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La mamma, Collana L’identità italiana – D’AMELIA (BC)
D’AMELIA, Marina. La mamma, Collana L’identità italiana. Bologna: Il Mulino, 2005. 311p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.13, p.124-127, lug., 2020.
Marina d’Amelia, docente di storia moderna all’Università “La Sapienza ” di Roma e appartenente alla Società Italiana delle Storiche, si propone con questo libro di rispondere a un interrogativo ben preciso: quando nasce in Italia lo stereotipo della mamma responsabile della mancanza di senso civico da parte di cittadini educati al protagonismo individuale più che al senso del bene comune? Un rapporto madre-figlio per descrivere il quale, negli anni ’50, Corrado Alvaro introduce il termine mammismo.
L’autrice si propone di dimostrare che questa immagine materna nasce col nuovo stato italiano, poco più di due secoli fa. Non vi è traccia infatti di madri iperprotettive nella civiltà romana, caratterizzata dalla centralità del padre, dove le donne delle famiglie più ricche si facevano sostituire dalle balie nella cura dei figli e ne affidavano l’educazione a istitutori e maestri. La tradizione giurid ica romana della patria potestà si è tramandata per un lunghissimo periodo informando di sé i codici di comportamento delle strutture familiari medievali e moderne.
Solo a partire dal tardo Settecento la mentalità collettiva comincia a guardare in modo nuovo alla relazione madre-figlio. Si fa strada una nuova visione del matrimonio, della famiglia e la consapevolezza dell’importanza del legame materno soprattutto con il figlio maschio.
Nel corso dell’Ottocento la cultura romantica, centrata sulla rivalutazione del sentimento e degli affetti privati, riscopre il femminile, attribuendo alla madre un ruolo privilegiato nella formazione sentimentale dei figli e anche un importante ruolo pubblico.
Nel volume, corredato da un’amp ia bibliografia illustrata e commentata, l’autrice delinea i tratti dell’immagine della madre italiana ripercorrendo i momenti fondamenta li del suo definirsi dal Risorgimento alla II guerra mondiale, rievocando molte figure femminili, molte testimonianze, scritture pubbliche e private.
Le madri risorgimentali
L’identità della madre italiana nasce nel Risorgimento ed è caratterizzata da un rapporto quasi simbiotico con il figlio, dall’ammirazione per tutto ciò che fa, da un eccesso di protezione nei suoi confronti e dall’intromissione nella sua vita privata.
È importante ricordare come il matrimo nio per le donne di quell’epoca non fosse frutto di una libera scelta, ma dell’obbedienza a una decisione paterna. La maternità invece era vista come vocazione e missione legata alla “rigenerazione della patria” attraverso l’educazione dei figli agli ideali di libertà, dedizione e senso del sacrificio, valori che saranno alla base della nuova Italia.
La figura della madre del patriota risorgimentale, dedita a sostenerlo durante l’esilio o nelle guerre di indipendenza, nasce negli ambienti patriottici mazziniani.
Dopo il 1848 si registra un maggio re coinvolgimento delle madri a favore dell’indipendenza italiana: organizzano campagne di propaganda con giornali e manifesti volti a mobilitare l’opinio ne pubblica.
Maria Drago, madre di Giuseppe Mazzini, e Adelaide Cairoli e i suoi numerosi figli si affermano come l’asse portante del mito di un Risorgimento che ne riconosce l’importanza pubblica in quanto capaci di mettere in moto grandi emozioni collettive.
Dopo l’Unità d’Italia, nel momento in cui si tratta di riscrivere la storia, l’icona della madre sacrificale viene posta alla base di un nuovo sentimento nazionale: diviene mito fondativo, emblema di una comune madre patria che unisce tutti i suoi figli in un comune vincolo di fratellanza.
La madre angelo del focolare nell’età liberale
In un momento storico in cui la maggioranza della popolazione italiana viveva in precarie condizioni di vita il pensiero positivista assegna alle madri il compito di rigenerare il patrimonio fisico e razziale della nazione, facendosi promotric i dell’allenamento ginnico sia dei figli che delle figlie e garantendo l’igiene dell’ambiente in cui li crescono. Si tratta di abbassare il tasso di mortalità infantile e di innalzare quello di alfabetizzazione.
Il nuovo modello è dunque quello della madre totalmente dedita alla casa, al benessere familiare, disponibile ad accogliere le indicazioni degli esperti sull’allevamento e sull’educazione dei bambini.
Le materie di igiene ed economia domestica entrano a far parte del currico lo scolastico dal 1899; proliferano inoltre manuali, riviste dedicate al pubblico femminile che insegnano alle donne come fare le madri.
In tal modo, osserva giustamente l’autrice, la presenza e l’ingerenza della madre nella vita del figlio diventa ancor più indiscutibile, fondata com’è su basi scientifiche.
Lo Stato si premura comunque di ribadire la preminenza della volontà paterna nella vita dei figli, ma questo non impedisce di perpetuare in altra forma l’idea di una relazione materna appagante di per se stessa, all’interno della quale le donne possono sublimare una vita fatta di subalternità e insoddisfazione coniugale.
L’amore materno è insomma un sentimento esclusivo, molto diverso da quello paterno, che non lascia spazio ad altro. Deriva da un compito preciso assegnato dalla Natura alla donna in quanto conservatrice della specie e somiglia ad una lava sempre rovente che ribolle continua nel vulcano del cuore. Solo dopo Freud, aggiunge l’autrice, ci si interrogherà su quali ambivalenze si nascondano dietro tanta dedizione materna.
Ben radicata rimane la centralità della maternità nel primo decennio del Novecento e se ne trovano molte testimonianze nelle riviste femminili che, pur riconoscendo il diritto all’emancipazione femminile , insistono sulla specificità della donna latina , contenta di essere donna grazie alla missio ne ricevuta dalla Natura di mettere al mondo un figlio.
La maternità si impone dunque come elemento fondante e irrinunciab ile dell’identità femminile, contrappo sto all’egomania che connota l’unive rso mentale maschile.
La madre cattolica
La Chiesa cattolica non si sottrae al compito di indicare le caratteristiche della madre ideale, incaricata dell’educazione religiosa dei figli, chiamata a difendere il suo sacerdozio d’amore, così lo definisce Beppe Fenoglio nel libro La vera madre di famiglia, dalle richieste di uguaglianza e parità, dalla pericolosa concorrenza di dottrine laiche , dalla tentazione di seguire le mode straniere del tempo.
Caratteristica peculiare della madre cattolica è quella di dover essere una presenza silenziosa, capace di controllare le proprie emozioni. Le parole che non siano preghiere sono giudicate superflue e immodeste. Va coltivata anche la virtù del non rivendicare mai le proprie ragioni, pur sapendo di averle, ma di soffocare gli scontri in un sospiro, di nascondere e dissimulare le pene. Il Papa Pio X nel 1906 dichiara che la donna non deve votare, ma deve votarsi a un’alta idealità di bene umano.
Degli ideali di emancipazione femmin ile si fanno carico nel frattempo associazioni e movimenti di ispirazione socialista che si battono per l’istruzione, la parità salaria le fra uomo e donna e il suo diritto al voto.
I primi anni del Novecento vedono un importante cambiamento nelle direttive cattoliche che incoraggiano sia l’istruz io ne che la partecipazione femminile alla vita pubblica. Si riconosce alle donne il ruolo missionario di difesa dei valori cristia ni nella società.
Madri e Grande guerra
In piena continuità con il modello sacrificale proposto in età risorgimentale, la guerra chiede alle madri italiane di appellarsi al proprio senso del dovere e di sostenere i figli impegnati nello sforzo bellico, sintonizzandosi con il loro vissuto emotivo soprattutto attraverso lo scambio epistolare che raggiunge quasi i quattro miliardi di lettere e cartoline, con una media di circa tre milioni al giorno. Ne risulta un’immagine di madre disposta a penare silenziosamente, centrata sul desiderio di rispecchiare le aspirazioni dei figli e percepita come un talismano, come presenza salvifica, ultimo rifugio dallo smarrimento.
La guerra attiva inoltre molti organismi di solidarietà e di mobilitazione civile che riconoscono un ruolo centrale alle madri, ruolo ribadito alla fine del conflitto quando lo Stato italiano decide di celebrarne l’eroismo e il sacrificio con un monume nto , La Pietà di Libero Andreotti, collocato nella Chiesa di Santa Croce a Firenze e idealmente collegato con quello del Milite Ignoto a Roma.
L’enfatizzazione di questo specifico ruolo della donna lascia troppo nell’omb ra , secondo l’autrice, alcuni elementi chiave della vita femminile di questi anni come le manifestazioni contro la guerra, la diffusione del lavoro femminile, la crescente fatica di sopravvivere di molte donne diventate capifamiglia e l’impossibilità di dare voce a sentimenti e angosce repressi in nome della coerenza.
La figura della madre in epoca fascista
Alla celebrazione della maternità il fascismo dedica una festa particolare: la Giornata della madre e del fanciullo, grande “rito di amore e orgoglio nazionale” avente lo scopo di sollecitare l’incremento della popolazione.
Vi si celebra l’immagine della donna sposa e madre prolifica esemplare, tenace custode della morale sessuale tradiziona le , soprattutto nei confronti delle figlie femmine, anche se i confini di ciò che è lecito vengono definiti dal padre. Il comportamento autoritario della famiglia ha come conseguenza quella di reprimere il desiderio di affermazione e indipendenza delle figlie.
Il partito fascista cerca in ogni modo di evitare qualunque possibile commistione fra maschi e femmine sia in ambito scolastico che durante le manifestazioni pubblic he riservate ai giovani.
Comunque, grazie alle adunanze, alla divisa, alle decorazioni, le ragazze scoprono la possibilità di una sia pur piccola liberazione dal controllo familia re , alimentando in se stesse il desiderio di un’emancipazione futura.
Il modello ideale proposto dal regime fascista è quello di Rosa Maltoni, la madre del Duce, donna semplice ma ricca di spiritualità , trasformata nel mito celebrativo della donna capace di sostenere l’ascesa sociale dei figli, opponendo un fermo rifiuto a tutti i mali che possono disgregare la famiglia. Predappio, luogo natale di Mussolini diviene meta di pellegrinaggi per onorare in lei tutte le madri della Nuova Italia.
La figura della madre nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza
Mentre il Risorgimento e la Grande guerra avevano fatto leva sull’ero ismo silenzioso delle madri comuni disposte al sacrificio pur di sostenere la causa patriottica, la seconda guerra mondiale ne esalta questa caratteristica soltanto fino all’ 8 settembre 1943 che vede il disgregarsi improvviso dell’esercito.
Le madri non vengono risparmiate dall’orrore di quanto accade successivamente ed è difficile per loro superare la barriera delle opposte appartenenze dei propri figli.
Alcune si ritrovano ad essere madri di partigiani o partigiane esse stesse pronte ad impegnarsi e lottare nella Resistenza, altre si schierano con il fronte dei Repubblichini di Salò arruolandosi nel servizio ausilia rio femminile.
Il pensiero della madre percepita come rifugio rassicurante accomuna invece il sentire dei due schieramenti, a conferma di una fratellanza che la logica di guerra nega, ma anche di uno stretto collegamento fra istinto di sopravvivenza e bisogno di protezione.
Livia Tiazzoldi
[IF]Culture del consumo – CAPUZZO (BC)
CAPUZZO, Paolo. Culture del consumo. Bologna: Il Mulino, 2006. 334p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.179-183, giu./nov., 2019.
Paolo Capuzzo, docente di storia contemporanea presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna, ricostruisce in questo libro la nascita, lo sviluppo della società dei consumi e le modificazioni culturali che ne accompagnano l’espansione in Europa tra il Seicento e l’inizio del Novecento. L’esperienza europea è collocata all’interno del processo che dalle prime conquiste coloniali ha portato alla formazione dell’economia mondiale.
Si mettono a fuoco da un lato la progressiva acquisizione di forza politico-economica della società europea, in particolare di quella dell’Europa urbana del Nord, dall’altro la sua capacità di democratizzarsi, nel momento in cui le classi subalterne si appropriano di beni inizialmente appartenenti alla sfera del lusso.
Il libro è suddiviso in 5 capitoli preceduti da un’Introduzione nella quale vengono delineate le linee di forza dell’intero percorso e le tematiche centrali: • il rapporto tra consumi europei e commercio mondiale • la dimensione etica del consumo • la costruzione della sfera privata • la regolazione dei rapporti di classe • la costruzione di uno spazio pubblico del consumo “Ricostruendo la storia della diffusione dello zucchero, del caffè, del tabacco, del tè, della cioccolata è possibile- scrive l’autore- mettere in evidenza i rapporti tra la domanda europea, la conquista di basi e monopoli commerciali, l’organizzazione della produzione di questi beni.
La diffusione delle nuove bevande mostra poi come, una volta approdate nei grandi porti commerciali europei, queste merci subissero un variegato processo di appropriazione da parte dei consumatori […]. Le nuove culture del consumo che si costruiscono in Europa attraverso queste bevande non sono, insomma, un epifenomeno dell’espansione coloniale, ma rispondono a un processo di produzione della quotidianità, nella quale agiscono soggetti che si appropriano di tali risorse.” (p. 10).
Nel momento in cui la ricchezza e il potere non derivano più dall’appartenenza ad un ceto sociale, ma dal successo del mercato sono i modi del consumo a decidere dell’inclusione o dell’esclusione da una determinata cerchia sociale.
Il lusso si popolarizza sovvertendo le tradizionali gerarchie sociali. E’ dunque evidente il legame tra la diffusione dei liberi consumi e il progresso della democrazia.
I processi di consumo appartengono ad una sfera dotata di autonomia, ma sono in stretta relazione con la definizione delle identità, con la costruzione dei rapporti sociali e di genere.
Il consumatore non è visto come un terminale passivo di un processo di manipolazione dei suoi desideri, ma come individuo capace di attribuire un significato al consumo, pur all’interno di un habitus, cioè di un insieme di principi legati all’estrazione sociale e interiorizzati fin dall’infanzia che ne orientano l’azione attribuendo un determinato valore alle cose.
Tale habitus viene progressivamente messo in crisi dal processo di commercializzazione, dalla logica del profitto, che utilizza la moda e la pubblicità come criterio di valore di una merce.
“La forza semiotica della commercializzazione contemporanea, scrive ancora l’autore, è certamente un carattere inedito nella creazione dell’immaginario, cosa che distingue la nostra società da quelle precedenti […] tuttavia i consumatori continuano a far udire la loro presenza […]”. (p. 15 ).
Ciascuno dei cinque capitoli in cui si articola il volume offre una sintesi ragionata degli studi prodotti dalla storiografia internazionale sui vari temi, corredata da un’ampia bibliografia.
Capitolo 1. Consumi europei e globalizzazione del commercio tra XVII e XVIII secolo
Si analizza in queste pagine l’espansione del commercio europeo all’inizio dell’Età moderna, la nascita di una prima globalizzazione collegata al colonialismo e ad una grande disponibilità di risorse materiali.
Si sottolinea il fatto che gli sviluppi e il rinnovamento dei consumi in Europa sono intimamente connessi ad un nuovo assetto del potere mondiale ottenuto con la disponibilità finanziaria, la superiorità tecnologica, con la forza delle armi e con la deportazione della manodopera africana impegnata nelle miniere di metalli preziosi e nelle piantagioni americane.
Le colonie sono luogo da cui prelevare materie prime come zucchero, caffè, legname, tabacco, cotone da trasformare e rivendere poi come prodotti finiti a prezzi ben più alti.
Sulle tavole europee arrivano nuovi prodotti (patate, pomodori, cacao, fagioli, frutta tropicale, mais, zucche) inizialmente utilizzati solo dalle classi sociali più alte, ma accessibili poi anche ad altre classi sociali, quando la produzione col sistema delle piantagioni e la commercializzazione su larga scala ne abbassano i prezzi.
Caffè, tè e tabacco (il primo dei prodotti esotici ad essere consumato dalle masse) vengono subito apprezzati per la loro capacità di garantire lucidità, al contrario del vino.
Il consumo di questi prodotti si associa anche a una specifica ritualità praticata in nuovi spazi pubblici come le coffee e le tea houses, fattori formidabili di “sociabilità”, o nelle case private, nell’ambito di un mondo soprattutto femminile.
I primi locali detti caffè, dal nome della bevanda che vi si consumava, nascono a Venezia alla metà del Seicento e diventano di moda nel secolo successivo in tutte le grandi città europee. Sono frequentati da un’ élite di uomini d’affari che leggono i giornali, discutono di politica. Vi si aggiungono poi artisti e scrittori.
Capitolo 2. Lusso, moda e ordine sociale tra XVIII e XIX secolo
Il capitolo è dedicato nella prima parte ad una riflessione sul lusso, alla sua funzione nella società di corte, in particolare quella francese, e alla sua progressiva “popolarizzazione”.
Nelle società di corte il consumo designa un modello particolare di sociabilità, quello dei cortigiani e delle cortigiane, che si afferma poi come modello anche nelle grandi città europee come Parigi, la capitale del gusto, soprattutto per le donne che frequentano i salotti dell’alta società. Quello dell’apparire, grazie all’uso di cosmetici, gioielli, abiti eleganti, diventa un valore sempre più ricercato dai nuovi ricchi, da esibire sia nella sfera privata che in quella pubblica dei teatri, delle sale da musica, dei ristoranti.
Nei contesti cittadini è lo stile del consumo a decretare l’inclusione o l’esclusione da una certa schiera di persone. La ricchezza derivante dal mercato ha sostituito la nobiltà di nascita nella costruzione della posizione sociale e pubblica, soppiantando anche qualunque codice etico nell’accumulazione del reddito.
Nasce in questi anni la categoria di “povertà” dove la miseria materiale è strettamente connessa a quella morale.
La questione dell’apparire contrapposto all’essere è al centro di molti dibattiti nel Settecento: c’è chi critica il lusso in nome di un ideale di uguaglianza sociale, chi lo considera un’opportunità per scardinare un rigido ordinamento sociale.
Molti autori concordano sul fatto che la grandezza delle nazioni si fonda sul lusso, sulla forza economica, non sulle virtù dei cittadini: è impossibile controllare e organizzare una società in base a dei valori condivisi che restano appannaggio della sfera privata.
Il dibattito proseguirà nei secoli successivi accanto al filone della critica moralistica del lusso considerato responsabile della decadenza culturale.
La seconda parte del capitolo affronta la questione della moda come nuova dimensione del consumo a partire dalla fine del Settecento. L’ostentazione del lusso cede il passo alla sobrietà, alla scelta di un abbigliamento regolato da specifici galatei, diversificato in base all’età, alle differenze di genere e ai vari contesti.
La diffusione della moda è legata agli spazi urbani delle città, alle vetrine dei negozi, alle illustrazioni colorate e alla pubblicità sui giornali.
Essere bella, elegante, consona alle varie situazioni sociali è una precisa missione sociale per la donna borghese dell’Ottocento: è occasione di legittimazione sociale e anche indiretta dimostrazione del successo economico maschile.
Le classi sociali inferiori subiscono il fascino della moda e sono spinte a imitare quelle superiori che, dal canto loro, cambiano spesso abbigliamento per mantenere la distinzione.
Si innesca così un meccanismo di continua emulazione. Lo sviluppo della moda in Inghilterra alla fine del Settecento può essere considerato come una delle cause della rivoluzione industriale favorita anche dall’importazione del cotone, usato per produrre tessuti meno costosi.
Nel corso dell’Ottocento la produzione del vestiario si diversifica in base a due segmenti di mercato: quella industriale di massa sia per i lavoratori delle grandi città che per le uniformi dell’esercito e quella dei laboratori di sartoria che, grazie all’uso delle macchine da cucire, confezionano abiti su misura per la clientela più ricca.
Il Novecento vede poi l’allargamento della classe media e la nascita dei grandi magazzini che propongono abiti colorati, in fibre sintetiche, standardizzati, ma anche diversificati in base alle varie esigenze della vita moderna.
Capitoli 3 e 4. Culture del consumo delle classi medie e della classe operaia
Questa parte del libro è centrata sull’analisi e sul confronto fra queste due classi sociali in un periodo che va dal 1700 all’inizio del 1900.
Le descrizioni sono declinate al plurale tenendo conto delle variabili geografiche, delle trasformazioni nel corso del tempo, delle dinamiche di distinzione, conflitto, emulazione.
Della classe media si sottolinea l’importante funzione di separare lo spazio pubblico da quello domestico, luogo della convivenza familiare, al riparo dalla corruzione della città.
Le famiglie borghesi in Olanda e in Inghilterra hanno il compito di ricostruire una sfera morale che l’economia e la politica non sono in grado di proporre.
Il lavoro femminile si sposta all’interno della casa dove la moglie si dedica all’amministrazione, all’arredamento, alla cucina e alla cura dei figli lasciando al marito il compito di provvedere alle necessità economiche della famiglia.
La classe operaia valorizza molto meno la sfera privata della casa, dove molte donne non possono inizialmente svolgere un ruolo simile a quelle della borghesia. Sono spesso costrette a lavorare in fabbrica assieme ai mariti e ai figli, con i quali condividono anche momenti di tempo libero fuori casa: in spazi pubblici, pub e taverne, luoghi di consumo di alcol, gioco e scommesse.
Le tipologie abitative delle due classi sociali sono ampiamente descritte e messe a confronto per quanto riguarda il numero di stanze, l’arredamento, le spese destinate ai consumi domestici.
Tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento la classe media, fatta di commercianti, imprenditori, professionisti e funzionari statali, assume un ruolo sempre più importante nell’Europa nord-occidentale dove si affermano il capitalismo industriale e lo stato moderno.
Il processo di privatizzazione dello spazio abitativo diventa uno dei principi che regolano i consumi nel XX° secolo per quanto riguarda la tipologia delle case e l’arredamento: nasce l’industria di massa del mobile e dei beni durevoli.
La separazione fra spazio privato e pubblico è alla base anche dell’edilizia seriale del Novecento, secolo nel quale gli stili di consumo della classe operaia cominciano ad avvicinarsi a quelli della classe media.
La riduzione dei tempi di lavoro nelle fabbriche lascia spazio a partire dalla fine dell’Ottocento a momenti di divertimento: il gioco del calcio, le vacanze, favorite anche dai mezzi pubblici di trasporto come ferrovie e tram.
La Grande Guerra rappresenta un ulteriore momento di profonda trasformazione della società europea per quanto riguarda la massificazione degli stili di vita, trasformazione che si compie pienamente negli anni Cinquanta dello stesso secolo.
L’industria della cultura di massa è fondamentale nel Novecento: è strumento per regolare il tempo libero, ma anche terreno di eversione identitaria.
Capitolo 5. Lo spazio pubblico del consumo: geografia urbana e reincanto del mondo
Si affronta il tema del consumo come forma di evasione dalla quotidianità, momento da vivere in grandi città quali Londra e Parigi, negli spazi che allestiscono lo spettacolo delle merci dove è possibile sognare ad occhi aperti.
L’autore sottolinea in particolare le trasformazioni della geografia urbana e dei flussi di traffico provocati dalla nascita dei grandi magazzini, strutture sviluppate su più piani, dotate di grandi vetrine e insegne luminose. Questi nuovi spazi pubblici del consumo sono frequentati soprattutto dalle donne della classe media, libere di muoversi anche non accompagnate dagli uomini.
Interessanti le osservazioni a proposito della nuova figura delle commesse che anticipano stili di vita femminili del Novecento.
La commercializzazione dei prodotti riceve un grande impulso nella seconda metà dell’Ottocento dalle grandi esposizioni di Londra, Vienna, Parigi che nel 1900 totalizza quasi 50 milioni di visitatori.
Livia Tiazzoldi
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