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I sepolti vivi / Gianni Rodari e Silvia Rocchi
Giane Rodari nell’ URSS, 1979. La Repubblica /
“Sotto terra va il minatore, /Dove è buio a tutte le ore “. Sono versi di Gianni Rodari inseriti in I luoghi dei mestieri, ( Torino, Einaudi, 1960), una filastrocca fatta per i bambini, per la scuola, per imparare e anche per divertire. Ma alle spalle di quei versi, come spesso gli accadeva, c’era una storia vera. Alcuni anni prima, nel 1952, nelle vesti di cronista del settimanale “Vie nuove”, egli aveva raccontato lo sciopero dei minatori di Cabernardi, provincia di Ancona, la più grande miniera di zolfo d’Europa. Lì 300 persone si erano asserragliate a 500 metri di profondità per difendere il loro lavoro. Con la diligenza del cronista il giovane Rodari indica i fatti, elenca i numeri, traccia un quadro della politica industriale del colosso Montecatini nel contesto della nuova Europa: produttività, modernizzazione…
Ma a un certo punto del racconto abbandona il filo della cronaca e segue la storia di Ernesto e Maria, due giovani sposi, separati dallo sciopero. Lui chiuso nelle viscere della terra, lei tenuta lontana dalle cure per il loro bambino e per il vecchio padre, ma anche dalla pressione delle forze dell’ordine che impedivano contatti diretti, rendendo pesante perfino la consegna del cibo. Rodari concentra l’attenzione su come quei giovani stessero vivendo non un’avventura, né una disgrazia, ma l’impegno per fare del proprio lavoro il mezzo con cui costruire Il loro futuro. Ma anche il loro disperato bisogno di vedersi, solo per uno sguardo, per una parola e immagina Ernesto rischiare la lunga, faticosa e pericolosa risalita per una ’uscita di sicurezza’ dalla miniera, non controllata dalla polizia perché ritenuta impraticabile. Un cunicolo da percorrere a tratti strisciando, fatto di gradini appena accennati e addirittura di arrampicate con funi, lungo un percorso che sembrava non finire mai e sempre con un rischio incombente. Scrive Rodari : “Cinque ore di strada per nulla fece Ernesto Donini, un giovane minatore di Pergola, domenica, ventidue giugno. Voleva rivedere la moglie, dopo ventiquattro giorni, almeno per un istante. Maria non c’era. Ernesto gridò a qualcuno che l’andasse a chiamare, forse stava attorno alla miniera. Ma alla fine dovette rassegnarsi e ridiscendere”. Per trovarsi all’appuntamento convenuto, la giovane moglie aveva lasciato il bambino di un anno al vecchio padre dalla salute malferma e aveva percorro 12 km a piedi. Ma, al momento opportuno, la polizia impedì loro di incontrarsi e anche solo di parlarsi.
Così Rodari racconta ciò che non era visibile della lotta operaia: l’umiliazione, con cui chi ha il potere cerca di sfibrare la resistenza di chi potere non ne ha.Hanno fatto bene Ciro Saltarelli e Silvia Rocchi a riprendere e valorizzare questo vecchio reportage, costruendo un libro ( Gianni Rodari, Sepolti vivi, da un’idea di Ciro Saltarelli e illustrazioni di Silvia Rocchi, con un pensiero di Gad Lerner, Torino, Einaudi, 2020) che grazie ai disegni di Silvia Rocchi permette di tornare a riflettere con più calma sul senso del lavoro di Rodari. Perché questo libro non parla del passato. L’umiliazione come strumento di oppressione, oggi più che mai, è all’ordine del giorno in tutte le latitudini della terra. Ma attuale è anche l’impegno per combatterla. E su questo versante l’opera di Rodari è preziosa. Per comprendere l’importanza di quello che era pur sempre uno dei tantissimi episodi di conflittualità economico-sociale dei cruciali anni 50, occorre ricordare che erano passati solo pochi anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana con al primo articolo il suo fondamento nel lavoro.Se per difendere il salario era necessario ricorrere a forme di lotta che mettevano a rischio la salute e la vita; se la polizia interveniva rendendo più difficile la resistenza, parteggiando così per una delle parti in conflitto, allora cos’era cambiato rispetto al fascismo? Quale discontinuità aveva introdotto l’assetto repubblicano? Qual era il senso vero della Repubblica fondata sul lavoro?Era chiaro che le recenti conquiste politiche non erano la fine, ma solo l’inizio di un nuovo cammino. Di un lungo cammino, per il quale necessitavano forze nuove e nuovi strumenti. Era questo il fronte su cui Rodari impegnò tutta la sua forza creativa. Lo disse espressamente presentando La grammatica della fantasia (1972): insegnare “tutte le parole a tutti, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.
Il senso politico del lavoro narrativo dedicato ai bambini di Rodari non sta nel denunciare ingiustizie dolore e umiliazione di chi lavora, né di dare voce a chi non l’ha mai avuta. Molto più radicalmente egli elabora strumenti di lotta, mezzi che servano a chi li usa per difendersi e contrastare chi fa della parola e della cultura uno strumento di dominio. E come campo di battaglia scelse, lui maestro elementare, la scuola e i bambini che la vivevano. A loro ha dedicato la vita, scrivendo cose la cui bellezza da sola testimonia amore e dedizione. Così come, in questo testo, le tavole di Silvia Rocchi.
Franco Martina
Link per acquisto del libro: https://www.edizioniel.com/prodotto/i-sepolti-vivi-9788866566243/
RODARI, Gianni. I sepolti vivi. Da un’idea di Ciro Saltarelli. Illustrazioni di Silvia Rocchi. Resenha de: MARTINA, Franco. L’attualità di Gianni Rodari: “Insegnare le parole a tutti, perché nessuno sia schiavo”. Clio’92, 13 dic. 2020. Acessar publicação original
Una politica senza religione – De LUNA (CN)
De LUNA, Giovanni. Una politica senza religione. Torino: Einaudi, 2013, p. 137. p. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
“Per risvegliarci come nazione, dobbiamo vergognarci dello stato presente. Rinnovellar tutto, autocriticarci. Ammemorare le nostre glorie passate è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti, è conforto all’ignavia e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione”
Con queste parole di Giacomo Leopardi, G. De Luna conclude il suo saggio sulla mancanza di una “religione civile” nella nazione italiana e sui tentativi (sporadici) di costruirne una nel corso dei centocinquant’anni di storia unitaria.
In premessa, l’autore esplicita cosa intende per religione civile: “uno spazio in cui gli interessi che tengono insieme un paese si trasformano in diritti, in doveri civici, in valori consapevolmente accettati, nel nome dei quali i cittadini italiani sono sollecitati ad abbandonare le nicchie individualistiche o comunitarie, quei progetti esistenziali racchiusi nel terribile slogan ‘tengo famiglia’ e ‘mi faccio i fatti miei’, condividendo un universo di simboli in grado di legare il singolo e la società in un rapporto di dipendenza e di identificazione”.
Si tratta quindi di uno spazio in continua costruzione, attraverso l’invenzione di tradizioni e il loro consolidamento mediante simboli riconosciuti che creano una realtà pubblica di appartenenza e di cittadinanza. E questo chiama in causa direttamente le Istituzioni e la Politica.
L’autore svolge il rotolo della storia unitaria d’Italia incontrando prima i fallimenti del “fare gli italiani” dell’Italia liberale di fronte al trasformismo della politica, poi quelli del “ciascuno al suo posto” della gerarchia fascista che non riuscì a imporre un vero totalitarismo perché non affrancata da una “marcata subalternità nei confronti di quelli che erano i valori proposti dalle gerarchie cattoliche” ( p. 29).
Il momento nel quale gli italiani furono sul punto più vicino a costruire una loro religione civile fu senza dubbio quello della realizzazione della Costituzione nata dalla Resistenza. Largo spazio G. De Luna dedica all’impegno del Partito d’Azione, individuando nei loro esponenti gli autentici ispiratori di un pensiero laico in grado di farsi civilmente religioso. Piero Calamandrei “cercava di sottrarre il paradigma di fondazione della nostra Repubblica all’ipoteca (che gli appariva effimera) dei partiti antifascisti per riconsegnarla direttamente al vissuto e all’esperienza collettiva di tutti gli italiani. Di qui la sua insistenza sul ‘carattere religioso’ della lotta partigiana…
A fondamento di un nuovo spazio pubblico in cui ci si potesse riconoscere come cittadini di uno stesso Stato nel nome di valore condivisi, Calamandrei chiamava così ‘il popolo dei morti’ (di quei morti che noi conosciamo uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e sulle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti) presentato non nella dimensione ‘vittimaria’ dell’innocenza e dell’inconsapevolezza, ma come fonte attiva di una nuova legittimazione dello Stato” (pp. 40-41).
Il tentativo naufragò sugli scogli del clericofascismo democristiano, favorito dall’art. 7 della Costituzione che integrandovi i Patti Lateranensi creò un “pericoloso innesto confessionale” nella costruzione della Repubblica.
Nel luglio 1960 l’Italia del boom economico scoprì l’antifascismo. Manifestazioni e scontri cruenti con la polizia impedirono il congresso del partito neofascista MSI a Genova, medaglia d’oro della Resistenza, e causarono le dimissioni del governo Tambroni, un monocolore democristiano con l’appoggio esterno del MSI. Si aprì una stagione di importanti riforme: la scuola media unica, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, lo Statuto dei Lavoratori, la chiusura dei manicomi. Ciò nonostante, sostiene De Luna, “il rilancio della Costituzione nel suo significato di testo fondamentale della nostra religione civile fu una grande occasione mancata” (p. 60) perché la stagione si esaurì presto e gli anni Ottanta si aprirono con la famosa intervista a E. Scalfari, nella quale Enrico Berlinguer poneva alla politica tutta la “questione morale”. I partiti ormai non provvedevano più a formare la volontà popolare, non svolgevano più alcuna funzione pedagogica, di dibattito tra le masse. Essi erano diventati pure macchine per l’occupazione del potere.
L’Italia si stava avviando verso una condizione nella quale l’unica “religione” poteva essere quella cattolica vaticana, affiancata, seppur tra mille problemi, da quelle dei nuovi immigrati; non vi sarà più spazio per alcuna religione civile.
O meglio.
L’unica vera, trionfante, religione sarà quella officiata dal “mercato” a cui la politica si sottometterà. Berlusconi sarà il suo eroe. Tutto sarà immerso nella religione dei consumi. E gli italiani, memori di secoli di povertà, si immergeranno in un benessere fondato su consumi indotti massicciamente dai nuovi media, soprattutto dalla televisione invadente. Tutto, ma proprio tutto, sarà ordinato dai totem dell’audience, dello share, della pubblicità, della visibilità, del culto dell’immagine. A questo proposito De Luna ricorda opportunamente come neanche il Vaticano si sottrarrà alle leggi del mercato: basti pensare alle figure degli ultimi tre pontefici, al carisma di Giovanni Paolo II di cui fu perfino spettacolarizzata la lunga agonia, al coup de theatre delle dimissioni si Benedetto XVI, alla capacità meravigliosa di tenere la scena di papa Francesco.
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Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città – ALLEN (CN)
ALLEN, Williams S. Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città. Torino: Einaudi, 2005. (Ristampa a cura di L. Gallino). Resenha de: ORI, Giada. Clio’92, 7 ago. 2019.
ll titolo del libro di Allen di primo acchito ci comunica gli elementi caratterizzanti del libro:
- salta subito all’occhio che Allen vuole spiegarci il processo attraverso il quale i tedeschi di una piccola città diventarono seguaci del nazismo;
- il periodo storico è ben delineato, si tratta del breve sessennio dal 1930 al 1935;
- il territorio di cui parla il libro è molto delimitato, si tratta infatti di una piccola città da lui chiamata Thalburg (in realtà Nordheim nell’Hannover)
Allen tenta col suo libro di metterci in condizione di capire come sia stato possibile che un partito quasi inesistente, in poco tempo sia divenuto il primo e successivamente l’unico di tutto il territorio. Prende in considerazione una piccola città come studio di caso per rendere più comprensibile il mutamento avvenuto in quegli anni in tutta la Germania, dall’arrivo dei nazisti sino alla loro salita al potere.
Il libro di Allen presenta sia una introduzione di Luciano Gallino, sia una prefazione dell’autore. Nella prefazione l’autore ci spiega che ha preso in considerazione una città piccola della Germania per il semplice motivo che mai nessuno si era occupato di una situazione locale per parlare del nazismo, precisando che le città piccole hanno come caratteristica la scarsa riservatezza e molti pettegolezzi.
Afferma che la città di Thalburg aveva una buona dose di documenti da poter consultare e ci mette a parte che molti cittadini si lasciarono intervistare con la promessa dell’anonimato anche della città stessa (ecco spiegato, quindi, il motivo del perché la città di Thalburg è inesistente sulle cartine).
Dunque, una molteplicità di fonti — tra cui quelle di memoria — è messa a frutto dallo storico statunitense.
L’introduzione invece ci riassume in poche pagine il ruolo della NSDAP (Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi) e dell’SPD (Partito Socialisti di Germania) nella città di Thalburg: di come NSDAP si sia fatto strada tra i cittadini privando l’SPD di moltissimi voti lavorando sulla preoccupazione che i cittadini avevano del comunismo, di come il partito nazista abbia manifestato contro il trattato di Versailles colpendo nel vivo i cittadini che non si erano ancora ripresi da quella umiliazione, come l’SPD non abbia fatto nulla per cercare di fermare l’avanzata del partito hitleriano nella città.
L’autore, a questo proposito, alla fine del libro, analizza i vari dati raccolti nelle sue ricerche organizzandoli in tabelle statistiche e in grafici, rendendo possibile, attraverso la loro lettura, la comprensione immediata delle situazioni e dei processi, anche senza aver prima letto l’intero libro.
Grafici e tabelle esplicano perfettamente i dati riguardanti la disoccupazione, le elezioni e le frequenze delle riunioni dei vari partiti a Thalburg negli anni che il libro prende in considerazione.
Allen non propone una periodizzazione ragionata dei sei anni analizzati. Ma all’interno del suo libro, la si può trovare schematizzata nell’indice. Dapprima suddivide i sei anni da lui presi in considerazione in due parti: dal gennaio 1930 al gennaio 1933, poi dal gennaio 1933 a quello del 1935. All’interno delle due parti i capitoli creano un’ulteriore periodizzazione suddivisa in stagioni.
Allen articola il libro in due parti: la morte della democrazia, dal gennaio 1930 al gennaio 1933, e introduzione alla dittatura, dal gennaio 1933 al gennaio 1935.
La prima parte inizia col darci alcune informazioni sulla città: dov’era collocata, più o meno, sulla cartina, com’era “fisicamente”, quali erano le sue condizioni durante la depressione, quale il grado di disoccupazione, quali i lavori svolti dagli abitanti, quale il ruolo delle industrie. Il terzo capitolo “entrano i nazisti”, ci spiega come nel giro di pochissimi mesi, il partito NSDAP sia riuscito a diffondersi nella città in cui il partito SPD era già ben attecchito.
Da questo terzo capitolo, sino al nono, Allen ci mostra come lentamente il partito di Hitler si sia impadronito della città, sfruttando la disoccupazione dilagante, manifestando contro il trattato di Versailles, utilizzando i giornali per la loro propaganda, e facendo presente come l’SPD, iniziò a perdere voti, smettendo di lottare contro un partito antisemita, violento e rivoluzionario.
La seconda parte del libro inizia con le ultime elezioni in Germania nel 1933, anno in cui Hitler divenne cancelliere e l’NSDAP iniziò a lavorare per istaurare una dittatura.
La città da quel momento fu totalmente soggiogata al partito, con ormai pochissime persone, totalmente emarginate, che militavano ancora per l’SPD.
Il capitolo “il regime del terrore” è incentrato sul tentativo dei nazisti di evitare qualsiasi minima reazione da parte di coloro che non erano militanti di Hitler, facendo boicottare i loro negozi, proibendo le armi al privato, mettendo fuori legge il partito socialista e sciogliendo i sindacati. In questo capitolo si inizia a parlare del campo di concentramento di Dachau, in cui venivano mandati gli avversari politici, e di cui gli abitanti di Thalburg erano a conoscenza. Le accuse per cui si poteva venire arrestati erano assai labili, ma come veniva scritto anche sui giornali, quando i nazisti mettevano gli occhi su qualcuno, in un modo o in un altro, lo prendevano.
Lentamente la società di Thalburg, fino a quel momento ben organizzata, iniziò a disgregarsi. I circoli cittadini iniziarono ad essere controllati dai nazisti che non lasciarono più nulla di intentato per evitare che ideologie diverse dalle loro attecchissero all’interno della città.
Nel quindicesimo capitolo “gli aspetti positivi” Allen, per darci una visione complessiva del periodo, ci mostra l’altra faccia della medaglia, ovvero la positività del nazismo nella città. I nazisti, infatti, trovarono la soluzione alle difficoltà economiche che imperversavano a causa della depressione. I soldi nelle casse della città, e anche quelli stanziati da Hitler, permisero di far diminuire la disoccupazione già dal luglio 1933. Nel 1935 tutti i segni della depressione erano scomparsi.
Il capitolo “disgregazione della società”, tratta in primis della questione ebraica.
Allen ci spiega che a Thalburg gli ebrei erano una minoranza e che da una generazione all’altra il numero cresceva minimamente. Essi erano ben integrati nella società: difatti, gli ebrei non abitavano in un quartiere ebraico, svolgevano piccole attività commerciali e non risentivano molto dell’antisemitismo ereditato dal medioevo, poiché era poco sviluppato nella città.
Ma con la salita al potere dei nazisti la situazione cambiò: le quasi inesistenti frasi antisemite comparse nei discorsi precedenti al 1933 divennero realtà il 29 marzo di quell’anno. L’antisemitismo dei nazisti si manifestò non solo nei discorsi, ma anche con i fatti: nell’aprile di quell’anno infatti il boicottaggio degli ebrei diede il via al processo che solo dieci anni dopo terminò con le camere a gas. Questo primo attacco diede come risultato il disgregarsi del rapporto con i non ebrei dal punto di vista sociale.
Ma era, come si sa, solo il primo passo verso qualcosa di molto più ampio. Inizialmente si voleva solo evitare che i rapporti umani ostacolassero la dittatura e le idee che erano alla base di essa. Thalburg e gli ebrei non si accorsero in tempo del problema che avrebbe creato l’ideologia antisemita all’interno della città, anzi, gli ebrei li ritenevano, inizialmente, innocui.
Ma il boicottaggio fu una catastrofe per la piccola cittadina: tutti iniziarono a capire che gli ebrei erano dei reietti nel regime nazista, che erano da evitare per salvaguardare la propria incolumità, e lentamente furono messi tutti ai margini. Molti ebrei appartenevano a dei club, soprattutto i più facoltosi, come il banchiere Braun, fiducioso e tutto intenzionato a non andarsene dalla sua città, a nessun prezzo, allontanandosi dai club solo per evitare questioni spiacevoli, ma non perché credeva che quella situazione non sarebbe durata a lungo. Era un uomo fiducioso. Molto meno lo fu Gregor Rosenthal, che all’opposto del suo compaesano, si chiuse in se stesso e ruppe tutti i contatti sociali. Venne allontanato da tutte le congregazioni e il suo modo di fare inquietò così tanto i thalburghesi che crebbe in loro l’idea che fosse poco conveniente farsi vedere anche solo parlare con un ebreo. Non fu sicuramente l’unico con un tale comportamento, anzi, era molto più facile che gli ebrei si comportassero in modo schivo e quasi da invisibili che non da uomini di mondo come il banchiere. Non solo le relazioni sociali degli ebrei si rovinarono in questo periodo: in poco tempo, attraverso il controllo dei club, con la creazione di nuovi, con la fusione o lo scioglimento di altri, a causa delle tensioni e delle paure dovute alla sfiducia che tutti avevano verso il prossimo, sentimento che cresceva giorno dopo giorno, le relazioni divennero minime. Non ci si fidava più nemmeno dei proprio amici intimi, in poco tempo nessuno desiderava più riunirsi per scambiarsi opinioni o semplicemente chiacchierare, tutti temevano di dire qualcosa di sbagliato e di finire nei guai.
È molto interessante il modo con cui Allen costruisce la conoscenza di come ci si trasforma in sostenitori di un partito antidemocratico e razzista.
Egli presenta le situazioni e svolge i processi del loro mutamento perciò nel libro sono alternati blocchi testuali descrittici con quelli narrativi.
I primi due capitoli: l’ambiente e anatomia della città hanno lo scopo di farci conoscere lo stato di cose della cittadina di Thalburg nel 1930. In essi troviamo la descrizione fisica della città, del territorio regionale, della situazione demografica, del clima religioso, delle classi sociali e dei loro club.
Il capitolo sugli ebrei leggiamo prima la descrizione di come essi vivevano prima dell’avvento dei nazisti e negli anni successivi alla loro vittoria elettorale, poi i narrativi ci raccontano i giorni del boicottaggio, come certi facoltosi ebrei reagirono alle leggi antisemite di fronte agli amici e alla società e di come i cittadini si comportarono verso di loro: amichevolmente alcuni, andandoli a cercare nei loro negozi e per la strada proprio per parlarci, i socialisti in testa, oppure approfittandosi di loro, facendo spese folli nei loro negozi senza mai pagare un soldo.
Allen conclude il suo libro facendo una carrellata dei fatti successivi al 1935: di come i nazisti iniziarono a manifestare le loro vere intenzioni sulle questioni religiose, di come già nel 1937 il ritmo dell’espansione economica rallentò, di come nessuno si oppose ai nazisti nel 1938 nella “notte dei cristalli”.
Durante il 1944 i bombardieri americani colpirono in parte la città, ma in tutti i casi i cambiamenti furono rilevanti: molti profughi si trasferirono in quella cittadina per fuggire agli orrori della guerra, la popolazione aumentò esponenzialmente e all’arrivo degli alleati si sottomisero senza combattere. Nel 1950 la popolazione dell’inizio degli anni trenta era raddoppiata.
[IF]La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente – BELIVACQUA (CN)
BEVILACQUA, Piero. La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente. Roma-Bari: Editori Laterza, 2009. 209p. Resenha de BRIONI, Germana. Clio’92. 7 ago. 2019.
Anche in questo libro, La Terra è finita, Bevilacqua coniuga il rigore della ricerca con la disposizione intellettuale alla domanda di senso, propria di chi appartiene a una cultura civile che cerca nuove e vecchie responsabilità per evitare la ripetizione degli errori in futuro. Il suo itinerario storico è sintetizzato dalle sue stesse parole nell’introduzione: “Come siamo arrivati fin qui?” ed egli intende svolgerlo procedendo alla ricerca e alla ricostruzione di quei fenomeni che, nel passato remoto e più recente, sono stati e sono all’origine delle gravi problematiche ambientali di oggi, nell’intento di individuare le cause e i responsabili dell’attuale situazione di alterazione della natura. L’autore è consapevole che già molti studiosi, in campi disciplinari diversi, hanno fornito ipotesi interpretative alla domanda che egli ripropone: interpretazioni di tipo culturale (tra cui il concetto di natura per il cristianesimo) e di tipo economico, come l’approccio liberistico, o quello capitalistico. Di tali interpretazioni egli formula argomentate critiche, introducendo l’accenno a una posizione ambientalista che svilupperà nel prosieguo del libro. La sua dichiarazione di intenti è una ricostruzione della storia dell’ambiente rivolta al passato e nel contempo al futuro, pertanto cerca di coniugare le due diverse esigenze, e ritiene necessario considerare da un lato i danni, le distruzioni, le alterazioni che negli ultimi due secoli hanno cambiato la faccia della Terra; dall’altro le iniziative a livello politico e legislativo, congiunte ai mutamenti di sensibilità e di cultura nei riguardi dell’ambiente, che hanno contenuto i danni e cercano di impedire il peggioramento della situazione ambientale, a livello italiano, europeo e mondiale.
Bevilacqua dichiara apertamente che lo storico non deve rinunciare a giudicare, ma deve cercare la risposta al problema posto all’inizio, tenendo conto dei processi, non dei singoli fenomeni o protagonisti. Avvia perciò una accuratissima analisi di un complesso di processi storici, responsabili della degradazione dell’habitat, in primis il processo storico che si è svolto soprattutto in età contemporanea. (pag. 27)
L’oggetto primo di analisi è un tema di particolare interesse per Bevilacqua: il lungo processo che dall’agricoltura preindustriale ha portato all’agricoltura contemporanea. Mentre denomina l’agricoltura una delle attività più pericolose per la salute umana (p. 77), lo storico individua le ombre della Modernità, principalmente nello sfruttamento, da sempre presente, ma in età contemporanea divenuto abnorme, in maniera finora impensabile, di territori europei e extraeuropei, di risorse energetiche non rinnovabili; infine, ma soprattutto, nello sfruttamento delle risorse umane, cioè di quel frammento di natura che è l’uomo, dominato dalla tecnica. Processi di alterazione e contaminazione anche in passato riscontrabili a livello locale, ma che nel XX secolo, a seguito del processo di industrializzazione, a cui attribuisce la responsabilità maggiore, diventano universali. La trattazione dello storico si allarga a una visione planetaria; analizza e offre innumerevoli significativi esempi dell’accelerazione su scala globale di processi che minacciano la sopravvivenza stessa del genere umano. Egli mette continuamente a confronto la situazione della natura e dell’ambiente antropico nell’età preindustriale con la situazione dell’età industriale, in un arco temporale di due secoli. Ne coglie i più significativi fattori destabilizzanti: per il Novecento, fornendo precisi dati quantitativi e geografici risalenti al 2008, pone l’accento sull’accelerazione demografica, sull’urbanesimo vertiginoso e la formazione delle megalopoli, sulla crescita del consumo di beni alimentari. Individuando la relazione tra questi fenomeni tuttora in crescita e i trasferimenti di popolazione, introduce il concetto di “profughi ambientali”, ai nostri tempi di assoluta attualità. Profughi in fuga da fenomeni naturali antichi e nuovi, in massima parte imputabili all’uso sconsiderato del territorio. Tra i molti esempi citati di tale uso/abuso, l’erosione della Terra; il diboscamento; la presenza di rifiuti tossici; la radioattività, alterazione invisibile quanto pericolosa; la contaminazione delle campagne; la desertificazione e la perdita di terra fertile. In merito a quest’ultima, il dato totale risulta terribilmente allarmante: oggi (2008) l’area degradata dall’azione dell’uomo è calcolata in un quarto delle terre coltivate.
Le varie iniziative a scala planetaria per il contenimento e la riduzione dei danni provocati dai fenomeni ricordati, spesso non vengono rispettate: il Protocollo di Kioto del 2005, uno dei primi esempi di accordo internazionale, non viene rispettato proprio dalle potenze industriali come gli Stati Uniti, o in avanzato grado di industrializzazione, ugualmente responsabili dei danni maggiori. Lo storico compie un’analisi approfondita della situazione agricola in età contemporanea: se già a inizio Novecento l’agricoltura industrializzata presenta degli evidenti vantaggi, assicurando un enorme incremento produttivo, per lo meno nei paesi dell’Occidente, presenta anche molti limiti: infatti la trasformazione nell’uso di concimi, di risorse energetiche sprecate, di modalità di allevamento degli animali del tutto disgiunto dalla coltura del terreno provoca infiniti danni al territorio e al paesaggio.
Bevilacqua vede nell’agricoltura biologica un’alternativa indispensabile per rimediare, per mantenere la biodiversità, nella convinzione che l’agricoltura biologica rappresenta il corrispettivo agricolo di una fase superiore del processo di civilizzazione (pag. 104). Informazioni sulle iniziative legislative e su accordi a livello planetario arricchiscono il saggio: sono azioni non di facile attuazione, ma che impegnano i governi di tutto il mondo a incrementare l’uso di risorse rinnovabili, a incrementare la biodiversità, lo sfruttamento sostenibile delle acque; a limitare i prodotti ad alta tecnologia, come gli OGM, di cui lo storico vede l’inutilità, e anzi evidenzia i danni provocati dal loro uso distorto; a riciclare e a limitare gli scarti e i rifiuti inquinanti industriali, con sistemi che già oggi nuove tecnologie, intelligentemente applicate, consentono.
Dopo aver identificato i caratteri specifici dell’ambiente naturale italiano e le trasformazioni in esso avvenute, denunciando gli errati interventi del passato e del presente su paludi, laghi, habitat selvaggi, e la disordinata proliferazione urbana e industriale, come cause della degradazione dell’ambiente e del paesaggio italiano, Bevilacqua sottolinea come, da parte delle classi dirigenti, ci sia ancora scarsa percezione di quella casa comune che è l’ambiente (pag. 191) e che esso ha meno difensori che altrove. Nonostante l’amarezza suscitata dalle considerazioni precedenti, con sguardo sempre rivolto al futuro, egli sostiene un nuovo ambientalismo, come reazione di portata globale agli squilibri prodotti dall’insipienza delle azioni umane, compiute solo nella logica di puro sfruttamento economico.
Come si legge nell’introduzione a una antologia di saggi a cura di Leandra D’Antone e Marta Petrusewicz e a lui dedicati (La storia, le trasformazioni. Piero Bevilacqua e la critica del presente, Donzelli, 2015), “la storia per Bevilacqua […] è sapere che si rigenera costantemente; è coscienza critica del presente, consapevolezza del passato, immaginazione del futuro; è fertile lezione trasmessa ininterrottamente dalla generazione più anziana a quella più giovane”.
Germana Brioni
[IF]Novecento.org – (CN)
Novecento.org. Resenha de: COCILOVO, Cristina. La nuova edizione della rivista dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. Clio’92, 7 ago. 2019.
Torna in veste rinnovata Novecento.org, la rivista on line di didattica della Storia dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e degli altri 68 Istituti italiani ad esso associati. È un bentornato a una rivista che ha avuto un illustre passato per il livello dei contributi e la partecipazione degli utenti, per lo più insegnanti e ricercatori, interessati ai temi della didattica della Storia del 900. Appunto per questo, nella pagina di profilo della rivista , non manca un ampio ricordo di Antonino Criscione che aveva progettato e curato la precedente versione, chiusa ormai da un decennio.
L’intenzione degli editori/autori è di continuare la tradizione, innovandola e adeguandola ai tempi. La mission della versione del 1999 è stata infatti ripresa in pieno: “L’ ambizione di questa rivista on line è quella di raccogliere, condividere e redistribuire saperi, conoscenze, risorse utili per la ricerca didattica e l’innovazione su questo terreno utilizzando a questo fine le potenzialità di Internet e stimolando la nascita e lo sviluppo della comunità virtuale degli insegnanti-ricercatori di storia.” Ma l’aggiunta di un’indicazione significativa può permettere ora di ampliare lo sguardo dei docenti, grazie alla rete di relazioni scientifiche degli Istituti: “La rivista è stata quindi pensata e progettata come uno strumento affidabile per i docenti italiani che vogliano aggiornarsi dal punto di vista storico e didattico, … un punto di riferimento[… ] su quanto avviene in Europa in questo specifico ambito di insegnamento.“
Sin dal numero 0 del giugno del 2013 la rivista si è confermata come un formidabile supporto per la didattica della Storia del ‘900, sia per le riflessioni metodologiche che per i materiali offerti e immediatamente fruibili. Ben presto ci auguriamo che diventi uno strumento indispensabile per i docenti che desiderano aggiornarsi.
Si assiste infatti da molti anni all’assenza di un serio processo di formazione pubblica degli insegnanti. Essa viene gestita, fra mille ostacoli, da associazioni disciplinari o appunto Istituti di ricerca come l’ISMLI, consapevoli di supplire a un compito fondamentale per l’educazione dei futuri cittadini.
Diretta da Antonio Brusa, colonna portante della didattica della Storia, assistito a sua volta da una redazione che raccoglie i nomi di maggior esperienza dell’ISMLI e del Landis, la rivista ha avuto il suo battesimo in un riuscito convegno, tenutosi a Piacenza nel marzo 2013, sul tema “La Storia nell’era digitale”. Introdotto da una stimolante relazione di Antonio Brusa, il convegno ha visto succedersi in due mattinate docenti e ricercatori esperti nell’utilizzo delle tecnologie digitali applicate alla storia. Nel corso del pomeriggio, tre laboratori didattici rivolti ai docenti della primaria (a cura di Paola Limone), secondaria di primo e di secondo grado (gestiti da Cristina Cocilovo e Patrizia Vajola), hanno messo a fuoco le modalità innovative di una didattica centrata sulla costruzione di conoscenze e di competenze storiche attraverso l’uso del digitale.
Gli atti del convegno sono pubblicati nella sezione “Dossier”, con la riproposizione in modo pressoché integrale di molti interventi (Brusa, Cigognetti, Ferri, Noiret, Biondi, Di Tonto, Mattozzi, Facci, Formenti), seguiti dai materiali presentati nei laboratori.
Gli atti del convegno sono pubblicati nella sezione Dossier, con la riproposizione pressoché integrale degli interventi (Antonio Brusa, Luisa Cigognetti, Paolo Ferri, Serge Noiret, Giovanni Biondi, Ivo Mattozzi, Giuseppe Di Tonto, Carlo Formenti, Michele Facci), seguiti dai materiali presentati nei laboratori.
Sarebbe opportuno guardare la sequenza degli interventi videoregistrati, sempre accompagnati da un fedele testo scritto: si affrontano temi chiave dell’uso di Internet da parte di allievi e docenti che affrontano la Storia, senza dimenticare che (citando Brusa) ” La disciplina storia è uno statuto di regolazione dei saperi, cioè un insieme di regole e operazioni da compiere per la specificità della formazione storica: la messa in prospettiva, la contestualizzazione, i lessici e le grammatiche fondamentali del sapere storico, la costruzione di grandi codici di senso.”
Il dibattito sull’uso della rete, che può essere spaesante, rischioso, e insieme un’inesauribile risorsa, ha accompagnato tutto il percorso del convegno nella consapevolezza che l’epistemologia, la grammatica e la sintassi della Storia sono da anteporre alle tecnologie, sebbene possano trarne reciproci vantaggi se messe in sinergia.
I materiali pubblicati in Laboratori – Storia e nuove tecnologie, offrono spunti per il docente che vuole affrontare la Storia secondo un approccio costruttivista, per attivare gli studenti secondo percorsi coerenti con la propria modalità cognitiva, approfittando dei vantaggi offerti dalla rete e dalle nuove tecnologie (ma fino a che punto sono nuove? Se lo domanda maliziosamente Facci).
Infine sono state attivate le altre sezioni nel Menù del sito. In Pensare la didattica viene recensito l’avvincente romanzo In territorio nemico, sulla maturazione di due giovani attraverso l’avventura partigiana. Scritto secondo il metodo di Scrittura Industriale Collettiva (SIC), offre spunti operativi alle classi che vogliono cimentarsi nella produzione di un testo storico. In Didattica in classe (un chiaro riferimento all’intenzione espressa nell’introduzione di pubblicare riflessioni teoriche e percorsi di didattica praticata) è presentato “Lettere dall’America. Una storia d’amore e di emigrazione, affinità elettive“: un epistolario di M.G. Salonna, che, oltre ad essere una lettura stimolante in sé, si accompagna ad altri materiali che lo collocano nel contesto storico del suo tempo. Il tutto infine viene impiegato in un il bellissimo laboratorio didattico che consente agli studenti di rivivere la grande Storia attraverso la storia di gente “apparentemente” comune. In Uso pubblico della storia troviamo ricche riflessioni per la valorizzazione del calendario civile, che può diventare uno strumento per il curricolo di Storia, a cominciare dalle giornate della memoria e del ricordo.
Una citazione a parte merita l’ultima sezione del Menù, Ipermuseo, dove sono pubblicate sotto forma di presentazione o slide share mostre realizzate dagli Istituti della Resistenza in anni recenti su temi caldi del ‘900: avvento del fascismo, resistenza, deportazione, la difficile convivenza sul confine orientale nell’alto Adriatico, la realizzazione dell’esperienza pedagogica innovativa nel Convitto Rinascita di Venezia. L’uso della rete rende queste mostre fruibili a distanza di tempo, ancora spunto di riflessioni e di possibili approfondimenti nelle classi.
La nuova versione del sito si presenta con una veste grafica molto lineare, ben leggibile e invogliante. La navigazione è semplice e immediata. I materiali facilmente scaricabili. Comodo poi è l’indice di ogni numero della rivista, che permette di consultarla in modo sequenziale come se fosse una pubblicazione cartacea (vedi alla voce Indici del Menù).
Un particolare prezioso: la vecchia rivista resta in consultazione ed è velocemente raggiungibile dalla pagina home d’apertura del sito. Di fatto è ancora un pozzo di informazioni. Inoltre la distanza temporale fra la vecchia e la nuova versione offre poi il vantaggio di cogliere la dimensione storico-cronologica dello sviluppo della ricerca didattica.
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Marghera 1971: l’inizio di una fine. Un anno di lotta alla Sava – PUPPINI (CN)
PUPPINI, Chiara. Marghera 1971: l’inizio di una fine. Un anno di lotta alla Sava. Portogruaro (VE): Nuova dimensione editore, 2015. 191p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
All’inizio del Novecento, cent’anni fa, il porto di Venezia era il secondo in Italia dopo quello di Genova, ma con spazi ormai insufficienti agli importanti traffici di petrolio e carbone necessari all’industria italiana da poco decollata. Di qui l’esigenza di creare un nuovo porto; si scelse l’area di Marghera. Si iniziò a scavare i canali per le navi e a costruire i collegamenti ferroviari con la vicina stazione di Mestre. Dieci anni dopo quell’area era diventata geograficamente strategica: un notevole porto industriale, con una buona rete ferroviaria e stradale alle sue spalle. Tra i protagonisti della realizzazione ci fu il conte Volpi, capitano d’industria e futuro ministro di Mussolini che nel 1926 riunì l’intero territorio nell’amministrazione comunale di Venezia. Era ormai nato quello che nel secondo dopoguerra diventerà il più grande polo industriale italiano, arrivando ad occupare, nel 1965, fino a 35 000 addetti, senza contare l’indotto. Un polo chimico integrato, ma non solo: cantieri navali, vetrerie, fabbriche per fertilizzanti e materie plastiche, l’alluminio.
Stabilimenti enormi. Tanti.
Oggi, cinquant’anni dopo, “Marghera è un enorme spazio che pare senza confini, abbandonato (in apparenza), punteggiato da impianti lontani e spenti.” (Jacopo Giliberto, Porto Marghera volta pagina. E prova a ripartire con l’industria ‘verde’, Il Sole 24ore, 8 gennaio 2015).
Qual è stato il processo che ha così trasformato questo territorio in solo mezzo secolo? Com’è successo?
Qualsiasi risposta rischia di essere semplificatoria. Chiara Puppini consegna con il suo libro l’inizio di questo processo. O meglio, uno degli inizi. E’ la crisi della Sava, un’azienda che nel 1966 produce il 36% dell’alluminio nazionale e possiede: 2 miniere di bauxite in Abruzzo e Puglia, 1 fabbrica di allumina, 2 fabbriche di alluminio, 1 centrale termoelettrica, 5 centrali idroelettriche, 3 navi da trasporto, 1 fabbrica per prodotti chimici, 50% di una fabbrica che produce polvere e pasta di alluminio, 1 istituto di ricerca.
Ebbene, nel 1971 “i dirigenti della Sava di Porto Marghera [comunicano alle organizzazioni sindacali] la decisione del Consiglio di Amministrazione della Alusuisse [proprietaria della Sava] di chiudere il 15 ottobre la fabbrica Allumina e di licenziare circa 800 lavoratori tra operai e impiegati” (p. 69) che, sommati ai 200 posti precedentemente in cassa integrazione, fanno 1000 licenziamenti!
Il libro racconta la lotta sindacale dei lavoratori per salvare l’azienda e con essa il loro posto di lavoro. La narrazione presenta gli avvenimenti attraverso le cronache giornalistiche dell’epoca, i volantini sindacali e i comunicati aziendali, le fotografie delle manifestazioni sindacali e quelle delle trattative tra sindacati e azienda, le interviste ai dirigenti aziendali e sindacali di allora. In quelle pagine si respira l’aria dell’epoca: la solidarietà operaia, la vicinanza effettiva delle istituzioni e delle forze politiche con chi lavora e produce ricchezza. Si sente – siamo agli inizi degli anni Settanta – una cultura che mette al centro il lavoro. Ciò nonostante, il 26 gennaio 1972 l’Allumina chiude. Nel 1973 l’area Sava di Marghera viene suddivisa con altre società e negli anni successivi l’intera produzione dell’alluminio a Marghera viene dismessa. Il 12 settembre 1991 ci sarà l’ultima colata di metallo.
Insomma.
“La storia della Sava è paradigmatica: il primo episodio della crisi di Porto Marghera. Assistiamo in questi anni a cambiamenti rapidissimi: all’epoca si parlava di decenni, comunque un cambiamento era ineludibile. Lo stabilimento di Allumina di Marghera veniva rifornito di bauxite che proveniva dall’Istria, dalla Puglia, tutte miniere che negli anni Settanta non avevano più senso – se si pensa come veniva estratta la bauxite in Australia a cielo aperto. Era l’inizio di un certo tipo di globalizzazione.” (p.98)
Chi parla è Giorgio Berner, allora giovane dirigente della Sava.
“Allora c’era qualcuno che pensava che Porto Marghera per i successivi cinquant’anni potesse restare sempre così, invece purtroppo la realtà è in continuo movimento. Quando l’Alusuisse ha scoperto che in Australia non era più necessario andare sottoterra a ottocento metri per cercare quel minerale dal quale poi si ricavava l’allumina, ma c’erano miniere a cielo aperto, bastava andare con i bulldozer… da lì è incominciata ad andare in crisi … Porto Marghera” (p. 101)
Chi parla è Bruno Geromin, allora segretario dei metalmeccanici CISL a Marghera.
In conclusione.
La Puppini non vuole nascondersi dietro una falsa oggettività da ricercatrice ma prova a tirare delle conclusioni per il presente e per il futuro:
“Nell’ottica delle responsabilità occorre ripensare ai doveri/diritti di ciascuno; da una parte il dovere di rispettare l’ambiente e di garantire la produttività, dall’altra – cioè dalla parte operaia – il dovere di fare bene il proprio lavoro, ma il diritto di non morire sul posto di lavoro, il diritto di vivere in un ambiente sano, i cui tempi siano modulati sull’uomo e non sulla macchina, il diritto di trovare anche soluzioni migliorative, cioè di dare il proprio contributo di esperienze per un’umanizzazione dell’organizzazione del lavoro. Questo vuol dire riappropriarsi del proprio lavoro e responsabilità per le parti che competono a ciascuno; al finanziatore, al produttore, all’esecutore, al fruitore.” (p. 125)
La nostra autrice si accorge, però, che sta chiedendo tanto, forse troppo.
“Un sogno? Alle volte sognare aiuta a cambiare la realtà, poi, però, bisogna attrezzarsi per realizzare i sogni.”
Enzo Guanci
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Storia di donne e di uomini, di acque e di terre – BELLAFRONTE (CN)
BELLAFRONTE, E. Russo. Storia di donne e di uomini, di acque e di terre. Barletta: Editrice Rotas, 2009. Resenha de: GUANCI, Vincenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
Il sale non è solo l’ingrediente per rendere “saporita” la nostra alimentazione quotidiana. Il sale è assolutamente necessario nell’industria chimica, nella concia delle pelli e, naturalmente, per la fabbricazione dei prodotti agroalimentari. Pervade la nostra vita quotidiana. Ma non da ora; fin dal Neolitico i gruppi umani scoprirono l’importanza strategica di una materia prima necessaria all’alimentazione e che, per di più, consentiva la conservazione dei cibi. La storia dell’umanità è punteggiata da alleanze e conflitti per il controllo della produzione del sale, che, fino a pochi decenni or sono, era monopolio statale, e non solo in Italia.
Al museo della salina di Margherita di Savoia si impara la storia. La storia del sale e delle saline, la storia di Margherita di Savoia, delle sue donne, dei suoi uomini, dei suoi bambini, del loro lavoro, della loro vita.
Questo ci dicono e ci fanno capire Francesca Bellafronte ed Enzo Russo con il loro libro-catalogo del museo, Storia di donne e di uomini, di acque e di terre, editrice Rotas, Barletta, 2009.
La felice scelta degli autori è quella di dare al libro un’impostazione di tipo didattico.
Innanzitutto, la salina di Margherita di Savoia è raccontata secondo una struttura “presente-passato-presente”, che con tutta e immediata evidenza dà conto dei motivi per cui oggi valga la pena di studiare la storia di una realtà importante come la salina.
In secondo luogo, le difficoltà del testo storiografico sono stemperate attraverso l’uso della domanda e della risposta. Intendiamo dire, per esempio, che un testo descrittivo-argomentativo con un intrinseco rischio di forti asperità lessicali e concettuali, come quello sulle innovazioni tecniche nel XIX secolo, viene invece smontato, tematizzato, problematizzato e risolto con risposte relativamente brevi e piane a dieci domande:
- perché nel primo trentennio del XIX secolo prese corpo l’ipotesi di bonifica del lago Salpi?
- Quali conseguenze produsse la riduzione della profondità del lago?
- Quale problema destava più preoccupazione?
- Come si intervenne per risolvere questi problemi?
- Quale era il progetto di Afan de Rivera?
- Gli obiettivi di Afan de Rivera furono raggiunti?
- Come si presentava il nostro territorio a metà Ottocento?
- Quali erano le vie di comunicazione a metà Ottocento?
- Qual era la produzione della salina?
- Come si spiega l’incremento produttivo di inizio Novecento?
In terzo luogo, le tantissime riproduzioni di documenti d’archivio, carte topografiche, fotografie d’epoca, non svolgono una mera funzione esornativa bensì costituiscono, assieme ai testi, parte integrante del materiale per la costruzione della conoscenza storica di chi legge e studia.
Infine, due testi introduttivi e un glossario forniscono gli strumenti cognitivi e concettuali per seguire senza difficoltà, sia la visita al museo sia la sola lettura del libro.
Si inizia con la descrizione della salina oggi, all’inizio del XXI secolo: dove si trova, come funziona, con quali macchine; ci si sofferma sui procedimenti di produzione del sale, si scopre come viene impacchettato, come viene trasportato nelle varie parti d’Italia e del mondo; si arriva fino alle innovazioni più recenti, quale, per esempio, l’arricchimento con lo iodio introdotto da una legge del 2005.
La seconda parte del volume racconta il passato, la storia della salina. Si va dalla prima attestazione documentaria di una salina nella Tavola Peutingeriana, che nel XII secolo segnala la presenza di saline sulla costa adriatica già in epoca romana, fino agli anni Sessanta del Novecento. Ma alcune tracce la fanno risalire al Neolitico; si tratta delle cosiddette “vasche napoletane”. Cosa sono? Ce lo spiegano F. Bellafronte e E. Russo: “due canalette circolari, scavate su una piattaforma di pietra nell’età del Bronzo, rinvenute nei pressi del canale Carmosino. Probabilmente erano utilizzate per lo scolo dei sali di magnesio, più amari, dai cumuli di cloruro di sodio.”
La modernità irrompe nella salina in epoca illuminista con l’intervento del Vanvitelli, ingegnere e architetto, colui che aveva progettato la reggia di Caserta, chiamato dal re di Napoli, Carlo III di Borbone, ad ammodernare e riorganizzare la salina, per aumentarne la produzione. Nel XVIII secolo, ci ricordano gli autori, le “tecniche produttive erano rudimentali e basate sull’impiego di attrezzi manuali, per lo più azionati con la forza della braccia. L’energia animale era impiegata nel trasporto del sale: i cavalli trainavano i carretti carichi di sacchi di sale fino alla spiaggia, dove prendevano la via del mare. L’energia solare ed eolica, allora, come oggi, erano le principali protagoniste del processo di salinazione, attraverso l’evaporazione dell’acqua”. Vanvitelli risistemò le vasche, “attraverso l’eliminazione degli isolotti di terra, il livellamento del fondo e il consolidamento della base degli argini d’argilla, mediante l’inserimento di una fila di tufi.” Ma, naturalmente, non si limitò a questo; rese più vivibile l’ambiente, ampliò la base produttiva della salina e, soprattutto, introdusse le “coclee di Archimede”, chiamate volgarmente “trombe”, macchine che sostituivano i tradizionali “sciorni”.
Lo sciorno, ci spiegano gli autori, “consiste[va] in una specie di parallelipedo aperto su un lato, della capacità di due secchi, fissato ad un treppiede per mezzo di una fune. Veniva azionato a braccia: ci voleva un movimento continuo e ripetuto dei salinieri, per trasferire tutta l’acqua da un vaso all’altro” (cfr. illustrazione a p. 61). Le coclee di Archimede permettevano di “sollevare più facilmente l’acqua, in tempi più veloci e con minore fatica, superando i dislivelli altimetrici tra gli scaldati ed i campi” (p. 65) comportando anche una notevole riduzione di manodopera.
E così via. Il racconto del passato della salina di Margherita di Savoia viene presentato prestando sempre molta attenzione al contesto storico del tempo, spiegando le trasformazioni locali nella salina con il quadro politico, economico, sociale e culturale italiano ed europeo. Insomma, un esempio di come si può studiare la storia locale senza scadere nel localismo sterile che non ci fa capire i veri movimenti della storia.
Il libro si conclude con una bella carrellata di fotografie sulla evoluzione delle tecniche nel XX secolo rispetto alle problematiche di sempre della salina:
- raccolta e ammassamento del sale;
- pesatura e confezionamento;
L’accelerazione novecentesca appare in tutta la sua evidenza dalle fotografie degli zappasale al lavoro nei primi anni del Novecento, alla prima introduzione degli elevatori meccanici negli anni Dieci, alla velocizzazione con i nastri trasportatori negli anni Trenta, alla foto del capannone Nervi in funzione fino agli anni Settanta.
Insomma una pubblicazione di storia locale e di storia generale, di storia della tecnica e di storia sociale; una guida per una visita al museo e un percorso di educazione al patrimonio culturale. Impreziosita, tra l’altro, dall’accuratezza della grafica che rende leggibili le riproduzioni cartografiche e godibili quelle fotografiche.
Del resto già Giorgio Nebbia nella sua ricca e impegnata presentazione iniziale ci ricorda che oggi – dati del 2007 – nel mondo si producono ancora circa 250 milioni di tonnellate di sale, a testimonianza della sua importanza economica.
“Esiste tutta una economia e fiscalità del sale, una merce così importante – scrive Nebbia – che tutti i potenti ne hanno approfittato per ricavare imposte e per instaurare monopoli sul suo commercio. Salaria, Salina, Sale, Saline… sono i nomi di località e strade associate alla produzione e al commercio del sale. Plinio ricorda le saline di Taranto, di cui oggi resta traccia soltanto in un toponimo. E al sale era associato anche il nome di Salapia, Salpi, la misteriosa città che sorgeva proprio alle spalle della più grande salina del Mediterraneo, quella di Margherita di Savoia.” (p. 6).
Appunto a questa è dedicato il Museo, a parere dello stesso Nebbia di grande interesse per almeno tre motivi:
costituisce un opportuno riconoscimento dell’importanza dell’energia solare, il cui impiego nella salina di Margherita ammonta su base annua all’equivalente energetico di tre milioni e mezzo di tonnellate di prodotti petroliferi.
Mostra la lenta formazione del sale nelle saline solari, la nascita di cristalli diversi, mano a mano che con l’evaporazione si separano i vari sali. “Uno spettacolo che meriterebbe un film, tanto più che simili fenomeni si verificano nelle pentole, quando bolle l’acqua per la minestra, sulle serpentine degli scaldabagni …”
Recupera e valorizza la conoscenza di una peculiare industria chimico-mineraria, tipica del Mezzogiorno.
“Il recupero della storia e delle tecniche salinare di Margherita contribuirà – secondo Nebbia – a conservare e far crescere la conoscenza e l’orgoglio operaio e imprenditoriale proprio in Puglia, tanto più che le saline di Margherita sono state ricche di innovazioni sia meccaniche, sia chimico-industriali …”
Enzo Guanci – Membro della segreteria nazionale di Clio ’92, Associazione di insegnanti e ricercatori sulla didattica della storia. Ha insegnato Storia e ricoperto il ruolo di dirigente scolastico nella scuola secondaria di II grado. Recentemente ha curato, assieme a Carla Santini, il volume Capire il Novecento, FrancoAngeli editore, Milano, 2008. Svolge attività di formazione, ricerca e aggiornamento sulla didattica della storia.
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Il bisogno di pátria – BARBERIS (CN)
BARBERIS, Walter. Il bisogno di pátria. [Torino]: Einaudi, 2004 e 2010. 141p.. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
“Come figli di una famiglia senza armonia e senza memorie, gli italiani si sono spesso cresciuti da soli, superando la solitudine con cinismo, con opportunismo, con diffidenza, talvolta con esibizionismo. Ignorando le ragioni e l’utilità di una salvaguardia dell’interesse generale. E’ così che l’idea di patria si è di volta in volta caricata di significati che invece di tendere all’unità hanno accentuato visioni faziose, volte all’esclusione.” (p.7)
Con queste parole W. Barberis ripropone la questione della patria, o meglio della mancanza di un’idea di patria per gli italiani, partendo dalla sua considerazione che tale mancanza non ha inizio, come è stato scritto, l’8 settembre 1943, ma ben più in là, almeno cinque, se non quindici, secoli or sono. Egli sviluppa le sua argomentazioni annodandole intorno a tre temi, o meglio, intorno a tre “bisogni”, a ciascuno dei quali dedica quarantadue pagine: il bisogno di Stato, il bisogno di storia, il bisogno di patria.
Quale patria?
“una patria che non disegni i confini di un’identità chiusa, esclusiva; ma che prenda valore dalla consapevolezza della pluralità storica dei suoi volti. Una patria che non dimentichi di richiedere a chi appartenga alla comunità il rispetto delle tradizionali virtù civiche: l’obbligazione fiscale, l’esercizio della giustizia, la difesa delle istituzioni dello Stato.” (p. 10)
Il libro guarda al futuro, sia pure riflettendo sul passato. Si tratta, infatti, di un libro di storia. Perché, ricorda l’autore, ” è la storia ciò di cui ha bisogno un popolo: qualcosa che rimetta in ordine, oltre lo spirito di parte, la dinamica degli avvenimenti e le loro molteplici ragioni.” La memoria ha uno sguardo parziale e, pertanto, non può nutrire che sentimenti patriottici esclusivi; memorie differenti si contendono lo spazio della patria “una” tendendo ciascuna a farsi storia. E’ proprio questa contesa che una società sana deve evitare. E la storia ha esattamente questa funzione: “affidata a protocolli riconosciuti da una comunità scientifica”, attraverso procedure di analisi e interpretazioni, ha il compito di fornire alla comunità intera uno sguardo generale. Barberis esemplifica tutto questo nelle pagine dedicate a sviluppare il tema del bisogno di storia indicando le linee per la costruzione di una “dotazione storiografica comunitaria – se vogliamo nazionale – … [uscendo] dalle contingenze e dalle urgenze della contemporaneità. L’Italia ha una storia millenaria, tutta utile alla definizione dei suoi caratteri attuali e alla possibilità di emendarli.” E qui vengono ricordati i soggetti necessari a costruire una storia d’Italia: la Chiesa innanzitutto, Roma, i municipi, il Mezzogiorno, la Repubblica, la Costituzione.
La storia ci conferma che una comunità priva di un apparato statuale efficiente e condiviso non è davvero tale, poiché ciascuno in misura più o meno grande inclina infine verso il proprio interesse privato, provocando proprio ciò che tanto spesso è stato incolpato agli italiani: opportunismo, trasformismo, dissimulazione, mancanza di senso dello Stato, appunto. Barberis mostrando la necessità di uno Stato per gli italiani ripercorre la storia della sua formazione a partire dalla risposta alla domanda: perché proprio il Piemonte (e non un altro tra gli Stati d’Italia) unificò la penisola fondando lo Stato italiano?
“Il Piemonte, selvatico e periferico, non aveva conosciuto gli splendori della civiltà comunale e signorile… La certezza delle istituzioni, la loro continuità, la prospettiva di durata della dinastia, il suo radicamento territoriale, fecero ciò che non conobbe il resto d’Italia: assicurarono i sudditi che le loro iniziative erano possibili, che avevano i requisiti minimi di riuscita, primo fra tutti il tempo, garante eccellente di ogni contratto…. non furono simpatia, garbo e cultura; ma senso dello Stato, tecnica amministrativa e militare, e anche un certo patriottismo, il bagaglio eccentrico con cui poi i piemontesi si disposero all’incontro con gli altri italiani.”(p. 21)
Il bisogno di patria, la coscienza di appartenere ad un’unica comunità, furono esigenze che si rappresentarono immediatamente dopo la fondazione dello Stato italiano e sono state preoccupazioni presenti finora nella classe dirigente per tutti i centocinquant’anni dal 1861. All’inizio fu soprattutto la letteratura a svolgere il ruolo più importante, si pensi solo alle poesie di Carducci e al Cuore di De Amicis, ma poi dopo la prova tremenda della Grande Guerra, fu il fascismo a forgiare l’idea di patria sovrapponendola alla retorica della guerra, aiutato in questo dalla letteratura futurista. Così si confuse patria con nazionalismo, aggressione e morte, con la guerra appunto.
Oggi, bisogna ricostruire per gli italiani un’idea di patria che escluda non solo guerra ma anche la sopraffazione degli altri popoli , i quali, al contrario, vanno inclusi in un’idea di patria meticciata, alla quale partecipano tutti coloro che hanno la fortuna di abitare un paesaggio unico al mondo, poiché, ricorda Berberis citando Settis, “il nostro bene culturale più prezioso è il contesto, il continuum nel quale si iscrivono monumenti, opere, musei, città e paesaggi, in un tessuto connettivo ineguagliabile… questo è il tratto identitario degli italiani” (p.111). Se questo è vero, come è vero, vuol dire che insegnare storia d’Italia significa insegnare contemporaneamente geografia d’Italia, poiché ciò che conta imparare, va ribadito, è innanzitutto il contesto, di tempo e di spazio.
[IF]Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro – PALLOTTI (CN)
PALLOTTI, Gabriele; CAVADI, Giorgio. Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro. Formello (Roma): Bonacci editore, 2012. Resenha de: GUANCI, Enzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
A cura di Enzo Guanci.
“Mangiare non era l’unico intrattenimento. Nel Rinascimento infatti ci si divertiva in molti modi e anche questo ci fa capire come ci si sentisse più liberi. Nel Medioevo la Chiesa controllava tutta la vita delle persone e considerava i giochi come una specie di peccato: quindi non si giocava molto e chi lo faceva doveva un po’ vergognarsi. Invece nel Rinascimento il gioco diventa una parte importante della vita: tutti, ricchi e poveri, giocano in ogni luogo, in casa, nei negozi , nelle osterie, nelle strade e nelle piazze.” (p. 86)
Questa è una notizia tratta dalle ventisette pagine dedicate al Rinascimento nella “storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro” da Gabriele Pallotti e Giorgio Cavadi. L’informazione sui giochi si trova nella pagina dedicata al “divertirsi ” nel paragrafo “La vita nel Rinascimento”, che costituisce la parte più corposa del capitolo; gli altri paragrafi sono dedicati alla geopolitica (gli Stati nazionali; le signorie, piccoli stati regionali) e a fornire informazioni di contesto che consentano di comprendere il Rinascimento italiano nel quadro europeo. La scelta degli autori è appunto quella di incentrare il loro manuale sulle condizioni di vita, sui costumi, sulle abitudini sociali degli italiani piuttosto che sugli avvenimenti della politica nel corso dei secoli. La selezione dei contenuti quindi affranca il manuale dalla congerie dei numerosissimi eventi del tempo breve della politica, concentrandosi sulla descrizione delle strutture delle società italiane presentate in cinque “epoche”, come programmaticamente esplicitato nell’introduzione: Roma, il Medioevo, il Rinascimento, l’Ottocento, il Novecento. Ciò consente di “raccontare” l’Italia dall’VIII sec. a. C. alla fine del XX secolo in poco più di centoquaranta pagine! E per chi volesse approfondire ci sono tre pagine di riferimenti bibliografici.
In realtà, la storia non viene “raccontata”: non ci sono, per esempio, i personaggi e gli episodi che tradizionalmente punteggiano la storia d’Italia dei nostri manuali scolastici, che generalmente fanno della storia politica e delle istituzioni un genere storiografico noioso e poco comprensibile agli studenti della scuola secondaria. Gli autori segnalano fin dal titolo lo sforzo di descrivere la carrellata dei ventotto secoli di storia italiana “in modo semplice e chiaro”. Non era facile. Loro ci sono riusciti. Sulla base di due idee-forza: costruire un linguaggio piano, controllato al punto da riuscire “semplice”; costruire un affresco del passato d’Italia sulla base delle conoscenze essenziali a comprendere le trasformazioni delle società e dei popoli italiani dall’epoca romana al Novecento. E, siccome il libro è pensato per comprendere l’Italia di oggi, l’intero testo è punteggiato frequentemente da riferimenti e riflessioni sull’attualità, anche con un apposita rubrica titolata “ieri e oggi” (Per esempio, nelle pagine in cui si parla della repubblica romana e della figura istituzionale del dictator la rubrica viene usata per sollecitare una riflessione sul mondo attuale:
“Anche in tempi più recenti qualcuno ha pensato che un dittatore solo con tutto il potere riesca a governare lo Stato meglio di un’assemblea di rappresentanti. Ad esempio in Italia, durante il fascismo, Mussolini…. Uno Stato in cui decide una persona sola si chiama assoluto o autoritario. Uno Stato in cui le decisioni sono prese dai rappresentanti eletti da tutti i cittadini si chiama democratico. Hai mai pensato cosa si guadagna e cosa si perde in ciascuno di questi sistemi?”).
Leggendo attentamente il libro a noi pare emerga chiara la difficoltà di raccontare la storia politica “in modo semplice e chiaro” senza cadere nella banalizzazione. Un esempio, a noi sembra, possa essere fornito dalle due-tre pagine dedicate al Risorgimento (L’Italia diventa un Paese unito, pp. 97-99) nelle quali Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi si muovono come personaggi di un “racconto” dal quale sono espunte le problematizzazioni del fenomeno risorgimentale, perché i problemi non si possono “raccontare” e se lo si fa è quasi impossibile farlo con un “linguaggio semplice e chiaro”: si rischia appunto la “banalizzazione”. I nostri autori hanno intelligentemente evitato questo rischio proponendo una storia d’Italia dal punto di vista economico e sociale, come espressamente dichiarato nell’introduzione.
Infine va anche sottolineato che il libro non dimentica la sua funzione di strumento per l’apprendimento della storia e pur non proponendo esplicitamente esercitazioni per sviluppare le abilità di base della disciplina, l’uso di linee del tempo, tabelle, cartine tematiche, illustrazioni non di carattere esornativo bensì inserite e commentate nel testo, e l’esortazione frequente a riflettere su analogie e differenze tra passato e presente (Ieri e oggi, Pensaci su) indica implicitamente a chi ha la responsabilità dell’insegnamento la strada migliore per interessare gli allievi a imparare la storia d’Italia.
Maggio 2012
[IF]Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche – BETTINI (CN)
BETTINI, Maurizio. Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche. Bologna: Il Mulino, 2014. 155p. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
“La pluralità degli dèi non costituisce l’essenza delle religioni politeistiche, come vorrebbe farci credere il nome che le designa, ma solo la condizione necessaria affinché esse possano esplicare la virtù che meglio le caratterizza: ossia la capacità di pensare in modo plurale ciò che ci circonda e, nello stesso tempo, di fornire altrettanti modi d’azione per interpretarlo e intervenire su di esso” (pag. 111).
Maurizio Bettini, antropologo del mondo antico, ci fa conoscere in questo libro la specificità e l’originalità delle religioni politeistiche dell’antichità attraverso la costruzione della concettualizzazione di “quadro mentale” che, per capirci, è, nel nostro mondo, “quello costituito dalla convinzione profonda, e spesso talmente interiorizzata da risultare inconscia, che non possa esservi se non un solo e unico Dio.” (p. 21). Tale quadro mentale oggi connaturato a quella buona parte del pianeta che professa religioni monoteiste viene opposto a quello delle società antiche politeiste, in particolare quelle greca e romana. Beninteso, va subito sgombrato il campo da vecchie gerarchie evolutive di stampo colonialista, eurocentriche e cristianocentriche che considerano la religione greca e romana come una mitologia pagana e idolatra, “superata” dal cristianesimo unica e vera religione. “Gli dèi che furono venerati e onorati da [queste] due civiltà – ricorda Bettini – sono stati al centro di organizzazioni sociali, culturali e intellettuali molto complesse…” (p.9) che si fondavano, tra l’altro, su una concezione della cittadinanza considerata importantissima, al punto da coinvolgere perfino il mondo degli dèi. Infatti, nel quadro mentale dei Romani gli dèi di un altro popolo, amico o conquistato, venivano cooptati all’interno della civitas romana. Tutt’altra cosa dalla tolleranza alla quale siamo esortati dal migliore cristianesimo dei nostri tempi.
In fondo tutto il libro di Bettini costituisce una comparazione tra il quadro mentale delle religioni politeistiche e quello dei monoteismi ebraico-cristiano e islamico.
Innanzitutto, la questione della violenza. Se è vero che Greci e Romani hanno combattuto guerre e perpetrato massacri non hanno mai fatto guerre “per affermare una religione sull’altra, come invece hanno fatto nei secoli successivi cristiani e musulmani” (p. 43).
Il fatto è, sostiene Bettini, che il politeismo è flessibile: “la messa in valore di alcune caratteristiche proprie di ciascuna divinità (il fornire alimento, il portar semi, la stabilità) [costituiscono un] tramite cui costruire inferenze che producono di volta in volta l’identificazione con un’altra divinità” (p.69) ovvero la traduzione di una divinità da una cultura ad un’altra. Gli esempi sono molteplici: l’egizio Serapide diventa Esculapio o Iuppiter a seconda delle caratteristiche del dio, il Wotan germanico è identificato con Mercurius, ecc.
Il monoteismo, al contrario, non può che essere rigido, costruito com’è su una verità scritta direttamente da Dio: le sacre scritture.
Se è vero che la Chiesa cattolica “produce” una quantità sterminata di santi e beati, soddisfacendo le esigenze di “protezione divina” delle diverse attività umane, è vero altresì che il Catechismo della stessa Chiesa ribadisce l’esistenza di un solo “Dio unico e vero”. Con l’aggiunta che “evangelizzando senza posa gli uomini la Chiesa si adopera affinché essi possano ‘informare dello spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità’ in cui vivono” (p.45). Di qui allo Stato confessionale il passo è (è stato?) breve.
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