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La Spagnola in Italia 1918-1919 / Eugenia Tognotti
Eugenia Tognotti / Foto: La Stampa /
Misure di distanziamento sociale, sospensione delle riunioni pubbliche, divieto di assembramento, limitazione all’uso dei mezzi di trasporto, chiusura di scuole, chiese e teatri: il lockdown di un secolo fa. La storia delle pandemie ci riporta, con il libro di Eugenia Tognotti, al biennio 1918-’19, nel pieno della terribile Spagnola; in effetti, gli echi di una malattia che sembrava sfuggire a ogni possibilità di intervento umano non sono poi così differenti da quelli riportati dai media oggi. La difficoltà diagnostica legata alla scarsa specificità del quadro sintomatico, simile a quello di altre malattie influenzali, ma ben più letale, l’elevato potenziale contagioso, la concomitanza con la guerra fecero rapidamente delinearsi il quadro di una tragedia collettiva.
“… Fame, peste, guerra. In tutta Italia vi è una grande epidemia chiamata febbre spagnola che anche capitò a Monterosso, non vi potete immaginare quanta gioventù muore, se dura ancora non restiamo nessuno […]. Si muore come l’animali senza il conforto di parenti e amici”. Il tono tragico di questa come di altre lettere, inviate da cittadini italiani a congiunti e amici residenti all’estero e richiamate nel volume, non lascia dubbi sulla gravità della situazione venutasi a creare a seguito della diffusione della Spagnola. Tuttavia, la documentazione ufficiale di quegli anni non fornisce un riscontro corrispondente, né permette di rilevare le reali dimensioni del problema; anzi, ci restituisce l’immagine di un dramma che si delinea a tinte flebili, almeno nella prima fase. E se anche oggi non è raro trovare memoria orale della terribile malattia, meno presente e più sfumata è la versione dei canali divulgativi ufficiali, apparati ministeriali, trattati scientifici, organi di informazione; tanto che molti interrogativi ancora rimangono in attesa di una risposta. Sui giornali dell’epoca le tracce della prima ondata dell’epidemia sono ineffabili, la tragedia che si consuma ha ancora tratti deboli e contorni sfocati. Quasi nulla riesce a trapelare della reale diffusione, delle incertezze del mondo accademico e scientifico, delle disfunzioni del sistema sanitario.
Come mai tale silenzio? Evidentemente, c’erano buoni motivi perché la realtà fosse taciuta o sottostimata. Nell’Italia lacerata dal primo conflitto mondiale, la morsa della censura dello Stato che proibiva la pubblicazione di informazioni militari si strinse, nel momento più drammatico della guerra, anche attorno alla Spagnola, la guerra sanitaria: fornire al nemico austro-ungarico informazioni sulla gravità della situazione reale era considerato contrario agli interessi nazionali, soprattutto nel momento in cui si stava preparando l’offensiva decisiva. Le direttive governative erano ferree per quanto riguarda il controllo dell’informazione: prevedevano addirittura il sequestro per le testate che avessero pubblicato articoli esplicativi. In realtà, ben prima dell’arrivo della Spagnola i giornali si erano esercitati a tacere ogni notizia che potesse avere un effetto demoralizzante sulla popolazione, aggredita già da diverse malattie epidemiche, come il colera, il tifo e il vaiolo.
Dopo il negazionismo del primo periodo – tutt’al più trafiletti tranquillizzanti, brevi note dai tratti ironici sulle pagine locali – finalizzato al consenso e al sostegno al mondo economico e produttivo necessario per la gestione della contingenza bellica, si rileva l’evidente difficoltà delle agenzie governative nel controllo e nell’orientamento della stampa; il diritto del cittadino all’informazione rimase, comunque, fortemente limitato, anche se risultò impossibile nascondere totalmente la realtà quando l’epidemia raggiunse l’acme.
Il saggio di Eugenia Tognotti, pubblicato nel 2002 e aggiornato nell’edizione del 2015, fornisce nuove conoscenze sulla pandemia influenzale del 1918. L’autrice ricorre a una molteplicità di fonti per ricostruire gli aspetti epidemiologici e socio-sanitari, ripercorrendo la cronologia di quegli anni: carteggi amministrativi, provvedimenti delle Autorità sanitarie, relazioni ministeriali. Ma sono presenti e riccamente documentati, grazie alla ricerca effettuata sui quotidiani dell’epoca e negli archivi di scrittura popolare, anche altri tratti che possono efficacemente contribuire alla costruzione del quadro storico del periodo, come le relazioni sociali, i comportamenti dei soggetti, le credenze e le idee ricorrenti: l’impatto che il dilagare della malattia esercitò sull’immaginario e che trovano, in modo sorprendente, una forma di continuità nelle crisi epidemiche, dai tempi lontani alla contemporaneità.
Chi non ricorda la mesta colonna dei carri militari diretti al cimitero di Bergamo, recentemente proposta dai media? Allo stesso modo, le immagini delle salme trasportate con mezzi speciali, delle inumazioni senza la presenza delle famiglie, dei depositi di feretri presso il cimitero monumentale e la stazione tranviaria di Porta Romana di Milano ebbero, negli anni 1918-’19, un enorme impatto sociale. “Non più preti, non più croci, non più campane” riferiva desolata una donna foggiana al genero. Le principali componenti dei rituali funebri, le cerimonie per elaborare il lutto, la condivisione del dolore nell’ambito familiare, l’intreccio fra la dimensione privata e quella pubblica erano cancellati dalla morte per Spagnola. Le fonti epistolari esprimono lo sconvolgimento del vissuto, lo smarrimento e l’angoscia di fronte ai divieti. “E’ una malattia brutta e schifosa che non ti portano nemmeno in Chiesa”, scriveva un abitante di Bedonia in una lettera diretta a New York. Ancora più della morte, sembrava incutere paura la desacralizzazione del corpo, il suo essere considerato un fardello pericoloso di cui disfarsi prima possibile.
Sono stati “i prigionieri dell’isola dell’Asinara a portare il tifo, il colera e altre malattie contagiose. Le autorità non erano riuscite a isolarle come avrebbero dovuto”; quindi, “i venditori ambulanti che bazzicavano di nascosto gli appartamenti” li introducono nelle case. Le parole del prefetto di Alghero nell’anno 1915 ci ricordano che, anche prima che si manifestasse la Spagnola, un’epidemia assume i tratti del dispositivo di emarginazione. Accade oggi, succedeva in un passato ben più lontano, avvenne anche in quel difficile biennio. La necessità dell’igiene e della disinfezione diventava un’ossessione e, almeno in alcuni strati della società, nascondeva la fobia del contatto con quelle parti sociali – quasi sempre gli abitanti dei quartieri popolari delle città – che si sottraevano all’imperativo delle norme igieniche e che venivano, quindi, considerate a rischio. Si trattava dei soggetti socialmente fragili, che occupavano misere case e angusti tuguri, in vie marginali e cosparse di rifiuti. Se non era più possibile, in pieno XX secolo, l’allontanamento coatto delle masse minacciose dei derelitti fuori del contesto urbano, rimaneva, però, lo stigma contro i portatori di germi, pericolosi vettori della Spagnola, incapaci di adeguarsi alle norme igieniche dominanti.
In realtà, scrive la Tognotti, l’aggressione epidemica del 1918 costituisce un’eccezione a una costante sociale: non operò distinzioni di classe. Tuttavia, la prospettiva storica ci restituisce una novità sul piano demografico e sociale: particolarmente bersagliate dalla malattia, con una mortalità superiore a quella degli uomini, erano le donne. L’epidemia non si era incaricata di porre rimedio all’ineguaglianza di fronte ad una morte di genere, quella in guerra, che mieteva solo vittime maschili; altrove dovevano essere ricercate le ragioni di un fenomeno che colpiva la comunità ma che, all’epoca, non furono subito chiare: l’epidemia infierì in modo particolare sulle giovani donne e sulle ragazze che si erano appropriate quasi in esclusiva del compito di assistenza e di cura dei malati, nelle famiglie e fuori. Una rilevante presenza femminile si stagliava con forza sullo scenario pubblico e si concretizzava nella partecipazione alle riunioni operative, nella distribuzione dei generi alimentari, nel confezionamento dei dispositivi di protezione civile. Le donne, inoltre, supplivano la componente lavorativa maschile impiegata nella guerra, assicurando una funzione insostituibile nelle attività produttive: erano perciò particolarmente esposte al rischio del contagio.
La Spagnola, nelle tre ondate con le quali infierì su buona parte della popolazione mondiale, mieté quasi 20 milioni di vittime; una tragedia che si aggiunse a quella della guerra, nel cui contesto – le linee dei diversi fronti, nella loro condizione di debilitazione e di malnutrizione – trovò l’ambiente giusto per prosperare. Una tragedia, tuttavia, che, come si è detto, ha lasciato scarse tracce di sé nella storiografia; per questo ha un particolare valore il libro della Tognotti. La sua documentatissima ricerca può risultare utile innanzitutto alla storia della medicina, come fa notare Gilberto Corbellini nella presentazione del volume; può rendere consapevole il futuro medico che a monte delle conoscenze e delle pratiche correnti esiste un bagaglio straordinario di esperienze, fatto sia di successi sia di errori, e che egli stesso deve essere pronto a cambiare per apprendere le nuove spiegazioni a fronte dei progressi continui del sapere e delle connessioni fra le discipline mediche. L’autrice mette in evidenza il fatto che molti interrogativi sulla patogenesi, sulle caratteristiche epidemiologiche, sui modelli di mortalità specifica per età restano ancora senza risposta, mentre la comunità scientifica pone la sua attenzione all’emergere di virus influenzali percepiti come minacce capaci di sconvolgere il mondo globale e di renderlo ancora più vulnerabile sul piano economico e sociale. La comparazione con l’attualità proposta implicitamente dal volume contribuisce a formare un clima di consapevolezza culturale in relazione alle conquiste della scienza medica, ma anche alle correlazioni che vengono a istituirsi tra medicina e vivere sociale.
Il volume della Tognotti guarda al passato e centra l’attenzione sul nostro Paese, senza dimenticare le istanze che, necessariamente, una pandemia pone sul piano mondiale. E questo è senz’altro uno dei suoi elementi di forza anche sul piano formativo, allorché si voglia ricostruire eventi trascorsi per facilitare la comprensione di ciò che può accadere in caso di riproposizione del fenomeno. Si tratta di un progetto educativo ambizioso – fa notare ancora Corbellini -, che mira a reintegrare il valore culturale ed etico-sociale della medicina attraverso il recupero della dimensione storica del sapere medico. In effetti, le dinamiche delle pandemie influenzali sembrano essere esempi emblematici di come un interesse storico, articolato a più livelli, dalle ricerche paleomicrobiologiche alle reazioni socio-culturali, possa avere ricadute sul presente.
La ricerca della Tognotti contribuisce a colmare le zone d’ombra conseguenti alla rimozione della memoria, di cui molti manuali sono esempi. Fornisce una magistrale dimostrazione di come si elabora e diffonde sapere storiografico, dal momento che le origini e le caratteristiche della crisi pandemica forse più grave dell’umanità vengono ricostruite attraverso un’approfondita ricerca d’archivio, un attento esame della letteratura medica e un’estesa ricognizione dei mezzi d’informazione; il risultato è di sicuro interesse e fruibilità da parte del mondo della scuola. Mettendo in luce il rapporto tra guerra e malattie infettive, il libro mostra come i conflitti siano luoghi dell’esistenza che travalicano ogni linea di confine per intaccare le esistenze di tutti.
Le pandemie sono eventi che si ripetono nel tempo e ricorrono spesso con le stesse modalità, anche se mai in maniera del tutto uguale: il libro fornisce utili strumenti di analisi interpretativa e permette una riflessione approfondita e a tutto tondo su un argomento di grande attualità e di interesse globale.
Enrica Dondero
TOGNOTTI, Eugenia. La Spagnola in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-19). Milano: FrancoAngeli, 2015. Resenha de: DONDERO, Enrica. Il Bollettino di Clio, n.14, p.157-160, dic., 2020. Acessar publicação original
In cammino. Breve storia delle migrazioni – BACCI (BC)
BACCI, Massimo Livi. In cammino. Breve storia delle migrazioni. Bologna: Il Mulino, 2010. 268p. Resenha de: DONDERO, Enrica. Il Bollettino di Clio, n.8, p.71-71, dic., 2017.
Il passato, il presente e il futuro delle migrazioni. Livi Bacci, uno dei massimi esperti italiani di demografia storica, non limita tuttavia il suo studio a una storia dei gruppi migranti nel lungo periodo, ma inserisce le dinamiche demografiche in una complessa rete di relazioni con quelle economiche, sociali, antropologiche, politiche e giuridiche. A partire da un presupposto – il desiderio di spostarsi è prerogativa ed essenziale componente dell’essere umano – il fenomeno migratorio è osservato da una pluralità di punti di vista: correlato nei suoi sviluppi ad atti politici che, di volta in volta, lo hanno favorito, vincolato o negato; strettamente connesso al progresso tecnico nella comunicazione e nei trasporti; fattore di powerful delle relazioni umane e delle interazioni, delle mescolanze bioenergetiche e culturali, della conoscenza, dei tratti culturali, dei linguaggi e dei comportamenti.
L’attenzione verso il solo aspetto demografico, unitamente alle alterazioni date da distorsioni percettive, luoghi comuni e stereotipi, ha prodotto una visione limitata e riduttiva del fenomeno: nel mondo del XXI secolo, le grandi migrazioni non vengono considerate un motore primario delle società, ma piuttosto una componente deformata del cambiamento sociale, un agente ingovernabile, un disturbo di fondo che distorce la regolarità della vita organizzata. In realtà, homo sapiens è homo movens; quasi il 10% della popolazione dei paesi ricchi ha avuto una storia di migrante: condizione esistenziale comune, quindi, non eccezionale.
Il testo di Livi Bacci, nato dalla sistematizzazione di riflessioni, spunti e scritti precedenti, si basa perciò sull’interpretazione delle migrazioni come specificità umana e fenomeno costitutivo delle società. L’ambizione è quella di precisare, provare e sostenere tale convinzione attraverso il metodo di studio del fenomeno e la sua sostanza e la struttura del volume rispecchia puntualmente le intenzioni: i primi tre capitoli fondano alcuni concetti e schemi interpretativi essenziali per uno sguardo ampio sul fenomeno migratorio; i tre successivi analizzano i sistemi migratori attraverso un indicatore diacronico; gli ultimi due capitoli, a partire da raffronti e analisi incrociate a livello mondiale, prefigurano politiche migratorie tendenti a rendere effettivo il diritto allo spostamento e a dare dignità a una popolazione “con diritti dimezzati”. È presente un’appendice che riporta puntuali dati statistici.
L’onda di avanzamento e le migrazioni lente: il paradigma è tipico degli spostamenti delle società agricole in territori spopolati o radamente insediati. Due aspetti sono caratterizzanti: la capacità di adattarsi ad ambienti diversi e la possibilità di generare un surplus demografico sufficiente per operare ulteriori avanzamenti. Sono coerenti con tale modello le forme di migrazioni preistoriche, ad esempio; o la grande colonizzazione medievale (Drang nach Osten) che, tra XI e XIV secolo, spinse l’espansionismo delle popolazioni germaniche a nord dei rilievi centrali della Boemia fino alla costa baltica; nell’area intermedia dai Paesi Bassi alla Turingia, alla Sassonia e alla Slesia; a sud in direzione delle pianure ungheresi lungo la via naturale del Danubio.
Questo processo di insediamento solleva rilevanti spunti di interesse: fu infatti un movimento intenzionale, organizzato e guidato da una vera e propria politica migratoria; ebbe un cospicuo effetto ‘fondatore’ (pochi capostipiti, molti discendenti); fu sostenuto da una notevole disponibilità di capitali. Tratti similari a quell’onda di avanzamento si possono ritrovare nel graduale popolamento del continente nordamericano, nel quale lo spostamento delle frontiere avvenne per fattori di natura politica, di attrazione e tecnologica (il completamento della ferrovia transcontinentale). Anche relativamente allo stanziamento nella Russia asiatica nel periodo precedente la prima guerra mondiale si possono rinvenire tracce di un’onda di avanzamento; ma in quel caso le intrusioni della politica zarista furono più vincolanti.
Il secondo capitolo introduce il concetto di fitness, capacità di adattamento. Il riferimento non va in modo esclusivo agli elementi biologici, ma anche ai tratti sociali, culturali, antropologici. I migranti non sono un campione casuale della popolazione di partenza: sono selezionati per alcuni caratteri, quali l’età, lo stato di salute, la capacità riproduttiva, la resistenza, la forza fisica; ma anche l’inclinazione a sperimentare il nuovo o caratteristiche acquisite, come un mestiere, possono costituire un vantaggio.
D’altra parte, l’ambiente di destinazione svolge una funzione altrettanto decisiva, anche in relazione all’’effetto fondatore’, cioè al processo che determina lo sviluppo di una nuova popolazione a partire da un ridotto numero di individui. Il caso delle migrazioni funzionali allo schiavismo evidenzia come l’insuccesso dipenda da fattori plurimi: le attività pesanti delle donne, la ridotta possibilità di trovare compagni, la bassa proporzione di coppie, la preferenza dei padroni a investire nel lavoro femminile piuttosto che nella nascita di creoli, la mortalità durante il viaggio e nelle piantagioni, la malnutrizione, il difficile acclimatamento, l’alta densità abitativa e la scarsa igiene.
Le politiche migratorie costituiscono un potente fattore facilitante o ostacolante le migrazioni, di cui si avverte il peso con lo svilupparsi delle prime entità statuali: in che modo influenzano gli esiti, le fitness dei migranti e il loro successo sociale ed economico? Un esempio paradigmatico di influenza positiva è individuato da Livi Bacci nel governo degli Inca, che organizzava insediamenti a carattere coloniale con finalità di presidio, di consolidamento della conquista e di specializzazione produttiva, ma con attenzione alla compatibilità ambientale ed ecologica. Impegno che non ebbero gli Spagnoli, i quali causarono conseguenze nefaste sugli altipiani e compromisero la fitness degli abitanti, indebolendone la sopravvivenza.
Un altro caso interessante si rinviene nella migrazione tedesca (Drang nach Osten) di cui si è già riferito, in particolare nel forte ruolo organizzativo dei principi, della Chiesa o degli ordini cavallereschi. Fu decisiva, in quel caso, la capacità di scegliere i terreni incolti, di distribuirli oculatamente ai coloni, di dotare questi ultimi di materie prime e utensili. L’accortezza della politica messa in atto portò, di conseguenza, a un successo demografico.
In epoca moderna, le monarchie assolute d’Europa ricorsero frequentemente a migrazioni organizzate, sulla base di una filosofia mercantilista sostenuta dall’idea che una popolazione numerosa fosse un pilastro del benessere delle nazioni. Due fattori principalmente motivavano le scelte migratorie: il primo, di natura economica, consisteva nel mettere in valore terre ancora incolte o poco coltivate; il secondo, di natura politica e strategica, mirava a rafforzare le aree di confine adiacenti a Stati ostili di cui si temeva l’aggressività.
Il caso della Maremma toscana, nel XVIII secolo, testimonia invece un tentativo finito in disastro. Pochi anni dopo l’insediamento voluto dal granduca lorenese Francesco II, la colonia era già sull’orlo dell’estinzione. Il rapidissimo declino fu dovuto sia all’abbandono, sia all’alta mortalità favorita da pessime condizioni igieniche, inadeguatezza delle abitazioni, abusi nella distribuzione del cibo, febbri malariche.
Le numerose analisi condotte e i confronti anche sul piano mondiale, gli esempi di migrazioni nel lungo e lunghissimo periodo e gli episodi che si esauriscono in pochi anni confermano la complessa struttura metodologica adottata dall’autore e la sua scelta di non limitarsi alla prospettiva demografica: i fenomeni migratori non possono essere ridotti alla contabilità dei flussi che partono o rientrano. Anche il fattore tempo incide sulle caratteristiche delle migrazioni: la periodizzazione adottata da Livi Bacci nei capitoli specificamente dedicati (XVI-XIX secolo; 1800-1913; 1914-2010) permette l’emersione di alcuni elementi significativi per capire come le condizioni interne a un’epoca siano influenti.
La grande rivoluzione geografica di inizio Cinquecento o la Rivoluzione industriale accelerarono i processi migratori interni ed esterni agli Stati perché fattori oggettivi migliorarono le condizioni della mobilità: progresso nella navigazione, aumento delle disponibilità energetiche, potenziamento delle infrastrutture, innovazioni tecnologiche, aumento dei consumi calorici.
La profonda trasformazione del mondo rurale e il dissolversi dell’antico equilibrio conseguenti allo sviluppo industriale determinarono un nuovo modello di migrazione nel XIX secolo. L’emigrazione europea assunse le caratteristiche di un fenomeno di massa: è il tentativo di uscire dalla trappola della povertà, la rottura di uno storico equilibrio tipico delle campagne basato sulla forza di tolleranza a condizioni ritenute immutabili. La migrazione, in questo caso, seleziona chi ha una solida motivazione, chi rifiuta l’adattamento, chi sa sfruttare appieno le opportunità offerte dal dislivello di circostanze economiche tra paesi di origine e paesi di destinazione.
A partire dalla metà del XX secolo e ancor più nel passaggio del millennio, assistiamo a una serie di fenomeni – alcuni congiunturali, altri strutturali – che modificano le caratteristiche delle vicende migratorie: l’inversione del ciclo di crescita economica, il ripiegamento demografico di alcune aree del pianeta, l’allentamento dei legami umani fra Europa e resto del mondo, l’esplosione di conflitti con sconvolgimenti che hanno pochi paragoni nella storia. Tutto ciò implica la necessità di riconsiderare i fenomeni migratori e le condizioni che li generano; si impone, ad esempio, il riconoscimento della differenza concettuale tra migrazione fisiologica e migrazione di rifugiati e profughi. Pezzi di mondo sono crollati, falliti, e la loro fine innesca partenze che portano sulle nostre coste il migrante nigeriano che fugge la fame e quello siriano che abbandona una città bombardata. Il loro arrivo confligge con le difficoltà legate all’assorbimento nell’attuale contesto economico occidentale, contrassegnato da una forte disoccupazione: come affrontare il problema, come valorizzare la possibilità di accoglienza senza che sia stravolta la struttura sociale ed economica del paese? Come conciliare il diritto che gli Stati hanno di governare i flussi migratori con il dovere di accogliere chi ha lo status di rifugiato? D’altra parte, l’attuale Europa a produttività frenata, in cui la popolazione anziana ostacola l’inserimento dei giovani ma determina anche un forte aumento della domanda di servizi personali, in cui si afferma una richiesta di qualificazione ad alto livello ma anche di sostegno a lavoro poco qualificato in settori come l’agricoltura e l’edilizia, apre altri interrogativi e rende problematico ogni tentativo di soluzione: ad esempio, l’idea di armonizzare andamento economico e migrazione e di programmare i flussi, da molti sostenuta, è risultata finora fallimentare.
I costrutti delle scienze economiche e sociali restituiscono la complessità della situazione e la necessità di alcuni radicali cambiamenti di rotta; voce sempre più isolata o almeno in controtendenza, Livi Bacci sostiene l’ipotesi di un governo internazionale del fenomeno, una istituzione sovranazionale alla quale possano essere cedute frazioni, anche minime, della sovranità statuale in ambiti connessi con le migrazioni. Ma suggerisce anche di cambiare la struttura mentale nell’approccio al fenomeno: non considerare il migrante solo nella sua condizione economica di forza lavoro, elemento estraneo alla società che lo accoglie, ma valorizzare la qualità del capitale umano, attivando politiche sociali finalizzate.
Ciò implica integrare i modelli interpretativi usuali con le idee di immigrazione di insediamento e di cittadinanza e affrontare nel dibattito pubblico, e quindi anche a scuola, i temi della crisi della regione di arrivo e di una strategia politica che contempli la volontà di inclusione.
Il libro fornisce agli insegnanti una grande ricchezza di elementi per un approccio ampio e articolato sul piano interdisciplinare, ma non elude un presupposto valoriale. Livi Bacci ricorda, infatti, in conclusione, una lezione fondamentale: “Quanta strada c’è ancora da fare per dare ordine e dignità a una delle prerogative fondamentali dell’individuo: quella di spostarsi nello spazio, senza ledere i diritti altrui e senza il timore che ai propri venga fatta violenza”.
Enrica Dondero
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