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Children, youth and emotions in modern history: national, colonial and global perspectives | Stephanie Olsen
Ainda pouco expressivo no conjunto da produção historiográfica brasileira, o estudo das emoções estruturou-se, sobretudo na Europa, como campo específico do saber histórico, fundado, principalmente, em diálogos interdisciplinares com a Psicologia e os estudos da Educação, que procuram desvendar a historicidade das emoções e sua importância no curso de transformações e permanências históricas. Publicado em 2015, Children, Youth and Emotions in Modern History é uma interessante compilação de estudos da área organizada por Stephanie Olsen, professora da Universidade McGill, no Canadá, então pesquisadora do Max Planck Institute for Human Development, de Berlim. A coletânea é fruto de uma conferência de mesmo título organizada em 2012 pelo Centro de Estudos da História das Emoções do Max Planck Institute.
O projeto do livro é ambicioso. Sua anunciada pretensão é oferecer “contribuições teórico-metodológicas inovadoras, capazes de fazer avançar a agenda da História da Infância por meio da História das Emoções”, a partir de uma perspectiva global, defendida na Introdução do livro e, principalmente, no capítulo 2, de autoria da organizadora do volume em parceria com Karen Vallgarda e Kristine Alexander. Beneficiando-se do deslocamento do foco geográfico tradicional dos estudos da área, por longo tempo centrados nas realidades norte-americana e inglesa, e valendo-se da adoção de perspectivas coloniais, pós-coloniais e não ocidentais, a abordagem global e comparada do tema evidenciaria a articulação entre as emoções constitutivas da experiência e das concepções de infância e as realidades históricas ampliadas relacionadas, sobretudo, às dinâmicas do capitalismo internacional e à vulgarização do ideário liberal entre o início do século XIX e a metade do século XX. Assim, tal abordagem teria como efeito o questionamento de definições universais de infância, por um lado, e a articulação de uma história da infância menos etnocêntrica, por outro. Leia Mais
L’età del transito e del conflitto. Bambini e adolescenti tra guerre e dopoguerra. 1939-2015 – BACCHI (BC)
BACCHI, Maria; ROVERI, Nella. L’età del transito e del conflitto. Bambini e adolescenti tra guerre e dopoguerra. 1939-2015. Bologna: Il Mulino, 2016. 592p. Resenha de: CITTERIO, Silvana. Il Bollettino di Clio, n.9, p.66-69, feb., 2018.
Il volume: le sue parti e i suoi significati In un ponderoso volume di ben 592 pagine, le curatrici Maria Bacchi e Nella Roveri tengono insieme vicende che hanno come comun denominatore l’esperienza di bambini, bambine, adolescenti in guerra, in fuga dalle stesse e nei vari “dopoguerra”. Dette vicende si collocano nel tempo lungo dalla Seconda guerra mondiale ai giorni nostri e in un contesto globale.
Marcello Flores, nel saggio introduttivo Cartografie del Novecento: luoghi e forme del conflitto, ricostruisce la cornice spazio-temporale del “secolo breve” e ne indica i segni distintivi e contraddittori. Se, infatti, per un verso è il periodo in cui si conclamano i diritti delle persone, nasce l’opinione pubblica e si afferma il valore della libertà e della democrazia, (Flores cita per esempio la campagna di Conan Doyle e Mark Twain contro il dominio personale e feroce di Leopoldo II nel Congo), per l’altro è e sarà ricordato come un secolo di totalitarismi, razzismi e stermini. Flores ricorda: in Africa la distruzione degli Herero in Namibia da parte dell’esercito tedesco, i campi di concentramento inglesi per i boeri e, più recentemente, il Rwanda e il Congo; in Asia la Cambogia di Pol Pot; In America Guatemala e Argentina. In Europa, dopo la Shoah, ex Jugoslavia e Cecenia.
Dopo l’introduzione di Marcello Flores, il volume si articola in tre parti. La prima, Infanzie e guerre del Novecento, raccoglie l’esperienza di solidarietà e salvataggio dei ragazzi di Villa Emma a Nonantola, la testimonianza di intellettuali approdate in Italia dopo la Shoah (Edith Bruck) e dopo il conflitto serbo-bosniaco (Anja Galičić e Elvira Muičić) e la vicenda di Keiji Nakasawa che, sopravvissuto alla bomba di Hiroshima, racconterà la sua storia in un fumetto manga.
La seconda, All’inizio del terzo millennio, tratta dei ‘minori non accompagnati’ in fuga dai loro paesi e in transito o in arrivo in Italia, all’inizio del XXI secolo.
Nella terza, Memorie dell’infanzia in guerra, vengono riesaminate le esperienze dei bambini in guerra narrate nella prima parte e si aggiungono altri racconti, per esempio la vicenda della colonia di Izieu e della sua eroina e testimone, Sabine Zlatin.
Nello spazio temporale coperto dal volume (1939 – 2015), l’esperienza dei ragazzi di Villa Emma a Nonantola (fra il luglio 1942 e l’ottobre 1943) si colloca come esempio positivo di gruppo, che seppe attivare dinamiche di salvezza e di crescita. Nel 2004, la nascita della Fondazione Villa Emma a Nonantola si inserisce come buona pratica di ricostruzione storica e di conservazione dei luoghi della memoria.
Figure e ruoli femminili nel Novecento attraversato dalle guerre Mentre le storie attuali dei minori non accompagnati sono essenzialmente storie al maschile, le vicende della Shoah e quelle relative alla sanguinosa deflagrazione dell’ex Jugoslavia sono popolate da figure femminili. Le donne, si sa, sono “vittime storicamente designate”, ma chi sopravvive assume spesso il ruolo di testimone consapevole. Vediamo di seguito quali storie “al femminile” hanno rilievo nel volume.
Dalle pagine dedicate all’ex-Jugoslavia nell’ultimo decennio del Novecento, possiamo ricavare le testimonianze, analoghe ma differenti, di due scrittrici, Anja Galičić e Elvira Mujčić, preadolescenti al tempo del loro esodo in Italia durante la guerra di Bosnia.
Entrambe provengono da famiglie di intellettuali, musulmane ma profondamente laiche; entrambe trovano rifugio in Italia e vi si laureano con una tesi analoga sul ruolo dei media nella guerra dell’ex Jugoslavia; entrambe useranno l’italiano come lingua della loro produzione letteraria. Tuttavia, mentre Anja arriva 13enne in Italia dalla nativa Sarajevo con l’intera famiglia nell’aprile 1992 e si stabilisce a Gressoney, Elvira vi arriverà nel 1993 a 14 anni, dopo essersi separata dal padre e dallo zio che perderanno la vita e il corpo nel genocidio di Srebrenica, e dopo aver trascorso un anno presso un campo profughi della Caritas in Croazia.
Da queste esperienze emerge, come dato rilevante del vissuto delle bambine e dei bambini in tale contesto, quanto ci ricorda Maria Bacchi “La guerra angoscia i bambini prima e li perseguita dopo, quando gli adulti pensano che i più piccoli non ne siano toccati o ne siano finalmente fuori. Il suo svolgimento li espone a rischi terribili che, sappiamo, genera traumi, ma crea anche, paradossalmente, una sospensione della normalità che offre imprevisti spazi di libertà e di avventura”.1 Dello stesso tono la diretta testimonianza di Elvira Mujčić: “Uno degli aspetti più allucinanti di una guerra è la noia. […] Mentre gli altri bambini in giro per il mondo raccoglievano le figurine, noi raccoglievamo i pezzi di granata e facevamo le nostre collezioni, con tanto di scambi.”2 Si tratta di bambini e bambine che non possono proprio credere all’evidenza della guerra nella multiculturale Sarajevo e nella Bosnia tutta. A conforto si cita anche la testimonianza di Sasa Stanisic, giovane scrittore bosniaco in lingua tedesca.3 Del resto, il nodo della inesplicabilità dell’esplosione nazionalista nell’ex Jugoslavia è il rovello delle vittime (la stessa Mujčić lo tratta nel suo romanzo E se Fuad avesse avuto la dinamite) ed è un tema su cui si va facendo via via maggior chiarezza: con la pubblicizzazione di documenti secretati paiono delinearsi incapacità, incuria e connivenza dell’Occidente.
Un’altra storia d’infanzia in guerra è quella di Edith Bruck. Lo scenario qui è quello della Seconda guerra mondiale. Edith viene deportata a 12 anni dal suo villaggio ungherese nei lager nazisti a cui sopravvive per arrivare, dopo varie peregrinazioni, in Italia, dove comincia, con la sua autobiografia in italiano –Chi ti ama così- un’intensa attività di scrittrice e testimone. Bruck si riconosce nell’ebraismo laico (per lei archetipo di tutte le diversità) e assume la responsabilità di denunciare a quanti non sanno e non conoscono l’orrore indicibile dell’Olocausto. “Dire terrore, orrore, paura, dolore, sofferenza, fame, freddo non esprime quel freddo, quella fame, quel terrore. Anche adesso ho fame e freddo, ma non c’è confronto.”4 Signora Auschwitz verrà rinominata la Bruck da una studentessa che ne ascoltava la testimonianza. E Signora Auschwitz diventerà poi il titolo di una sua opera.
Infine Izieu. La memoria e il luogo di Pierre Jérome Biscarat ricostruisce l’episodio della colonia di Izieu, da cui il 6 aprile 1944 vennero arrestati dalla Gestapo, per ordine di Klaus Barbie, 44 bambini ebrei e 7 educatori. Imprigionati a Lione vennero successivamente internati ad Auschwitz. Sola sopravvissuta Lea Feldblum, un’educatrice di 26 anni. Tra il maggio 1943 e l’aprile 1944 la direzione della colonia era stata affidata a una coppia di ebrei francesi: Sabine e Miron Zlatin. Sabine si salverà perché quel 6 aprile 1944 si trovava a Montpellier e si prodigherà per avere giustizia, salvando la memoria e la storia di Izieu, fino a ottenere l’estradizione dalla Bolivia di Klaus Barbie che, processato nel 1987, sarà condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità.
Nel 1994 il Presidente Mitterand inaugurerà il Museo memoriale dei bambini di Izieu che è oggi accessibile alle scuole e svolge un’importante funzione pedagogica per salvare la memoria e ricostruire la storia della vicenda nell’ambito della Shoah e della Seconda guerra mondiale.
Quali analogie ritroviamo fra le storie di Anja e Elvira, le due adolescenti in fuga dalla guerra di Bosnia che eleggono l’Italia a loro luogo d’asilo, e le vicende di Edith, sopravvissuta al campo di sterminio, o di Sabine che per caso lo evitò? Sicuramente le accomuna una formazione laica, acquisita in ambito familiare – è il caso dichiarato di Anja e Elvira, intellettuali e musulmane – o conquistata successivamente, come Edith Bruck, che si riconosce in un “ebraismo laico”, o Sabine Zatlin, ebrea naturalizzata francese. In secondo luogo la volontà e la necessità di testimoniare sia con i modi della finzione letteraria (Bruck, Mujčić, Galičić) sia attraverso incontri con i giovani (Bruck). Infine l’esigenza profonda di avere giustizia a cui dedicò la sua vita Sabine Zatlin, ricostruendo la memoria di un luogo e la storia di chi altrimenti sarebbe stato cancellato.
Riflessioni e spunti didattici tra storia, memoria, narrazione Il testo offre contributi interessanti per una ricostruzione storiografica che accosta, in una riflessione non convenzionale, le storie della Shoah e il conflitto di fine Novecento nell’ex-Jugoslavia.
Il saggio di Maria Bacchi Elementi essenziali per una cronologia delle guerre jugoslave inquadra sinteticamente la complessità della vicenda. Lo sguardo di lungo periodo coglie, nella battaglia di Kosovo Polije del 1389, uno degli snodi in cui “la storia viene usata come un coltello per smembrare una nazione.”5 Infatti, in tale battaglia, divenuta simbolo della nazione serba, i serbi furono sconfitti dai turchi dell’Impero ottomano. Allo stesso modo, nel conflitto che insanguina i Balcani negli Anni ’90, Seconda guerra mondiale e Resistenza vengono richiamate in modo distorto: “Dove erano i vostri padri, mentre i nostri combattevano i nazisti?” (Detto dai paramilitari serbi ai bosniaci mentre li torturavano). Con tali modalità si sanciva la negazione del principio di Unità e Fraternità su cui si era costruita la Repubblica Jugoslava di Tito fino alla nuova Costituzione del 1974, che, a giudizio di Bacchi, è sintomo e, insieme, fattore di disgregazione.
Il testo di Nella Roveri La memoria e i luoghi. Nonantola, Izieu, Sarajevo. Quadri della memoria Note di lettura6 richiama i concetti fondamentali di memoria individuale e collettiva e il loro ruolo nella ricostruzione storica, avvicinando le vicende della Shoah – Nonantola e Izieu – a quelle del conflitto di Bosnia (Sarajevo). Con l’istituzione dei giorni della memoria e del ricordo, in Italia e in Europa si rende ufficiale la memoria collettiva del gruppo di appartenenza (sia esso l’intera nazione o la comunità religiosa e politica) e se ne rischia, al contempo, la mitizzazione e/o la banalizzazione con pratiche di “uso pubblico della storia”. In proposito Biscarat pone la questione della significatività e dell’efficacia dei “viaggi della memoria”, in particolare ad Auschwitz, in inverno e con studenti fra i 13 e i 15 anni.7 Occorre invece una ricostruzione storiografica che renda ragione dei fatti, onde evitare per le guerre e gli stermini di fine Novecento i silenzi e le negazioni imposti dopo la Seconda guerra mondiale, quando la verità dei vincitori è diventata la storia ufficiale.8 Giulia Levi nella sua intervista del 2011 a Mirsad Tokača, direttore del Centro di Ricerca e Documentazione di Sarajevo – finanziato da enti internazionali e sponsor privati – ne mette in luce la metodologia di ricerca scientifica. Il Centro opera per una ricostruzione storica capace, incrociando fonti d’archivio plurime e di diverso tipo con le testimonianze dei sopravvissuti, sia di informare con dati certi, pur se non definitivi, sia di restituire nome, volto e dignità a ogni vittima. Il lavoro del Centro ha portato alla pubblicazione nel 2013 del volume The Bosnian Book of Death, in cui viene attestato il numero di 97.207 vittime accertato a quella data. Numero che si colloca tra le cifre minime (25/30.000) e massime (300/400.000) utilizzate per una ricostruzione strumentale e di parte dei fatti.
Un altro aspetto interessante del volume dal punto di vista didattico è il rapporto fra Storia e storie personali, in particolare le storie di cui Elvira, Edith e Keiji sono stati protagonisti e vogliono essere testimoni.
Elvira Mujčić e Edith Bruck utilizzano i modi della finzione letteraria e identificano nel romanzo e nella lingua italiana (non materna e, quindi, in grado di offrire più significati e una nuova identità) la forma più adatta a veicolare la propria vicenda, perché è nella trasposizione letteraria e attraverso una lingua acquisita che la propria storia più si avvicina alla verità.
Invece Keiji Nakasawa usa la forza narrativa del manga per raccontare “la sua esperienza di bambino che rimane solo con la madre in un inferno di fuoco, mostri e morte.”9 Il contesto storico e socio-culturale del Giappone nell’estate del 1945 e nel primo dopoguerra è ben descritto nel contributo di Rocco Raspanti, Un sussidiario del dolore. La storia di Gen di Hiroshima.10 Il contributo è completato da alcune strisce del fumetto manga, con traduzione italiana in calce. Strisce, a mio avviso, molto efficaci per una presentazione del tema “Hiroshima e bomba atomica” anche con gli allievi della Scuola Primaria.
In tutti e tre i casi la volontà di narrare si intreccia con il desiderio di collocare la propria storia nella Storia ed è molto evidente l’intento di consegnare alla Storia, con la S maiuscola, dati che le siano utili.
[Notas]1 Cfr. M. Bacchi, Racconti di guerra, di fuga, di esilio.Note di lettura, pag. 187.
2 Cfr. Elvira Mujčić, Scrivere la memoria, p. 227.
3 Cfr. M. Bacchi, cit. pag. 187.
4 Cfr. N. Roveri, L’evento, il silenzio, il racconto.Note di lettura, pag. 254.
5 Cfr. M. Bacchi, cit. pag. 186.
6 Cfr. N. Roveri, pp. 473 – 485.
7 Cfr. P.J. Biscarat, Izieu. La memoria e il luogo, pp. 507-532.
8 Cfr. in N. Roveri, cit., pag. 480; Cfr. Giulia Levi, Intervista a Mirsad Tokača pag. 557 e seg.
9 Cfr. N. Roveri L’evento, il silenzio e il racconto. Note di lettura, pag. 258.
10 Cfr. pp. 287- 322.
Silvana Citterio
[IF]Children in English-Canadian Society: Reframing the Twentieth-Century Consensus – SUTHERLAND (CSS)
SUTHERLAND, Neil. Children in English-Canadian Society: Reframing the Twentieth-Century Consensus. Waterloo: Wilfred Laurier University Press, 2000. 355p. Resenha de: MANDZUK, David. Canadian Social Studies, v.36, n.1, 2002.
Neil Sutherland’s Children in English-Canadian Society, originally published in 1976 and now reissued, is a book that every teacher and parent in English-speaking Canada should read for a number of reasons. First, it traces how peoples’ attitudes towards children have changed dramatically over the last one hundred years. Second, it provides a very detailed account of reform efforts that have affected families, schools, and health and welfare agencies. Third, it reminds us of the people who had the most significant influence on these reform efforts, both at the international and the national levels.
In the early chapters, Sutherland describes how peoples’ attitudes towards children have changed over time. For instance, he describes how, in the 1870s, children were seen as sources of wealth for their families who often needed children to contribute to family economies; in short, children were valued for the work they could do, not for who they were as individuals. In Sutherland’s words, English Canadians of the time saw a child as a partially formed and potential adult [they] would have been baffled by the 20th century concerns for the emotional life of their own and of immigrant children (p.11). Soon, people become more concerned about the conditions of children working in factories, fearing that they were placed in unsafe and unhealthy conditions and did not have opportunities to become properly educated. Sutherland explains that, by the 1890s, parents came to see a child as a seed of divine life for them to nurture and tend (p.17). Therefore, in a matter of decades, children come to be valued for their own worth; moreover, parents become much more aware of the effect of the home environment on their children’s overall growth and development.
Another strength of Sutherland’s book is how he so meticulously details the types of reform efforts that shaped English-Canadians’ attitudes towards children. Some of these reform efforts such as reducing infant mortality, dealing with juvenile delinquency, and advocating for educational reform had a tremendous impact on how Canadian society was shaped for future generations. In particular, we learn about such significant changes as inoculating children at an earlier age, moving delinquent children from institutions to homes, and debating whether schooling was to become more child-centered or more practical in order to properly prepare children for the world of work.
A third and final strength of the book is that is familiarizes the reader with people who led many of these reform efforts and who ultimately had a significant impact on how English-Canadians treated their young. We learn of such international figures as Pestalozzi and his emphasis on activity-based, sensory learning that began to shape education in the elementary grades and Frederich Froebel who was among the first to recognize the importance of a child’s environment in his/her mental, moral, and physical development. We also learn of such Canadian figures as Adelaide Hoodless who argued that, in order to change social conditions, Canadian schools needed to become agents that would shape Canadian homes for future generations and James W. Robertson who reminded Canadians that the whole child goes to school body, mind, and spirit and the training of the hand, head, and heart should go on harmoniously (p. 181).
All in all, Children in English-Canadian Society is a tremendously comprehensive account of the forces and the people who influenced how Canadians viewed and treated their youngest citizens at a time in history when both the nation and the world were changing dramatically.
David Mandzuk – University of Manitoba.
[IF]