates que antes eram exclusivos dos ambientes privados e/ou acadêmicos; além disso, são esses produtos culturais que apresentam aos historiadores novos problemas e questões a respeito do seu fazer historiográfico. O autor defende que a imprensa atua de maneira privilegiada, moldando o papel do historiador, afinal, é nela que constroem os debates contemporâneos, sendo ainda o espaço de afirmação dos sujeitos debatedores.
Gradativamente, o autor vai apresentando as diversas oposições às quais o historiador contemporâneo é chamado a se posicionar, dialogar e responder. Os diversos métodos historiográficos constituem um ponto central da argumentação e a relação da França com a disciplina histórica é o destaque; ainda que, numa segunda parte desse primeiro capítulo, ao demonstrar que o debate é amplo e abarca todas as áreas de estudo da própria história, o autor amplie seu recorte espacial.
Dito isso, cabe um destaque para a segunda das três partes que compõe esse primeiro capítulo, na qual Oliver Dumoulin sai pela primeira e única vez do ambiente europeu e busca nos Estados Unidos um exemplo mais bem-acabado do que ele chama de expert, modelo que, na sua perspectiva, ainda era marginal no continente europeu. Para tal, recorre novamente aos tribunais e às representações históricas daquela sociedade. No final, Dumoulin aponta para a falta de protagonismo da História enquanto disciplina fora da Europa, situação que só vai se alterar no fim dos anos de 1970, quando o historiador Morgan J. Kousser se faz presente regularmente nos julgamentos a respeito das vitimas de segregação nos EUA, tema mundialmente reconhecido como do âmbito da expertise daqueles historiadores.
Em O erudito e o professor 1860-1920, o autor retorna então à fundação da profissão de historiador para tentar responder as questões de fundo que baseiam sua tese. Nesse esforço, busca compreender todos os vieses que fundamentaram a profissão e seus fenômenos, assim, historiciza o próprio fazer historiográfico. Com foco na atuação e produção do historiador, esse capítulo traz para o leitor uma visão mais abrangente do fazer historiográfico desde os debates acerca da profissionalização, até a prática efetiva das revistas dedicadas à disciplina, como a Revue critique d’histoire et de littérature, passando pelo Anné sociologique, a Revue historique e os Annales, que terão papel central no último capítulo. Assim, ao escrever a história o historiador a estaria praticando.
No que diz respeito à virada do século XIX para o XX, o chamado “Affaire Dreyfus” e a presença dos historiadores naquele processo é que reclamam atenção do autor. Segundo ele, a atuação dos historiadores de então estava fundamentada em três valores, a saber: científico, cívico e patriótico. A exemplo de outros cientistas, atuavam em prol da nação, situação que iria se expandir e dominar o campo com a eclosão da Primeira Guerra Mundial. Aqui, o Manifesto dos 93 na Alemanha, as ações de Ernest Lavisse e Émile Durkheim na universidade francesa, e os esforços da Conferência de Paz, se misturam para expor a hipótese de um historiador voltado a proteger a cultura de seu país em meio à destruição; mas, para desempenharem adequadamente essa missão cívica e patriótica, torna-se necessária a nomeação e o reconhecimento profissional, procedimento que depende dos pares e que atesta a legitimidade do fazer historiográfico.
No último dos três capítulos, O triunfo do cientista impotente e as vias alternativas 1920-1970, o mundo dos historiadores é abalado novamente, mas desta vez no pós I Guerra. Nesse contexto, Dumoulin volta seu olhar crítico para a reorganização da disciplina histórica nas cátedras das grandes universidades europeias e, em consequência, o novo papel da História e dos historiadores. Para tanto, com base nos exemplos dos discursos de Lucien Febvre, o autor apresenta o que seria a ruptura com os ideais nacionalistas e uma deontologia do desengajamento. Novamente o autor marca seu capítulo com o surgimento de uma crise na História, ou na historiografia, que reflete a sociedade francesa de então. A sociedade, a economia, a história da arte e outros diversos assuntos, que não os políticos, aparecem no seio dessa crise que leva a um novo rearranjo da disciplina.
O pensamento apolítico e a Segunda Guerra abrem o fim dessa parte do livro e, com isso, a reorganização dos grupos de historiadores em torno das revistas especializadas.
Sempre em comparação rápida com outros países do oeste europeu, o texto busca apresentar uma visão abrangente daquele cenário, mas restrita à realidade europeia, o que não desqualifica a construção analítica do autor, que mostrou-se competente na discussão e conseguiu dar conta das hipóteses levantadas na obra.
O livro de Dumoulin apresenta e desenvolve bem seus argumentos e alcança seus objetivos ao tratar de uma visão ampla da construção social do historiador durante o final do século XIX até a contemporaneidade. Por meio do estudo de biografias, autos processuais, imprensa e obras consagradas da historiografia, o autor não deixa de lado nenhuma das grandes correntes teóricas que surgiram nos últimos séculos. Porém, cabe o alerta para o público brasileiro; conforme apontado acima, essa análise prioriza as experiências europeias e, principalmente, francesas, razão pela qual as especificidades do fazer historiográfico latino-americano e brasileiro não são contempladas.
Dumoulin posiciona-se ao lado de grandes nomes da historiografia para desenvolver sua hipótese, com clara alusão a Lyautey e sua obra La Revue des Deux Mondes (1891). Entre os historiadores citados vemos nomes como René Rémond, Dominique Kalifa, Paul Ricoeur, Antoine Prost, Marc Bloch, Lucien Febvre, Georges Duby, François Dosse, Fustel de Coulanges, entre outros, além de intelectuais que não pertencem à área da História, apesar de todos estarem preocupados com o mesmo problema e possuírem, em alguma medida, objetivos em comum.
Por meio dessa seleção de historiadores e obras, Dumoulin insere-se num debate amplo mantendo a historiografia e realidade francesas como o cerne de sua reflexão. Apesar disso, o autor evita tomar uma posição, pois não caberia a ele o papel de juiz, figura muito discutida em sua própria obra. Assim, ao elencar o engajamento dos intelectuais e o envolvimento de profissionais de diversas outras áreas que não a da História, nesse contexto, o encontro do historiador com seu papel específico continua distante.
Contudo, o debate aqui apresentado está mais do que nunca presente no dia a dia do grupo, sendo assim, apesar de não se destacar pelo seu ineditismo, a obra e a hipótese de Oliver Dumoulin, de que a escrita da história se altera conforme o papel social do historiador que a realiza, abre um novo olhar nesse campo de discussões e constrói uma espécie de biografia da profissão desde o século XIX até a contemporaneidade.
Mateus Américo Gaiotto Acessar publicação original
[IF]El rio Mapocho y sus riberas. Espacio público e intervención urbana en Santiago de Chile (1885-1918) – FERNÁNDEZ (RAHAL)
FERNÁNDEZ, Simón Castillo. El rio Mapocho y sus riberas. Espacio público e intervención urbana en Santiago de Chile (1885-1918). Santiago: Ediciones Universidad Alberto Hurtado, 2014. Resenha de: RIVERA, Francisco. Revista de Arqueología Histórica Argentina y Latinoamericana, Buenos Aires, v.2, n.9, 63-68, 2015.
Hace algunos años, un grupo de jóvenes arqueólogos chilenos fueron llamados a excavar y evaluar los componentes materiales de los antiguos tajamares del río Mapocho en Santiago de Chile, descubiertos durante las obras de construcción de la nueva línea del tren subterráneo (Metro). Ese acontecimiento significó un punto de inflexión en la arqueología chilena, ya que en gran medida abrió y permitió consolidar el campo de la arqueología histórica urbana en nuestro país. Estimuló, entre otras cosas, el desarrollo de nuevas metodologías y técnicas, hasta ese entonces novedosas para los profesionales interesados por la materialidad del pasado histórico. Junto con ello, obligó también a estos jóvenes arqueólogos a profundizar su mirada sobre los restos materiales de los complejos procesos de intervención del río Mapocho en particular, y de planificación urbana en general, durante los siglos XIX y XX en la ciudad de Santiago. Dichas intervenciones urbanas arrojaron importantes evidencias que han permitido desde entonces conocer más sobre la relación de la ciudad con el río, y sus distintos procesos constructivos a través del tiempo.
Al igual que en otros países latinoamericanos como Brasil o Argentina, en Chile el estudio de la cultura material de los períodos históricos fue desarrollado tradicionalmente por profesionales venidos de disciplinas ajenas a la arqueología, como arquitectos o historiadores del arte (Funari 1997). Si bien desde la arqueología reconocemos que no podemos competir con la fuerza del registro escrito y oral que predomina en la interpretación histórica, desde aquellos años se ha buscado un mayor acercamiento entre ambas disciplinas, lo que ha llevado a los arqueólogos chilenos a buscar soluciones metodológicas en los planteamientos de aquellas disciplinas afines, de la mano además con la tendencia teórica en boga del post-procesualismo y sus flirteos con la hermenéutica y del post-estructuralismo como modelos de explicación del registro material. En ese escenario, surgieron también en la arqueología histórica chilena diversos compromisos teóricos; la historia como eje de investigación a la cual la arqueología aportaría con datos materiales o ésta última como laboratorio en el cual se podrían probar modelos que luego serían útiles a la prehistoria (Gómez Romero y Pedrotta 1998). Sin embargo, en los últimos años se ha acordado una perspectiva global que busca una agenda de investigación arqueológica propia con elementos en común con la historia y la antropología. En mi opinión, el trabajo de Castillo “El río Mapocho y sus riberas” debe insertarse en el desarrollo de esta última perspectiva, si bien éste nace y se focaliza principalmente en la historiografía pura.
El libro es el resultado de la tesis doctoral del historiador chileno Simón Castillo Fernández, el cual trata sobre la transformación urbana y su relación con el río Mapocho entre 1885 y 1918. A pesar de que en algunos pasajes la voz del autor se pierde entre el “ruido” de las abundantes referencias bibliográficas, lo que podría quizás hacer perder a algún lector, el texto mantiene sin embargo una coherencia interna amena y estimulante, y se lee como un conjunto fluido de capítulos y no como un árido documento académico. El elemento central de la tesis de Castillo es el espacio público en la ciudad de Santiago de Chile, entendiéndolo “en doble sentido de esfera pública y lugar construido y practicado” (p. 39). El autor así entonces decortica y explica las transformaciones socio-culturales producidas por las intervenciones técnicas y urbanísticas llevadas a cabo en las riberas del río Mapocho. La hipótesis del autor señala que “la transformación de los bordes del Mapocho urbano desarrollada el menos entre 1885 y 1918 fue una intervención inédita debido a un proceso de modernización urbana de nuevas dimensiones” (p. 50). En ese cuadro de análisis, el autor se centra en las dimensiones sociales inherentes a los procesos de transformación urbana desde fines del siglo XIX y principios del siglo XX, centrándose en tres elementos propios de la modernización urbana y de conformación del espacio público: la higiene, la estética y el tránsito, los cuales surgieron como ejes centrales a partir de la gran obra de intervención que constituyó la canalización del Mapocho a fines del siglo XIX.
En la introducción el autor señala sus objetivos de investigación, el cual es entregar una historia sociocultural de aquellas transformaciones urbanas “que coadyuve a una discusión más densa sobre el espacio público en Santiago de Chile” (p. 25), comprendiendo con ello también la relación establecida en la ciudad entre el Estado y la sociedad civil (p. 30). El texto comprende cinco capítulos, iniciándose con un vuelo histórico por las percepciones construidas alrededor del río. El segundo y tercer capítulo se centran en las primeras grandes obras públicas de intervención del río a fines del siglo XIX y primero años del siglo XX, para luego abordar los problemas y políticas públicas con respecto a la ribera norte, de un marcado carácter popular. El autor se centra en los problemas ligados a las primeras grandes expansiones urbanas hacia estas zonas de la ciudad y el interés de las élites por controlarlo, a través de instituciones sanitarias y mercados. El capítulo cuarto se extiende sobre la realización de espacios públicos como los parques construidos en la ribera sur (Parque Centenario, Cerro Santa Lucía, Estación Mapocho), demostrando un claro contraste con las intervenciones llevadas a cabo los años anteriores en su ribera opuesta. Por último, el capítulo quinto y final trata sobre la ocupación de la ribera norte durante los primeros decenios del siglo XX, tomando como eje las nuevas expansiones urbanas hacia aquella zona y la habilitación como espacio público del Cerro San Cristóbal.
Es interesante resaltar del libro de Castillo, que las políticas de intervención urbana en Santiago aparecieron condicionadas, como era de esperarse en una sociedad sumamente segmentada socialmente, por enfoques muy distintos pero coexistentes dentro del espacio social urbano. Como bien lo sabemos a partir de los trabajos de Bourdieu, en el espacio moderno, y la ciudad de Santiago no fue ninguna excepción, los grupos se distinguieron bajo la diferenciación de capital económico y cultural, y que Castillo identifica y ve reflejadas en las políticas de intervención del espacio público. En este trabajo, Castillo considera relevantes aquellos aspectos del espacio urbano que dicen relación por un lado con el contexto social en el cual se inserta (el pensamiento moderno, burgués y urbano), pero –lo más importante en mi opinión– como dispositivo constituyente de aquellas prácticas diferenciadas del espacio social. En palabras del autor, “las relaciones entre naturaleza y sociedad urbana como horizonte proyectual-disciplinario donde intervienen elementos de la urbanística moderna y del control social, ligados a procesos de modernización” (p. 38).
El autor examina entonces ciertas variables significativas en la elaboración de las políticas espaciales, intentando determinar su relación con la ciudad en su conjunto, como por ejemplo en los capítulos tercero y cuarto, en los cuales discute las diferencias entre sectores socialmente distintos y por lo tanto como constitutivas de las prácticas diferenciadas, así como expresión material de las desigualdades sociales presentes en la ciudad a fines del siglo XIX y principios del XX. Quien camina hoy por las calles de Santiago sabe que el río Mapocho no sólo ha sido el emblema de la ciudad, sino que éste es el reflejo de las contradicciones Rivera 2015: 63-68(Reseña) 66 sociales al interior de ella. Siguiendo al autor, el río ha representado una frontera que corta la ciudad en dos, con una mitad norte de carácter campesino, marginal, y asociado a las clases populares (el famoso barrio de la Chimba es el ejemplo más elocuente de dicho imaginario), y una mitad sur urbana, burguesa, y asociado a las clases más acomodadas. Desde esta representación, el autor nos recuerda que las estructuras derivadas de las políticas urbanísticas funcionan como elementos activos del espacio, materializadas luego por pautas de conductas específicas de los individuos, tal como queda demostrado a partir de la transformación de espacios naturales en espacios públicos, como fueron los casos de los parques Centenario y Forestal.
El autor nos muestra entonces que el espacio es también una construcción socio-cultural, históricamente condicionada y que responde a una lógica particular de los sistemas políticos de la época: “los artefactos urbanos como productores de sentido y construcción de la realidad” (p. 46). El libro nos permite entender entonces la planificación urbana y la espacialidad como campos de discurso, en el cual se configuran las contradicciones sociales evidenciadas en la documentación escrita. Bajo estos parámetros, Castillo plantea que es posible identificar aquellos rasgos espaciales que son socialmente representativos de las políticas de ordenamiento urbano a través del tiempo, desde las primeras ideas de Benjamín Vicuña Mackenna en el siglo XIX, y que fueron comandadas a numerosos arquitectos e ingenieros como Joaquín Toesca y Alejandro Bertrand. Es decir, la organización espacial y los elementos estructurales que componen el espacio urbano como los parques, mercado y edificios públicos (tales como el Desinfectorio Público y la Protectora Nacional de la Infancia, por ejemplo), se perciben –incluso hasta el día de hoy– como algo “natural” y no como dispositivos de orden social. En otras palabras las formas que estas construcciones adquieren en relación a la liminalidad simbólica del río.
Para el autor, la identificación de las diferencias sociales que se generan en una determinada espacialidad y a ésta como una dimensión socialmente producida, permiten finalmente entender la relación entre las respuestas que la sociedad civil tuvo sobre este orden y sus características reales; el espacio social urbano produce y reproduce desigualdades sociales al marcar la pertenencia o la exclusión a ciertos barrios, zonas, ámbitos o grupos (clases sociales, género, facciones, etc.). En síntesis, me parece que desde una mirada arqueológica, el aspecto más interesante de este trabajo es el esfuerzo por identificar las relaciones sociales que se generan dentro un sistema o espacio social, y la forma en la cual se expresan materialmente en términos de su ordenamiento espacial y sus componentes artefactuales. En ese sentido, el mejor ejemplo es el sistema hidráulico y de alcantarillado. Desde el punto de vista de los análisis morfo-funcionales y cronológicos de esta materialidad recuperada de las excavaciones arqueológicas, se ha intentado indagar en aspectos relativos a la higiene y salud pública, así como al desarrollo urbano sostenido por Santiago desde su fundación hasta los inicios del siglo XX, cuando se moderniza el sistema de agua potable y alcantarillado, que se encuentra en uso hasta hoy. Los restos que se encuentran bajo la ciudad revelan que es sólo con la efectiva modernización del sistema de agua potable implementado hacia 1920 cuando las condiciones de salubridad mejorarán para sus habitantes. Si bien las nuevas infraestructuras comienzan a instalarse desde mediados del siglo XIX, éstas se restringieron sobre todo al centro histórico, permaneciendo los antiguos sistemas coloniales en los sectores suburbanos de Santiago.
Si bien el trabajo de Castillo nos obliga como arqueólogos a reconsiderar el enorme cuerpo documental como base insoslayable de datos, creo que no debemos por ese motivo considerarlos como núcleo de las interpretaciones al cual los datos materiales aportarían información sobre aspectos invisibles del registro escrito. Si se me permite una defensa de una posición arqueológica, me parece insuficiente considerar las fuentes escritas solamente como una voz única, sino que nos deben servir como base para postular modelos propios en problemáticas específicas de estudio, como en este caso, el de las intervenciones urbanas en el Santiago de los siglos XIX y XX. En ese sentido, en mi opinión creo que necesitamos un mayor compromiso de la arqueología en los procesos de documentación del pasado, con una mirada puesta sobre el rol protagónico de la materialidad. Si hay algo que podríamos reprochar del trabajo de Castillo es la ausencia de referencias a los trabajos arqueológicos realizados en los numerosos estudios de impacto ambiental en el casco histórico de Santiago desde la década de 1990 en adelante. Sin embargo, creo que esta ausencia acusa una falencia de la propia arqueología, y es la de nuestro encierro disciplinario y falta de diálogo con sus ciencias hermanas. Si es ya difícil construir un marco bibliográfico sobre los resultados de las excavaciones arqueológicas en Santiago, es porque estas no son accesibles al gran público. Tenemos ahí una gran responsabilidad, en cuanto a la falta de difusión de nuestros resultados, los cuales enriquecerían sin lugar a dudas las investigaciones históricas. El libro de Castillo nos recuerda una vez más que confinar los objetos de estudio en campos aislados, terminará inevitablemente silenciando aquellos eventos y grupos subordinados que no fuesen registrados por la pluma histórica. Rivera 2015: 63-68(Reseña) 68 Para cerrar, si la ya clásica obra de Armando de Ramón, “Santiago de Chile: historia de una sociedad urbana” (2000) es una obra imprescindible para conocer el proceso de urbanización capitalino, el trabajo de Castillo es un trabajo igualmente invaluable de documentación para la evaluación de nuestros futuros proyectos arqueológicos; un ladrillo fundamental a los mismos cimientos que sustentan nuestras disciplinas, al menos en Chile incomprensiblemente tan alejadas entre sí.
Referências
Funari, P. P. 1997. Archaeology, history, and historical archaeology in South America. International Journal of Historical Archaeology 1 (3):189-206.
Gómez Romero, F. y V. Pedrotta 1998. Consideraciones teórico metodológicas acerca de una disciplina emergente en la Argentina: la Arqueología Histórica. Arqueología 8:29-56.
Francisco Rivera Amaro – Arqueólogo (Universidad de Chile), Magíster en Ciencias Históricas con mención en Arqueología (Universidad de Friburgo, Suiza), actualmente cursa el programa de Doctorado en Antropología en la Universidad de Montreal, Canadá. Es socio y representante legal de la consultora SurAndino Estudios Arqueológicos y Patrimoniales Ltda. Ha trabajado en distintos proyectos de investigación Fondart y Fondecyt en el Norte Grande de Chile, especialmente en el área de la arqueología histórica de la minería. Es autor y coautor de artículos y libros, entre ellos El Mineral de Caracoles. Arqueología e historia de un distrito minero de la Región de Antofagasta (1870-1989) (2008) y Arqueología Histórica en el Mineral de Capote, Chile: organización espacial y diferenciación social en una mina de oro (siglo XX) (2012).
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El rio Mapocho y sus riberas. Espacio público e intervención urbana en Santiago de Chile (1885-1918) | Simón Castillo Fernández
En aquel texto ineludible para la historia urbana del país que es Santiago de Chile: historia de una sociedad urbana, Armando de Ramón advertía a los historiadores que adhirieran a la historiografía de la ciudad y sus problemas sobre el riesgo metodológico de focalizar su atención en cuestiones relativas a las formas o límites urbanos, desatendiendo con ello las dimensiones sociales inherentes al proceso urbano. Así, el premio nacional de Historia señalaba que la única posibilidad válida para quien enfrentara este desafío pasaba por construir un relato de la ciudad que partiera del estudio de la sociedad urbana: entender sus formas de habitar y ocupar el espacio urbano, del cómo y para qué construirlo, de las demandas asociadas a la vida en la ciudad como servicios públicos, los abastos, del cómo conviven en el espacio público las clases sociales. Siguiendo estas premisas, se debe partir reconociendo que Castillo ha recogido abiertamente estas propuestas al ofrecernos en su texto una idea sobre cómo, a través de intervenciones técnicas y urbanísticas, el espacio público del río Mapocho y sus riberas señalaron transformaciones socioculturales que operaron sobre la sociedad que lo circundaba. Leia Mais
Rebeldes ilustradas (La otra transición) – GARCÍA DE LEÓN (REF)
GARCÍA DE LEÓN, María Antonia. Rebeldes ilustradas (La otra transición). Barcelona: Editorial Anthropos, 2008. 220 p. Resenha de: SUBIRATS, Marina. Socializadas bajo el franquismo, rebeldes en la transicion, feministas siempre (Reflexiones sobre una obra de actualidad). Revista Estudos Feministas v.17 n.3 Florianópolis Sept./Dec. 2009.
He aquí una original contribución para una Memoria de Género en la sociedad española actual. Con estas Rebeldes ilustradas que nos ofrece ahora María Antonia García de León, la autora avanza un paso más en lo que aparece ya como un proyecto intelectual consolidado: la construcción de la memoria colectiva de unas generaciones de mujeres españolas que rompieron los moldes de género e introdujeron en España una nueva manera de ser mujer. Herederas y heridas fue una primera indagación sobre la posibilidad y condición de este cambio, especialmente para las mujeres que dedicaron su vida a la Universidad y la investigación; su muy reciente Antropólogas, politólogas y sociólogas, de autoría compartida con María Dolores F. Figares, se plantea la indagación sobre qué ha ocurrido con las mujeres profesionales de las ciencias sociales, qué han hecho y qué han dejado en los ámbitos de sus especialidades. Y formula ya claramente una pregunta relevante ¿qué quedará de nosotras cuando hayamos muerto? Un interrogante que inquieta a María Antonia y que, a través de ella, se transmite como un eco a unos colectivos de mujeres que están llegando al tiempo de los balances.
Una inquietud y una pregunta totalmente pertinentes. Los indudables logros de las mujeres españolas que vivieron la transición política, la necesidad de afirmar las victorias para dejar atrás los tonos plañideros y comenzar a ser por derecho propio, han enmascarado, probablemente, muchas de las debilidades de la situación. Ser investigadoras, catedráticas, autoras reconocidas, profesoras en universidades prestigiosas, ostentar cargos políticos, son condiciones sociales que, detentadas por hombres, aseguran algún lugar en la memoria colectiva. Tal vez no un nombre propio o una estantería en las grandes bibliotecas; pero sí, por lo menos, un renglón en los registros de la impronta generacional. Atareadas en ser, en hacer, en vivir, dimos por descontada la inscripción automática en esta memoria, como algo inherente a los puestos conseguidos. Y hoy empezamos a ver que no es así, que sigue sin ser lo mismo ser autor que autora, y que la voz de las mujeres, sean quienes sean, no se inscribe automáticamente en la historia común. Porque la escritura de esta historia no fue nunca automática, sino selección desde el poder.
Un poder que seguimos sin lograr.
Así que, nos dice la autora, no hay que esperar a que los futuros cronistas nos rescaten del olvido, sino que, como siempre para las mujeres, ponte tu misma a tejer tu traje y deja de esperar en vano al hada madrina. Y he aquí un nuevo fruto de este empeño: con Rebeldes ilustradas María Antonia nos ofrece una nueva reflexión polifónica y multidimensional, y sigue abriendo caminos para la construcción de una memoria generacional.
Una reflexión polifónica: como suele hacer en la mayoría de sus obras, también aquí María Antonia García de León se acompaña de otras voces. En este caso, voces directas, no ya cortadas temáticamente o como ilustraciones de determinadas tesis. El relato personal de la propia vida nada tiene que ver con la exhibición: es parte de la historia, siempre, y en determinados casos, parte de una historia tan especial y atípica que debe ser conservada para que en el futuro puedan entenderse las trayectorias comunes a partir de estas huellas. Mujeres muy conocidas, indispensables en la historia española de los sesenta, los setenta, los ochenta, los noventa, los dos mil, que han explorado territorios, han derribado barreras, han colonizado espacios antes inaccesibles. Que lo siguen haciendo: Celia Amorós, Paloma Gascón, Isabel Morán, Pilar Pérez Fuentes. Perfiles obligados para entender una etapa del cambio, porque además de construirlo con sus vidas, tienen el don de la palabra y la capacidad de la reflexión, de la comprensión de los cómos y los porqués.
Tienen elaborada una narrativa que describe un mundo, una época, un antes y un después. Y nos muestran, paso a paso, día a día, cómo avanzaron en el difícil aprendizaje de ser mujeres tradicionales primero, de dejar de serlo después, de asumir perfiles, responsabilidades, tareas, que en su niñez nunca pudieron figurar en su horizonte vital, y a las que, en cambio, hubo que lanzarse, gozosas y temblando, sin apenas modelos, asumiendo riesgos, muchos riesgos.
Y también una voz propia, la de María Antonia, en una interesante autoentrevista, con la que sienta un precedente curioso, en la línea de la emergencia del sujeto como centro de la reflexión. Un precedente no exento de riesgos, una vez más, porque ¿cómo establecer la dualidad, el diálogo, la distancia necesaria para esquivar la autocomplacencia, el narcisismo, la autojustificación? ¿Por qué no escribir directamente unas memorias personales, género de reglas conocidas que no pretende más verdad que la personal? Mi impresión es que María Antonia no está interesada en contarnos su vida, sino en extraer de ella, como material que tiene a mano, la narración de una experiencia común y al mismo tiempo irrepetible. Y para ello, se desdobla en un diálogo consigo misma, en un alarde de duplicidad que nos hace olvidar que quien pregunta y quien responde es una misma persona. Sólo desde un hábito de distanciamiento largamente adquirido en la práctica de las ciencias sociales pueden tenerse ciertas garantías de objetividad en este tipo de ejercicio. Sólo desde el rigor de una mirada habituada a triturar la vida en la batidora de una metodología implacable es posible extraer de la propia experiencia categorías más universales que las del testimonio o la melancolía.
Polifonía, pues, pero también multidimensionalidad. Y es aquí donde Rebeldes ilustradas adquiere, en mi opinión, una amplitud de objetivos que la convierten en el libro más ambicioso de la autora.
He mencionado ya una primera dimensión: la de la voluntad de construcción de una memoria generacional en una etapa especialmente intensa. Para quienes la vivimos, todo suena a conocido. Pero vendrán otras, ya están aquí, que apenas pueden creerlo. “Me casaba en enero y no me dejaron salir en nochevieja”, cuenta Celia. Un ejemplo entre tantos. Y cada una de nosotras podría contar decenas de anécdotas parecidas, que configuran un mundo que ya no existe. Cuando alguna española, en el futuro, tenga la tentación de la nostalgia, que relea estas páginas, para celebrar con euforia su presente, que tantas, antes de nosotras, murieron sin alcanzar.
Pero hay más, hay más. La dimensión política recorre el libro, que no por azar lleva como subtítulo “La otra transición”. Efectivamente, la transición política española se ha considerado modélica, ha sido analizada, divulgada, ensalzada y hasta se ha intentado exportarla y copiarla. Pero ¿qué transición? Hubo tantas transiciones… Y la que ha sobrevivido, como siempre, fue la transición masculina, aquella a través de la cual una generación de hombres relevó a otra en el poder. Y, al realizar el relevo, no sólo cambiaron los nombres y las caras, sino las reglas de juego colectivas. ¿Quién va a negar su importancia?
Aquella transición, leída a menudo como una epopeya, fue posible porque culminó diversas transiciones. Que casi nunca fueron contadas. La transición de la clase trabajadora, por ejemplo, que pasó de clase en sí a clase para sí, para decir lo que quería y lo que no quería, y obligar así a cambiar las reglas de juego, porque había aprendido a usar en su favor las del franquismo y bloquear las fábricas cuando hiciera falta. O bloquear las escuelas, en un recuerdo para mí imborrable de miles de maestras en acción, utilizando incluso los sindicatos verticales cuando hizo falta. La transición de los partidos clandestinos, la transición de los estudiantes, la transición de los militares, la transición de los vencidos y de los exiliados, capaces de aceptar un paréntesis cuando hizo falta para pactar una nueva Constitución.
Y la transición de las mujeres, tal vez la más poderosa, tal vez la más olvidada. Como nos recuerda Anna Caballé en un magnífico prólogo, no había ninguna mujer entre los siete padres de la Constitución, y a nadie se le ocurrió sin embargo discutir su legitimidad. De hecho, todavía se está escribiendo una Constitución de la que formemos parte: las recientes leyes contra la violencia de género, por la igualdad, el proyecto que ahora mismo (invierno 2009) está en debate sobre la modificación de la ley del aborto, no son sino incorporaciones tardías a lo que debía haber sido una Constitución que contemplara la igualdad entre los dos sexos, la incorporación de las exigencias de los géneros y la desaparición de las barreras entre ellos. Porque esta transición se hizo, pero sin el suficiente reflejo en las leyes, en las normas colectivas. Como siempre, ello no era importante, podía esperar. Como ha sucedido en tantas transiciones, recordadas en este libro por Pamela Radcliff, Breny Mendoza y Amalia Rubio, en preciosas aportaciones que nos dan toda la dimensión política del tema.
En las grandes batallas, los hombres requieren el esfuerzo de las mujeres, su sacrificio, su tiempo y su energía, para lo que se presenta como una batalla para el bien común. Y dicen: “Tu causa es importante, pero debe esperar a que triunfe la mía. Después, todo se os dará por añadidura”. Lo oímos entonces: su transición era inaplazable, la nuestra podía esperar. Por suerte, muchas no lo creyeron ya, y las transiciones se hicieron en paralelo, sin pedir permiso, sin esperarlo. Pero ahora todo ello debe consolidarse para que nunca pueda producirse una vuelta atrás.
Consolidar la presencia de las mujeres en el ámbito público, en la historia, en las decisiones que se toman respecto a la vida colectiva como una exigencia inaplazable. Para que, en adelante, quien quiera contar con las mujeres tenga que incluirlas, o atenerse a las consecuencias: por ejemplo, no recibir su voto. Quien quiera escribir la historia tenga que incluirlas, o atenerse a las consecuencias: ser desautorizado como autor androcéntrico y parcial. Porque la huella de las que fueron antes ya sea tan imborrable que los olvidos no tengan justificación ni disculpa alguna.
Gracias de nuevo, María Antonia García de León, por seguir en la brecha de una tarea necesaria, en la que, esperemos, muchas otras y muchos otros te sigan.
Marina Subirats – Universitat Autònoma de Barcelona.
Vozes femininas do Império e da República – LÔBO; FARIA (REF)
LÔBO, Yolanda; FARIA, Lia (orgs.). Vozes femininas do Império e da República. Rio de Janeiro: Quartet : FAPERJ, 2008. Resenha de: PAIVA, Kelen Benfenatti. Contar, é preciso. Revista Estudos Feministas v.17 n.2 Florianópolis May/Aug. 2009.
É fato que a história das mulheres e sua inserção no espaço público foram marcadas por uma longa trajetória de preconceitos e de dificuldades, por isso faz-se, ainda hoje, necessário contar essa história tantas vezes silenciada ao longo dos séculos. E com certeza foi essa a intenção de Yolanda Lôbo e Lia Faria quando reuniram, em Vozes femininas do Império e da República, uma coletânea de artigos com a intenção de “descortinar ideologias e utopias presentes no imaginário feminino, apontando assim para a construção histórica do gênero feminino em Portugal e no Brasil” (p. 16).
Com 368 páginas, o livro publicado pela Editora Quartet e pela Fundação de Amparo à Pesquisa do Estado do Rio de Janeiro (FAPERJ), em 2008, está a serviço de contar a história das mulheres por meio de experiências pessoais que ultrapassam a esfera do individual. Pode-se afirmar que a diversidade de assuntos abordados e os diferentes enfoques são perpassados e conduzidos por dois eixos centrais: educação e gênero.
Estruturalmente, o livro apresenta-se dividido em três partes: “Falas Imperiais”, “Falas Literárias” e “Falas Apaixonadas”. Na primeira constam dois artigos cuja temática é a educação no Oitocentos. Na segunda aparecem cinco textos que tratam de nomes importantes de mulheres na imprensa, na educação e na literatura. E em “Falas Apaixonadas” concentram-se quatro artigos que enfocam a atuação política e as intervenções de mulheres na educação e na cultura.
Sobre educação, é possível uma “volta” ao passado com Maria Celi Chaves Vasconcelos em “Vozes femininas do Oitocentos: o papel das preceptoras nas casas brasileiras”, em que a autora recupera parte da história das mulheres que encontraram nessa prática educativa um meio de subsistência. Como destaca a autora, as preceptoras foram, no século XIX, as primeiras educadoras “oficialmente instituídas que tornaram o seu ‘fazer’ uma ‘atividade profissional’ remunerada, representando a abertura do mercado de trabalho intelectual à condição feminina” (p. 38).
Sobre a educação feminina, cabe destacar o enfoque dado por Suely Gomes Costa em “Diário de uma e outras meninas: práticas domésticas e educação”, em que o olhar da pesquisadora se volta ao Diário de Helena Morley, publicado em 1942. A partir das experiências pessoais vividas na infância em Diamantina, narradas no diário, registra-se “um painel de trabalho de muitas mulheres a sua volta, das mais às menos instruídas, entrelaçadas em rede, nessa luta comum por sobrevivência” (p. 67). As confissões relatam a participação de meninas nos afazeres domésticos diários e a dificuldade de conciliar a casa e a escola. Destacam, ainda, como aponta Suely, a participação feminina na captação de moedas por meio do trabalho restrito ao âmbito do lar, as chamadas “prendas femininas”. Por fim, o artigo ressalta que a luta pela sobrevivência, nesses casos, criou “reiteradas restrições de acessos à educação” (p. 70).
Será a educação, ainda, pano de fundo em “Vozes católicas: um estudo sobre a presença feminina no periódico A Ordem (anos 1930-40)”. No artigo, Ana Maria Bandeira de Mello Magaldi resgata a participação de algumas mulheres na revista e destaca o caráter de “apostolado doutrinário e espiritual” da publicação. Atenta para a participação, dentre outras, de Lúcia Miguel Pereira na seção “Crônica feminina”, criada em 1932. Nas crônicas assinadas pela autora, há uma reflexão sobre os novos rumos da vida social que impactariam na condição feminina. Sobre o assunto, a cronista deixa explícita sua preocupação com risco de a mulher deixar-se seduzir por um ritmo, uma “trepidação”, própria dos tempos modernos, que a conduziria ao trabalho remunerado na esfera pública, quase sempre marcado pelo individualismo. É o foco no social a maior defesa da autora, que enfatiza a importância da educação feminina para um projeto segundo o qual a mulher deveria “pôr a serviço do bem comum as riquezas de sua psicologia materna “(p. 98), como bem destaca a autora do artigo.
É ainda pelo viés da educação e da literatura que Constância Lima Duarte nos apresenta Nísia Floresta, nome importante no avanço da educação feminina no Brasil, que traz em quase todos os seus livros “o propósito de formar e modificar consciências” e o projeto de “alterar o quadro ideológico-social” (p. 106). Em “Nísia Floresta e a educação feminina no séc. XIX”, a pesquisadora destaca o caráter inovador das ideias e práticas educativas de Nísia, como sua defesa por uma educação feminina pautada menos na educação da agulha e mais em uma formação multifacetada. Lembra ainda que, na produção da escritora, há textos que se inscrevem na tradição de uma “prosa moralista de intenção nitidamente doutrinária”, com o objetivo principal de “transformar a mulher indiferente em mãe amorosa e responsável”, contribuindo – sem o saber – para a cristalização de uma “mística feminina” (p. 140). A pesquisadora afirma que, a posteriori, “é fácil de perceber a manipulação ideológica desse discurso e as conseqüências na vida das mulheres” e destaca como o elogio da maternidade tornou-se uma “nova forma de enclausuramento” (p. 140).
Em “Carmen Dolores: as contradições de uma literata da virada do século”, Rachel Soihet e Flávia Copio Esteves se unem para apresentar ao leitor outra mulher à frente de seu tempo. Ciente das aptidões e dos papéis de cada gênero como construções sociais, Carmen Dolores usou a escrita para tratar de assuntos de interesse das mulheres, como a desmistificação da maternidade como seu único destino e a defesa do divórcio em nome da integridade familiar, da política, da educação e do trabalho feminino. Convivem nas crônicas assinadas pela autora a busca da libertação feminina pela educação e pelo trabalho e a manutenção de alguns comportamentos femininos. Tal paradoxo, claramente apontado pelas autoras, deve-se ao fato de que a escritora é, como tantas outras, uma “expressão da cultura de seu tempo e de sua classe”, sendo preciso considerar “a flexibilidade da ‘jaula’ representada pela cultura” (p. 165-166).
Pelo viés memorialístico e pelo cunho autobiográfico dos diários, dos cadernos de anotações e dos álbuns de memórias da professora Maria Luiza Schmidt Rehder, textos analisados por Marilena A. Jorge Guedes de Camargo, em “Ecos de um passado feminino: entre escritos e sentimentos”, chegam a nós relatando a trajetória de uma mulher movida pelos sentimentos que se propõe a “fazer história com sua experiência”. Assim, ao narrar sua vida, em Rio Claro, registra também acontecimentos importantes da década de 1930. Relata, por exemplo, a formação de um exército de voluntários unidos sob ideais patrióticos em defesa de São Paulo e registra a participação das mulheres paulistas na Revolução de 1932, costurando fardas e cobertores, angariando donativos para a manutenção dos batalhões, além da atuação das enfermeiras em hospitais de campanha.
Ao falar da condição feminina impressa no romance A doce canção de Caetana, de Nélida Piñon, Tânia Navarro Swain propõe uma “leitura ativa” que em nada se pretende imparcial ou distanciada, “apropriando-se” da narrativa para criar e atribuir-lhe sentidos múltiplos. Assim, em “A doce canção de Caetana: meu olhar” busca investigar as imagens e representações sociais do feminino e do masculino que habitam o romance. Discute, entre outros assuntos, a instituição do casamento como valor social na manutenção do poder masculino; a “ilusória força masculina” pautada no “fantasma da potência sexual” e na “posse de corpos alheios”; e a prostituição como “criação social”, na qual, como destaca a autora, há “violência de corpos desprovidos de subjetividade” (p. 216).
Atravessando o Atlântico, Áurea Adão e Maria José Remédios detêm-se na participação política das mulheres em Portugal de 1946 a 1961. Em “Os discursos do poder e as políticas educativas na governação de Oliveira Salazar: as intervenções das mulheres na Assembléia Nacional”, as autoras atentam para a atuação das deputadas na Assembleia Nacional bem como para a imagem do feminino que subjaz, explícita ou implicitamente, nas suas intervenções. Para tanto, analisam os discursos de seis mulheres parlamentares e observam que algumas áreas estavam restritas à intervenção pública feminina: a educação, a família, a assistência social e a saúde. Toda tentativa de ir além de tais assuntos era marcada por justificativas das parlamentares diante de seus pares. Ainda nos discursos dessas mulheres pode-se perceber, como destacam as autoras, a defesa da permanência da mulher no âmbito do lar, numa “valorização da função de mãe de família” e de “guardiã vigilante da harmonia e da felicidade do lar”, numa “verdadeira vocação de mulher” (p. 272), contribuindo para a manutenção de um questionável modelo social.
Seguindo ainda a trilha de mulheres que fizeram história, Lia Ciomar Macedo de Faria, Edna Maria dos Santos e Rosemaria J. Vieira da Silva seguem os passos da professora e historiadora Maria Yeda Linhares. De perfil “questionador e combativo” e de trajetória marcada “pela irreverência e coragem intelectual”, Maria Yeda se colocou em defesa do direito à educação e à garantia de uma escola pública efetivamente republicana, pois, para ela, segundo destacam as autoras em “Os múltiplos olhares de Maria Yeda Linhares: educação, história e política no feminino”, o sucesso da escola pública significa uma “questão de sobrevivência se quisermos existir como povo e nação” (p. 297).
A trajetória de outra professora, Myrthes de Luca Wenzel, também é abordada em “Alcachofras-dos-telhados: lições de pedagogia de uma educadora”, por Yolanda Lôbo. À frente da Secretaria Estadual de Educação e Cultura do Rio de Janeiro, a educadora reuniu em torno de si um seleto grupo de intelectuais e foi, como destaca a autora do artigo, idealizadora de uma “pedagogia libertadora”, uma proposta educacional inovadora, que buscava a felicidade dos alunos, “com liberdade de criar, de viver em sociedade e ao mesmo tempo preparados de modo completo e científico” (p. 316).
Voltando-se ao espaço sociocultural português, Zília Osório de Castro, em “Na senda do feminismo intelectual”, discute a condição feminina a partir da reflexão do papel do intelectual. Destaca a criação das revistas Pensamento, O Diabo e O Sol Nascente, na década de 1930, que “apostavam na reforma cultural” e traziam em suas páginas o tema do feminismo em meio ao “confronto de valores culturais presente na sociedade portuguesa de então” (p. 340). A participação das mulheres nessas revistas representou, segundo a autora, uma evolução, seja por sua inserção em um espaço majoritariamente masculino, seja pelo reconhecimento de suas potencialidades e sua “comparticipação na criação da nova sociedade” ou pela “conscientização de uma outra idéia de mulher” (p. 340), ser humano dotado de direitos e deveres. Por meio dessas mulheres se deu um “feminismo interventivo e não apenas participativo, um feminismo cívico e não apenas político” (p. 341). Zília lembra o nome de Ana de Castro Osório no feminismo cultural dos anos 1930, que defendia o trabalho como “carta de alforria” da mulher com o objetivo de responsabilizá-la por seu próprio destino. Observa ainda, nos periódicos analisados, dois tipos de feminismo: um “feminismo feminino”, pelo qual a mulher reivindicava uma função social, além da revisão da sua situação familiar, profissional e política; e um “feminismo masculino”, pelo qual os homens escreviam em “defesa” das mulheres.
É interessante notar, pela leitura dos artigos reunidos em Vozes femininas do Império e da República, como o lento processo de “libertação” da mulher está ligado à promoção de sua educação, de seu desenvolvimento intelectual e de seu trabalho, reafirmando o que Virgínia Woolf teorizou tão bem em Um teto todo seu. O leitor que se aventurar nas instigantes trilhas propostas pelas autoras deste livro chegará ao final de sua leitura com a visão panorâmica das principais lutas e obstáculos vivenciados pelas mulheres ao longo dos séculos, em diferentes contextos, dos quais o reconhecimento da diferença e o direito à educação foram fundamentais ao que se convencionou chamar de feminismo.
Pode-se dizer que, nas páginas deste livro, configura-se um feminismo crítico através das vozes de 13 mulheres que se unem para contar histórias de outras mulheres, que, por sua vez, superam os relatos pessoais e fazem coro com as autoras dos artigos para narrarem juntas uma história bem mais ampla: a história das mulheres.
Kelen Benfenatti Paiva – Universidade Federal de Minas Gerais.