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Decentering History: Local Stories and Cultural Crossings in a Global World | Natalie Zemon Davies
O presente trabalho é uma resenha sobre o ensaio intitulado Decentering History: Local Stories and Cultural Crossings in a Global World2, de autoria de Natalie Zemon Davis, e que foi primeiramente apresentado, no ano de 2010, durante o Ludwig Holberg Prize Sumposium, em Bergen, na Noruega.
Natalie Zemon Davis é uma historiadora estadunidense e canadense, nascida na cidade de Detroit, no estado de Michigan, Estados Unidos. Após ter realizado a sua graduação no Smith College e o seu mestrado no Radcliffe College, no ano de 1959 ela conclui seu doutoramento na Universidade de Michigan. Foi professora em diferentes universidades como a Universidade de Princeton, a Universidade Brown, a Universidade da Califórnia e a Universidade de Toronto. Suas pesquisas, enquanto historiadora, incluem trabalhos importantes como Trickster Travels3, The Gift in Sixteenth-Century France4, The Return of Martin Guerre5 e Women on the Margins: Three Seventeenth-Century Lives6. Davis recebeu diversos prêmios e reconhecimentos como o grau honorário da Universidade de St. Andrews e a National Humanities Medal. Ambas as condecorações lhe foram entregues no ano de 2013. Leia Mais
Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo – DAVIS (BC)
DAVIS, Natalie Zemon. Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo. Bari: Laterza, 1996. 372p. Resenha de: COCILOVO, Cristina. Il Bollettino di Clio, n.9, p.70-72, feb., 2018.
Tre donne introdotte da un’intervista impossibile, che le costringe a prender vita in un libro e a confrontarsi, loro così lontane nella religione (rispettivamente ebraica, cattolica, luterana). Ma al dunque, grazie alla caparbietà dell’autrice Natalie Zemon Davis, riescono nella simulazione a trovare il fondamento della loro identità comune: l’affermazione della loro autonomia, del loro talento, della loro intraprendenza. Eccezionale per un’epoca caratterizzata dal “silenzio” delle donne, dall’assenza di loro tracce, nella ricostruzione selettiva della storiografia ufficiale.
Glikl Bas Yehudah Leib, ebrea askenazita cioè di origine tedesca, a differenza delle altre donne del suo tempo non disdegna il lavoro. Nonostante una numerosa famiglia, collabora con l’attività dell’amato marito, commerciante di gioielli e prestatore di denaro, che a seconda del momento può portare a vistosi arricchimenti come a repentine rovine. Glikl non dà al denaro valore in sé. Non desidera vivere nel lusso. Come la maggior parte degli ebrei abita in una casa d’affitto, non potendo per legge possedere proprietà. Per lei il valore assoluto è l’onore, l’essere considerata degna di rispetto, lei come la sua famiglia. Sappiamo tutto questo da una autobiografia articolata in ben sette libri, in cui Glikl alterna la narrazione della sua vita a vere e proprie parabole, che hanno lo scopo di far comprendere i valori positivi della solidarietà, dell’amore, il senso della sofferenza. Una donna di grande cultura teologica e tecnico – commerciale, rispettata per la sua acutezza nel gestire questioni finanziarie e insieme profondamente religiosa e giusta. Sebbene lei e la sua famiglia abbiano talvolta subito le conseguenze di persecuzioni antiebraiche, che li costringono a trasferimenti forzati, accetta la sofferenza, mai si ribella a Dio che muto e immobile non interviene. Semmai lo interroga e con rassegnata accettazione e cerca di ricominciare ex novo.
Marie de l’Incarnation, se si può considerare per il nostro tempo personaggio singolare, per non dire psichicamente disturbato, è invece perfettamente inquadrabile nell’epoca della Controriforma. Ispirata fin da giovane dalla vocazione divina, trascorre la vita secondo due passioni apparentemente poco conciliabili: un forte trasporto per la vita mistica e una spiccata capacità organizzativa del quotidiano. Divenuta vedova precocemente, percepisce il potente richiamo del misticismo come altre “sante” dell’epoca, che trasfigurano in estasi religiosa le pulsioni del proprio corpo, ma nel contempo gestisce con molta maestria, quasi con piglio imprenditoriale, l’azienda commerciale della sorella e del cognato, che la ospitano insieme al figlioletto. Per il resto della sua vita vivrà questa difficile dicotomia. A circa trent’anni decide di prendere i voti come suor Orsolina, separandosi dal figlio adolescente e disperato. Vive in clausura, mortificando con sofferenze fisiche il suo corpo secondo l’esempio di Teresa d’Avila, finché non ha l’occasione di poter educare al pensiero cristiano i “selvaggi” del Nuovo Mondo. Si trasferisce in Canada, dove lavora con efficientismo invidiabile nelle difficili condizioni di una Missione delle suore Orsoline. Qui lei, che rifiutava il suo corpo, si accosta alla corporeità degli altri e tocca, cura, pulisce, insegna, impara le lingue locali, converte indios in un’opera pastorale a tutto campo. Soprattutto ha una ultra decennale corrispondenza con il figlio Claude, che a sua volta aveva preso i voti, e scrive testi religiosi per le genti locali nella loro lingua e scrive anche la sua autobiografia. Il figlio raccoglierà con devozione gli scritti della madre, ma li correggerà adattandone il linguaggio ingenuo allo stile sospettoso della Chiesa dell’epoca, per pubblicarli in un’opera postuma, “Vie”, dove però non inserisce gli scritti teologici di Marie in lingua irochese, algonchina e urone, utilizzati nella sua azione pastorale in Quebec.
Nonostante gli attacchi di misticismo e autoflagellazione, Marie ha un aspetto che la avvicina alla nostra sensibilità, per la relazione che ha creato con i “selvaggi”. Il suo scopo non è quello di emarginarli, ma di includerli nel mondo dei cristiani, in una visione universalistica, secondo cui non esiste differenza fra esseri umani, se questi abbracciano la parola di Cristo. Marie, mentre cerca di convertirli, educa gli indios al rispetto dell’igiene, della lettura e della scrittura. Qualora essi fuggano per l’innato desiderio di libertà di vivere nella natura, lontano da un convento di clausura, Marie li comprende e li perdona, riscoprendo il ruolo di madre generosa, che non aveva saputo assumere con il figlio al momento dell’abbandono.
Maria Sibylla Merian, luterana, originaria di Francoforte, figlia d’arte di un famoso incisore, non visse una vita familiare e borghese, come le sue condizioni le consentivano, allineandosi così alle stranezze delle altre due donne del libro. Si trasferì nel corso della vita in diversi luoghi, in seguito a scelte di vita radicali. La sua vita si potrebbe definire una metamorfosi, mimando il titolo della sua opera più famosa “Metamorfosi degli insetti del Suriname”, una raccolta di incisioni artistico-scientifiche che rappresentano la stupefacente natura tropicale. Acquisita fin da giovane una certa notorietà, grazie al suo talento di incisore1, diventa famosa dopo la pubblicazione nel 1679 del libro in due volumi “I bruchi. Le meravigliose metamorfosi dei bruchi“, in cui affianca a un centinaio di splendide incisioni di bruchi e insetti, descrizioni basate sulle sensazioni soggettive provate nell’osservazione degli aspetti naturali. Nell’organizzazione dei libri, rifiutò ogni criterio classificatorio, ritenendolo inadeguato. Non seleziona i viventi distinguendoli in catalogazioni di piante, bruchi e insetti; la sua osservazione ruota attorno a una foglia di cui si nutrono simultaneamente bruchi ed altri insetti, mentre le crisalidi si trasformano in farfalle. Evidenzia la vitalità delle relazioni fra gli esseri di un medesimo habitat. Tuttavia la sua visione della natura è profondamente religiosa, perché vi individua la straordinaria onnipotenza divina.
Morto il padre, probabilmente in crisi con il marito, si separa e sceglie di andare a vivere con le due figlie in Frisia, presso la comunità luterana dei Labadisti, che praticavano una fratellanza mistica. Qui rinuncia a ogni bene terreno e tronca le relazioni con l’esterno. Dopo pochi anni vissuti come cristallizzati in quella realtà, ecco la metamorfosi di Maria. L’eccessiva mortificazione, il distacco dalle cose del mondo e della natura, persino il ripudio del suo orgoglio di creatrice di oggetti artistici la spingono a un nuovo cambiamento.
Abbandona la comunità e si trasferisce ad Amsterdam per ricostruire la vita sua e delle figlie, ritornando all’arte incisoria, intraprendendo la strada dell’insegnamento e costruendosi una solida vita borghese, in piena autonomia di scelte anche economiche. Grazie poi al genero, che commercia con le colonie del Suriname, incuriosita dalla ricchezza di vita di quei luoghi, vi si trasferisce per due anni con la figlia minore.
In seguito a quella esperienza, pubblicò la sua opera più originale “Metamorfosi”, in cui riaffermò la sua visione della natura come un insieme di relazioni dinamiche tra viventi, che mutano nel tempo e a seconda del luogo in cui si realizzano. Consultò, senza i pregiudizi coloniali del tempo, indios e schiavi neri, che le diedero preziose indicazioni sulle caratteristiche di piante e animali del luogo, oltre alle loro abitudini di vita. Informazioni che riportò nel libro, anticipando aspetti delle attuali ecologia e antropologia. Tornata in patria, ottenne fama e riconoscimenti.
Che cosa hanno in comune queste tre donne così diverse tra loro, vissute in un periodo storico che condannava al silenzio le figure femminili? La cultura innanzitutto. Tutte e tre abitanti di città hanno realizzato importanti opere nel loro campo specifico con una cultura libera da schemi. Tutte e tre hanno superato radicali cambiamenti, hanno impostato un rapporto profondo con la divinità che prospettava una vita migliore, per superarla e trovare riscatto nel lavoro. Tutte e tre erano esperte contabili, avevano indubbio talento per gli aspetti organizzativi del lavoro e non mancavano di spirito d’avventura.
Ma vivevano ai margini. In che senso? Perché lontane dal potere politico ed economico, perché la loro era una cultura da autodidatta, non costruita nelle accademie. Grazie alla loro intraprendenza riuscirono però a dare significato originale alle loro opere.
Cosa ci resta di loro? L’autobiografia di Glikl ebbe diverse edizioni e una certa diffusione nel mondo ebraico, finché non fu dichiarato libro “velenoso” dal nazismo. Fortunatamente l’autrice ne ha ritrovato una copia alla biblioteca di Berlino.
Le opere in lingua algonchina, irochese e urone di Marie forse andarono disperse dai missionari che si avventurarono all’ovest. Invece è rimasto come testo di riferimento per le Orsoline la sua “Vie” curata dal figlio.
Maria Sibylla ebbe più fortuna. Le sue opere vennero utilizzate e citate da Linneo e la sua raccolta postuma di incisioni fu acquistata da Pietro il grande. Oggi fa bella mostra di sé nella Kunstkammer dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo, mentre il suo libro delle Metamorfosi è considerato patrimonio nazionale dal Suriname.
Le storie ritrovate delle tre donne potrebbero rientrare nella storia scolastica per ricostruire quadri d’insieme: la vita di ebrei askenaziti in Germania, il rapporto contorto con la religione controriformista di sante in estasi mistica, le relazioni contraddittorie con le genti del Nuovo Mondo, la faticosa affermazione del metodo d’osservazione scientifica.
Per gli studenti il libro costituisce probabilmente una lettura impegnativa, ma in un laboratorio storico di 17/18enni può essere interessante delineare temi come quelli accennati attraverso la costruzione di tre biografie femminili. Potrebbe diventare un’operazione capace di dare una luce diversa a queste tematiche e insieme di valorizzare i contributi ignorati di tre grandi donne del passato.
[Notas]1 Significativo che in italiano non esista la versione femminile del termine incisore.
Cristina Cocilovo
[IF]