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Gripe, a história da pandemia de 1918 | Gina Kolata
Nos últimos anos, a historiografia nacional foi farta em trabalhos sobre os efeitos da pandemia de gripe espanhola de 1918 nas principais cidades brasileiras.1 Vários autores debruçaram-se sobre diversos aspectos do evento, analisando as modificações cotidianas geradas pelo contexto epidêmico, as práticas dos profissionais do campo médico em relação à epidemia, a atuação dos serviços de saúde pública e, até mesmo, o conjunto de sentimentos da população no conturbado contexto que se apresentava. A americana Gina Kolata mostra que nos Estados Unidos foi diferente, explicando que em sua terra a literatura sobre o tema quase que se resume ao livro America’s forgotten pandemic, de Alfred W. Crosby, e que essa escassez de literatura sobre o tema incentivou-a a escrever. Gina Kolata é jornalista científica, formada em microbiologia, e estudiosa de biologia molecular. Já escreveu vários textos sobre temas científicos, destacando-se o livro Clone: os caminhos para Dolly e as implicações éticas, espirituais e científicas (Rio de Janeiro, Campus, 1998), fruto de seu sistemático acompanhamento, para o New York Times, da trajetória que culminou com o nascimento da ovelha Dolly. Seu livro, Gripe, a história da pandemia de 1918, caracteriza-se como um abrangente relato dos esforços da ciência em busca de compreender as causas da doença e evitar o seu possível retorno. Na verdade, o título original da obra, Flu: the history of the great influenza pandemic of 1918 and the search for the vírus that caused it, revela muito mais do que a tradução nacional que, ao suprimir toda a parte do subtítulo, dá a entender tratar-se de um relato centrado nos eventos de 1918. Segundo a própria autora, trata-se de uma história de mistério envolvendo ciência, política, pesquisadores e um vírus assassino. História de acasos e surpresas que merecia ser contada, tanto pelo drama da narrativa, como por suas implicações, pois a solução do mistério poderia ajudar os cientistas a evitar uma possível volta do microscópico vilão. Leia Mais
Der Briefwechsel: 1953–1983 | Reinhart Koselleck e Carl Schmitt || Der Begriff der Politik: Die Moderne als Krisenzeit im Werk von Reinhart Kosellec | Genaro Imbriano
Reinhart Koselleck e Carl Schmitt | Fotos: Neue Bürcher Zeitung e Prodavinci
The correspondence between the conceptual historian Reinhart Koselleck (1923–2006) and the radical-conservative legal and political theorist Carl Schmitt (1888–1985) is certain to attract scholarly attention—and to produce expectations. So far, we have only caught unsystematic glimpses of these theorists’ private exchanges, which began in the early 1950s. Scholarship on Koselleck, particularly Niklas Olsen’s History in the Plural: An Introduction to the Work of Reinhart Koselleck and Gennaro Imbriano’s Der Begriff der Politik: Die Moderne als Krisenzeit im Werk von Reinhart Koselleck, which is under review here, has utilized the correspondence and related archival sources, albeit noncomprehensively and without assessing their overall import for the Schmitt/Koselleck question.1 With the letters now made available in 2019’s Der Briefwechsel: 1953–1983, edited by Jan Eike Dunkhase, the wider (German-speaking) audience can form its own opinions about the thinkers’ relationship and assess their similarities and differences. Leia Mais
O Cinema Vai à Guerra – TEIXEIRA DA SILVA; SHURSTER (DSSC)
TEIXEIRA DA SILVA, Francisco Carlos; LEÃO, Karl Shurster Sousa; LAPSKY, Igor (Org). O Cinema Vai à Guerra. Rio de Janeiro: Campus, 2015, 274 pp. Resenha de SANTIAGO JÚNIOR, Francisco das Chagas. Studi di Storia Contemporanea, n. 26, v. 2, 2016.
O Cinema vai à Guerra, libro curato da Francisco Carlos T. da Silva, Karl Schurster Leão e Igor Lapsky si inserisce nel solco della tradizione storiografica brasiliana attenta alla relazione fra storia e cinema. È importante contestualizzare il libro nel quadro degli studi storiografici sul cinema degli ultimi decenni. In Brasile, la storiografia si è approcciata al cinema a partire dal manuale A pesquisa histórica no Brasil, di José Honório Rodrigues, pubblicato nel 19521. Tuttavia, è stato solo a seguito della traduzione, nel 1976, del celebre testo di Marc Ferro, Cinema: uma contra análise da sociedade? nella raccolta collettanea História: novos problemas, curata da Jacques Le Goff e Pierre Nora, che ha preso avvio un movimento volto a dare maggior risalto ai film2. Nel 1988, il lavoro pionieristico Cinema e História do Brasil: propostas para uma história, scritto da Jean-Claude Bernardet e Alcides Freire Ramos, operò un’analisi di pellicole di fiction e documentari brasiliani, spesso alla luce della “storia del tempo presente” francese e prendendo in considerazione la proposta di Marc Ferro nel saggio già menzionato: l’uso del film come fonte storica; il film come rappresentazione della storia; il film come agente della storia3.
Negli anni Novanta il cinema, nella produzione accademica brasiliana, venne definitivamente considerato alla stregua di un oggetto storiografico. In quel decennio videro la luce le prime tesi specialistiche e di dottorato su questo tema e vennero pubblicate alcune traduzioni in lingua portoghese dei testi degli storici pionieri nello studio della relazione cinema-storia, come Marc Ferro, Pierre Sorlin e Robert Rosenstone. Tre gruppi di ricerca storiografica risultarono decisivi in questa rielaborazione: nelle università statali di San Paolo vennero realizzati i primi studi, tra cui spiccavano quelli di Alcides Freire Ramos, Cláudio Aguilar, Eduardo Morettin e Cristina Meneguello; dalle università di Rio de Janeiro vennero prodotti testi dedicati ai film storici e alle relazioni tra cinema e ideologie politiche nel XX secolo: qui si distinsero Mariza de Carvalho e Francisco Carlos T. da Silva; a Bahia, il laboratorio “Occhio della storia”, all’interno dell’Universidade Federal di Bahia, organizzò traduzioni e lavori di ricerca indirizzati allo studio dei film e alla realizzazione di recensioni di pellicole storiche, attribuendo una particolare attenzione alla rappresentazione cinematografica del passato, e qui si distinsero storici come Cristiane Nova e Jorge Nóvoa. Nel 1997, in un’importante raccolta collettanea venne pubblicato il testo História e imagem: os casos do cinema e da fotografia, scritto da Ciro Cardoso e Ana Maria Mauad, che in qualche modo ufficializzava il cinema come oggetto storiografico brasiliano4, concetto che venne riaffermato nel 2001, quando un gruppo di storici pubblicò la collettanea A história vai ao cinema5, curato da Jorge Ferreira e Mariza de Carvalho, dedicata esclusivamente a indagare la rappresentazione del passato nel cinema brasiliano6.
Il tema della guerra nel cinema non è nuovo né nello scenario internazionale, né in Brasile, non essendo, peraltro, monopolio della ricerca storica. La maggior parte delle monografie precedenti, infatti, sono state scritte – in ambito brasiliano – da studiosi o critici cinematografici. Nel caso degli studi storici in Brasile, il tema è stato considerato principalmente come una forma di rappresentazione del passato, dal momento che era spesso legato anche con l’affermazione della storia del tempo presente come campo di ricerca per gli storici. L’interesse per il tema si è esplicitato attraverso le principali raccolte miscellanee pubblicate nel primo decennio del secondo millennio: História e cinema: dimensões históricas do audiovisual, del 2005, che presenta una delle cinque sezioni del libro dedicata al tema, che comprende un articolo di Wagner Pinheiro Pereira presente anche in O cinema vai à guerra, e Cinematógrafo: um olhar sobre a história, del 2009, che dedica una delle sue tre parti alla traduzione di testi sulla Seconda guerra mondiale al cinema di ricercatori francesi del calibro di Silvye Lindperg e Jean-Pierre Bertin-Maghit7. Spicca il testo pionieristico di Francisco Carlos T. da Silva, Guerras e cinema: um encontro no tempo presente, pubblicato nel 20048. Quest’ultimo autore ha riunito assieme a Igor Lapsky e Karl Schurtzer una serie di ricercatori legati Laboratório de Estudos do Tempo Presente, la cui sede originaria era presso l’Universidade Federal di Rio de Janeiro, oltre ad altri centri accademici di tutto il Brasile, per comporre la raccolta miscellanea O cinema vai à guerra, dando continuità a una riflessione sull’appropriazione dell’esperienza storica della guerra da parte del cinema e potendo contare sull’infoltirsi delle fila degli storici studiosi di cinema, che dimostrano interesse nei confronti della costruzione visuale del passato, così come della nuova generazione di ricercatori dediti principalmente all’analisi della relazione tra cinema e storia, le cui tesi di dottorato sono state discusse dal 2000 in avanti.
O cinema vai à guerra è organizzato a partire dalla guerra intesa come topos della storia del tempo presente e della rappresentazione del passato (lontano e prossimo). Dal momento che i film su cui si concentrano i ricercatori sono legati a molteplici cinematografie nazionali (tra cui spicca quella nordamericana, ma anche quella francese, tedesca, spagnola, russa…), molti conflitti sono ricorrenti, principalmente quelli che hanno marcato il XX e il XXI secolo come la Prima e la Seconda guerra mondiale, la Guerra del Vietnam, oltre alla Guerra fredda e alla Guerra al terrorismo. Vengono discusse anche le guerre che hanno acquisito un carattere di (ri)fondazione nazionale, come la Guerra di secessione nordamericana e la Guerra civile spagnola.
Nella prospettiva secondo cui la narrazione cinematografica sarebbe «la principale concorrente della narrazione storica»9, i testi del volume riconoscono il ruolo del cinema nell’elaborazione visiva della coscienza storica dei secoli XX e XXI e del suo funzionamento come produttore di immagini del presente e del passato che finiscono per comporre la memoria delle comunità nazionali. Il cinema è un media all’interno sul quale si sviluppano dispute culturali e ideologiche dal momento che il film è «una modalità di rappresentazione, avallata dalla sua ampia ricezione popolare, della storia, uno dei molti modi di narrarla»10.
Si tratta, in totale di dodici capitoli: Gracilda Alves discute della relazione tra occidentalismo e orientalismo nel cinema in Cinema, guerra, civilização e barbárie; Rafael Araújo e Karl Schurster riflettono sulla rappresentazione delle guerre coloniali in Imperialismo e cinema; Carlos Leonardo Bahiense da Silva indaga come i traumi della guerra siano stati inseriti nelle trame dei film tedeschi degli anni Sessanta e nel cinema inglese dello stesso decennio in A grande guerra (1914-1918) no espelho in cui si tratta di shell shocks; il testo Guerra civil espanhola: o cinema do general Franco, di Wagner Pinheiro Pereira discute l’eredità del conflitto spagnolo così come l’uso franchista del cinema; Karl Schurster e Francisco Carlos T. da Silva in A segunda guerra mundial (1939-1945): heroísmo e tragédia trattano delle «narrazioni del disagio»11 a partire dalle pellicole contemporanee e successive al conflitto; il concetto di genocidio/sterminio e le sue rappresentazioni al cinema vengono discusse nel testo Cinema e genocídio no século XX: a análise dos grandes massacres étnicos, religiosos e sociais, di Carlos Leonard da Silva e Ricardo Pinto dos Santos; l’impegno del cinema nello sviluppo del pacifismo nel corso del XX secolo viene trattato nel capitolo Guerra e paz: pacifismo, gênero e identidade na tela di Francisco T. Carlos da Silva; l’inserimento della Guerra fredda nella vita quotidiana da parte delle cinematografie nordamericane e sovietica viene affrontato da Alexandre Busko Valim in Cinema e guerra fria: entre Hollywood e Moscou; la traumatica esperienza sociale del Vietnam per la società nordamericana trovo in A guerra do Vietnã (1965-1975): o trauma de uma geração, di Carlos Leonardo da Silva e Igor Lapsky un luogo di dibattito; infine, le rappresentazioni del terrorismo nel cinema americano sono oggetto del saggio A Guerra ao terror: o pós-guerra fria, di Igor Lapsky. La collettanea introduce tematiche eterodosse nel dibattito su guerra e cinema: il combattimento contro gli alieni nel capitolo A guerra entre mundos: não estamos sozinhos!, di Dilton e Andreza Maynard e il fallimento della società contemporanea negli immaginari post-bellici intesi come futuri distopici in Cinema e distopias: as guerras do futuro, di José Maria Gomes de Souza Neto.
Alcune problematiche-concetti percorrono molti o quasi tutti i testi: tra queste spiccano identità, allegoria e conflitto/guerra. Quest’ultimo permette di accostare alla dimensione bellica degli eventi storici canonici (le guerre mondiali, la Guerra fredda, la Guerra del Vietnam, la Guerra civile spagnola, etc.) prospettive di guerre sociali e civili immaginarie (distopie, guerre contro invasori spaziali) evidenziando un aspetto fondamentale della raccolta di saggi: la guerra è tanto la rappresentazione in film d’ambito definito, ad esempio Apocalipse Now12 o Va’ e vedi13, quanto un’esperienza immaginaria proiettata in film inaspettati come Blade Runner14. La raccolta rifugge dall’approccio più prevedibile del dibattito sui “film di guerra” – genere oltremodo presente nelle trattazione – e si sofferma sui molteplici usi simbolici della guerra fatti nelle pellicole. In quest’ottica, i testi non sistematizzano gli aspetti legati al fenomeno di istituzionalizzazione storica della guerra come tema e genere nelle diverse cinematografie nazionali analizzate. Da un lato questo denota un approccio trasversale al problema storico (la guerra) che dimostra come le pellicole furono, nei diversi contesti sociali, armi, mezzi catartici, forme di protesta, strumenti di propaganda, proiezioni delle inquietudini collettive e di altre sensibilità, allegorie politiche e così via. Si comprende perciò come la maggior parte dei capitoli non segua le tradizionali partizioni della cinematografia nazionale (sebbene gli Stati Uniti siano distinti), già oggetto di critica da parte di storici come Michelle Lagny15.
L’identità è un altro problema centrale, dal momento che permette di capire come le rappresentazioni della guerra siano connesse con processi storici come il colonialismo, l’imperialismo, il genocidio… La distinzione noi/loro ossia attraverso le categoria antitetiche di alleato/nemico, indigeno/straniero, fedele/traditore, terrestre/extraterrestre è una costante che permette di comprendere come le immagini della guerra mutino con il tempo. In alcuni passaggi emerge il riferimento a Edward Said, dal momento che l’intera raccolta di saggi è permeata da una problematizzazione dell’identità come esperienza storica legata ai giochi di potere prodotti dall’interazione dei centri capitalisti con le proprie periferie, dal momento che entrambi sono stati toccati dall’esperienza del colonialismo e dell’imperialismo. Questo permette molteplici interpretazioni della guerra al cinema, che diventa una finestra per indagare la cultura politica del XX e XXI secolo, facendo del ricorso alla lettura allegorica una delle principali chiavi analitiche degli autori – anche se metodologicamente non viene dichiarata o problematizzata –, che interpretano una serie di film ora come sintomi, ora come cause dei processi politici in cui si trovano compresi. Evidentemente, negli scenari politici caratterizzati dalla tensione politica, molti cineasti impiegarono l’allegoria nella narrazione cinematografica, espediente comune al cinema moderno, dal momento che permetteva la costruzione di «segni di una nuova coscienza storica»16 tipica della contemporaneità. In molti casi gli autori del libro seguono queste indicazioni (quando il film si presenta come allegorico); in altri considerano le pellicole come sintomatiche di altre situazioni che non gli sono proprie, la cui dimensione e il cui impatto storico possono essere comprese solamente quando le si inserisca nella prospettiva dell’interscambio fra il cinema e le comunità politiche in cui questo si è sviluppato.
Notas
1 RODRIGUES, José Honório, A Pesquisa histórica no Brasil, São Paulo, Companhia Editora Nacional, 1978.
2 FERRO, Marc, O filme: uma contra-análise da sociedade, in LE GOFF, Jacques, NORA, Pierre (org.), História: novos objetos, Rio de Janeiro, Francisco Alves, 1995, pp. 199-215.
3 RAMOS, Alcides Freire, BERNARDET, Jean-Claude, Cinema e história do Brasil, São Paulo, Contexto/EDUSP, 1988.
4 CARDOSO, Ciro, MAUAD, Ana Maria, História e imagem: os casos do cinema e da fotografia, in CARDOSO, Ciro, VAINFAS, Ronaldo (org.), Domínios da história: ensaios de teoria e metodologia, Rio de Janeiro, Editora Campus, 1997.
5 CARVALHO, Mariza, FERREIRA, Jorge (org.), A história vai ao cinema: vinte filmes brasileiros comentados por historiadores, Rio de Janeiro, Record, 2001.
6 Per approfondire la nascita e il consolidamento della ricerca sul cinema nella storiografia brasiliana, si veda: SANTIAGO JR., Francisco das C. F., «Cinema e historiografia: trajetória de um objeto metodológico (1971-2010)», in História da historiografia, 8, 1/2012, pp. 151-173, URL: < http://www.historiadahistoriografia.com.br/revista/article/view/270/261 > [consultato il 3 marzo 2016]
7 CAPELATO, Maria Helena, MORETTIN, Eduardo, NAPOLITANO, Marcos, SALIBA, Elias (a cura di), História e cinema: dimensões históricas do audiovisual, São Paulo, Alameda, 2007; NÓVOA, Jorge, FRESSATO, Soleni Biscouto, FEIGELSON, Kristian (a cura di), Cinematógrafo: um olhar sobre a história, Salvador-São Paulo, EDUFBA -Editora UNESP, 2009.
8 SILVA, Francisco Carlos Teixeira da, «Guerras e cinema: um conto do tempo presente», in Tempo, 16, 1/2004, pp. 93-114, URL: <http://www.historia.uff.br/tempo/site/?cat=44> [consultato il 3 marzo 2016.
9 SILVA, Francisco Carlos Teixeira, LEÃO, Karl Shurster Sousa, LAPSKY Igor (org.), O Cinema Vai à Guerra, Rio de Janeiro, Campus, 2015, p. XI.
10 Ibidem, p. XII.
11 Ibidem, p. 91.
12 COPPOLA, Francis F., Apocalypse Now, United Artists, Stati Uniti, 1979, 150’.
13 KLIMOV, Elem, Иди и смотри, Mosfilm-Belarusfilm, Unione Sovietica, 1985, 145’.
14 SCOTT, Ridley, Blade Runner, Warner Bros, Stati Uniti, 1982, 117’.
15 LAGNY, Michelle, Cine y historia: problemas y métodos en la investigación cinematográfica, Barcelona, Bosch, 1997.
16 XAVIER, Ismail, A alegoria histórica, in RAMOS, Fernão Pessoa (a cura di), Teoria contemporânea do cinema: pós- estruturalismo e filosofia analítica, São Paulo, SENAC, 2005, pp. 339-379, p. 362.
Francisco das Chagas F. Santiago Júnior si è addottorato in storia presso l’Universidade Federal Fluminense, Niterói/Brasil con una tesi sull’appropriazione delle religioni afro-brasiliane nel cinema del periodo del regime dittatoriale degli anni Settanta. Lavora sulla relazione fra storia e cinema a partire da differenti assi di ricerca: il cinema e l’afro-brasilianità, la negoziazione del patrimonio culturale all’interno del cinema brasiliano, l’uso del passato nel cinema nazionale. Ha pubblicato numerosi articoli sulla cultura visuale, la teoria dell’immagine e la metodologia della ricerca multimediale.
Enciclopédia de Guerras e Revoluções do Século XX – TEIXEIRA DA SILVA et al (DSSC)
TEIXEIRA DA SILVA, Francisco Carlos; MEDEIROS, Sabrina; VIANNA, Alexander Martins (Orgs). Enciclopédia de Guerras e Revoluções do Século XX, 3 voll. Rio de Janeiro: Campus/Elsevier, 2014-2015, 496 + 304 + 672 pp. Resenha de: CHAVES, Daniel. Diacronie Studi di Storia Contemporanea, v. 28, n. 4, 2016.
Inizialmente pubblicata nel 2004, sebbene in un unico e imponente volume, l’Enciclopédia de Guerras e Revoluções do Século XX veniva proposta all’alba del XXI secolo come un lavoro nel solco di una tradizione permeata da opere di riferimento utilizzate da diverse generazioni per avvicinarsi al campo della conoscenza, nelle scienze umane così come nel campo della tradizione brasiliana. In un simile contesto, non ci si basa perciò solo su una tradizione fondata su dizionari ed enciclopedie, ma è possibile dire che questa esperienza abbia conosciuto un rinnovamento attraverso il carattere peculiare, autonomo, plurale e autoriale che quest’opera possedeva.
È tuttavia necessario citare opere fondative che l’hanno preceduta come il Dicionário de Ciências Sociais1 o il Dicionário do pensamento social do século XX2 (curato da William Outhwaite e Tom Bottomore, con la consulenza di Ernest Gellner, Alan Touraine e Robert Nisbet, oltre all’essenziale contributo brasiliano di Wanderley Guilherme dos Santos e Renato Lessa), che hanno contribuito alla formazione di generazioni di studenti, ricercatori e professionisti. Queste opere, votate ad un interesse tecnico nei confronti degli scritti collettanei in grado di compendiare una conoscenza qualificata e ampia sui vari temi, riunivano voci e informazioni in modo strutturato e con una localizzazione precisa – grazie ad una definizione sintetica –, in tempi antecedenti alla vastità nebulosa del World Wide Web.
Al di là della concezione dei dizionari – la cui progettazione concettuale rigorosa prevede un giudizioso ricorso alla concisione in merito a ciò che viene affermato nelle sue voci o definizioni –, l’enciclopedia come progetto olistico di conoscenza è notoriamente più ampia e ricerca una maggior profondità analitica. L’enciclopedia come summa e riassunto del sapere, risale genealogicamente alle origini della nostra contemporaneità, in quelle colonne che vennero posate con il progetto illuminista europeo di D’Alembert e Diderot (Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, 1751-1766) o degli scozzesi Colin Macfarquhar e Andrew Bell (British Encyclopaedia, 1768-1771). In un periodo caratterizzato da una costante dialettica politica come il XIX secolo, la letteratura basata su una critica beffarda sviluppata dai detrattori dei Lumi metteva in scacco l’eccesso di descrizione concesso a concetti – per quanto innovatori – come quello economico del laissez-faire o delle allora contemporanee teorie politiche rivoluzionarie. Ancora oggi l’impresa enciclopedica è una missione audace.
La realizzazione di un’opera come questa è orientata intorno a concetti tanto vitali quanto lo possono essere l’idea di guerra o la forza trascendentale delle rivoluzioni, per giungere ad un approccio al tema che sia tecnicamente in grado di guidare gli sguardi concentrati sulle problematiche centrali care allo storico fedele alla tradizione, interessato ad osservare gli assi portanti, le questioni più rilevanti, le logiche sistemiche che si creano intorno a un’analisi categorizzante e tassonomica. Nella quarta di copertina gli organizzatori esplicitano la loro scelta affermando che «si tratta di opere complete, che presentano idee, movimenti, fatti e personaggi che hanno modellato l’inizio del secolo, tanto nel campo della politica e dell’economia, quanto nel campo delle arti e delle scienze». Non è pensabile affermare che ci sia stata una tematica durante il corso del XX secolo in grado di generare maggiore preoccupazione nelle menti – sia del popolo, sia delle élites – che i rischi e le opportunità delle rivoluzioni; allo stesso modo è difficile negare che le guerre siano state una costante durante l’intero secolo. La scelta – strategicamente posizionata tra la logica volta ad evidenziare gli elementi caratterizzanti di quei tempi e il riconoscimento della polisemia acquisita da tali termini per via della loro volgarizzazione – mostra la tenacia e l’eclettismo necessari per un lavoro di tale portata.
Il marchio concettuale di “rivoluzione” è impiegato nel suo significato originale, quello di mutamento e destrutturazione sociale o politica. Tuttavia, con l’evoluzione e l’uso costante, tale concetto finirà per abbracciare vari campi che trascendono la sua sola genesi politologica. Deve essere citata anche, a fronte di un simile eclettismo, la scelta di un linguaggio comprensibile e basato sull’utilità didattica dei riferimenti bibliografici per ulteriori approfondimenti. Ciò che sorprende, a distanza di dieci anni dalla prima edizione, sono l’audacia e la foggia di un’opera che non solo presenta la vivacità necessaria per rinnovarsi, ma che si sviluppa in tre volumi, proponendo in modo chiaro un approccio in segmenti periodizzanti per la comprensioni del “lungo” XX secolo. La riedizione dell’enciclopedia in quanto tale, in un’edizione più ampia e ambiziosa, indica la sorprendente vivacità delle opere di erudizione e della minuziosa analisi tecnica in sé, in tempi in cui l’informazione è accessibile, a portata di mano.
Il primo volume affronta in modo logico il primo momento della débâcle della belle époque, sottolineando i concetti e i termini fondamentali degli anni contraddittori del capitalismo liberale, degli imperialismi trionfanti e di una società peculiare – preconizzando, in un’epoca di autoregolazione, il termine della longeva capacità di esercizio critico di fronte al proprio tempo. Osservando il periodo compreso tra il 1901 e il 1919, emerge la preoccupazione per il preludio e lo schiudersi di un conflitto che avrebbe lasciato come eredità la fine dell’egemonia europea sul pianeta, per il clima di incertezza apportato dalla Grande guerra e dalle sue rovine, che inevitabilmente contraddistingue questo primo tomo.
Il secondo volume, incentrato sul periodo che va dal 1919 al 1945, discute uno dei periodi maggiormente indagati dalla storiografia contemporanea: l’epoca delle infruttuose trattative di pace, i “folli” anni Venti e la loro svolta radicale con la crisi del ’29, l’ascesa degli autoritarismi fascisti, le tragedie dell’olocausto e delle bombe atomiche, in quel contesto di insicurezza che avrebbe dato vita alle condizioni grazie alle quali lo scenario della Seconda guerra mondiale si sarebbe sviluppato in maniera inequivocabile, ponendo le condizioni per un nuovo ordine mondiale post-europeo dopo secoli di incontrastata egemonia. Gli anni che seguirono, tuttavia, non avrebbero mitigato la caratteristica che li avrebbe marcati: un terrore sviluppato per effetto delle minacce di violenza generalizzata come elemento fondamentale attraverso il quale comprendere le origini del nostro tempo.
Infine, con un maggior respiro, giustificato in funzione della maggior complessità degli studi storici, la fine dell’epoca dei grandi conflitti mondiali e i controversi tempi della Guerra fredda (1945-1991), oltre al già citato nuovo ordine mondiale, vengono trattati nel più voluminoso dei tre tomi. L’emergere di condizioni nuove e rivoluzionarie per l’ascesa della bipolarità sia sull’asse Nord-Sud sia su quello Ovest-Est, e successivamente temperate da quella rottura rappresentata dalla posizione terzomondista o non allineata, è considerata strutturale per la comprensione della guerra e della rivoluzione come elementi persistenti nella contemporaneità, anche attraverso nuovi campi come gli studi comportamentali, le epistemologie o il ruolo così intrigante e sensibile delle rivoluzione tecnologiche, che avrebbe sbilanciato le relazioni nel difficile e incerto avvio del XXI secolo.
La rilevazione di quella che è la forgia analitica dello storico, del politologo, del sociologo o dell’antropologo, dello specialista di studi internazionali e del giurista, ci distingue e ci rende in maniera costruttiva sempre di più lettori critici e globalmente attenti ai concetti, ai temi e ai problemi più rilevanti del corso dell’umanità relativamente a quel periodo storico. Il ruolo di sforzi onesti come questa Enciclopédia, nei suoi tre aggiornati volumi, è quello di espandere il carattere olistico di una simile discussione su temi di carattere storico, ma anche sul ruolo stesso del pensatore contemporaneo come costruttore di un interesse globale, antiutilitarista e unitario, che possa essere un lettore del tempo con una torcia in mano per aiutare ad orientarsi all’interno del dibattito pubblico. In tal senso, questa opera densa e fitta ci invita ad un’intensa passeggiata nella totalità come ad una questione propria delle Scienze umane, che non può essere affrontata da qualche viandante improvvisato e solitario, ma solamente attraverso il congiunto di una raccolta di idee.
Notas
1 Dicionário de Ciências Sociais, Rio de Janeiro, FGV, 1986.
2 OUTHWAITE, William, BOTTOMORE, Tom, Dicionário do pensamento social do século XX, Rio de Janeiro, Ed. Jorge Zahar, 1996.
Daniel Chaves – È professore associato di Storia Contemporanea presso l’Universidade Federal do Amapá (Unifap). Dottore in Storia comparata nel corso di laurea specialistica in Storia Comparata (UFRJ), è docente del Programa del corso di laurea specialistica Mestrado em Desenvolvimento Regional (PPGMDR) e ricercatore senior dell’Observatório de Fronteiras do Platô das Guianas (OBFRON) e del Círculo de Pesquisas do Tempo Presente (CPTP), entrambi afferenti all’Unifap.
O Futuro da Inovação – Usando as Teorias da Inovação Para Prever Mudanças no Mercado – CHRISTENSEN et al (CTP)
CHRISTENSEN, Clayton M.; SCOTT D. Anthony, ROTH, Erik A. O Futuro da Inovação – Usando as Teorias da Inovação Para Prever Mudanças no Mercado. Rio de Janeiro: Campus/Elsevier, 2007. Resenha de: RIBEIRO, Daniel Santiago Chaves. O Futuro da Inovação – Usando as Teorias da Inovação Para Prever. Cadernos do Tempo Presente, São Cristóvão, n. 06–06 de janeiro de 2012.
Tido como revolucionário na administração de empresas, o consultor Clayton Christensen, ph.D. em Economia e professor de Harvard, juntamente com os seus assessores diretos, avisa: não há formula mágica para o sucesso neste livro,2 e não há caminho simples para o que ele considera o elemento central de sobrevivência das grandes companhias no mercado globalizado: a inovação. A aplicação de novas ideias com sucesso – bem como o convívio dos outros elementos no contexto o qual o processo irrompe – é fundamental para a gestão perspicaz em futuro mais próximo, ou seja, o tempo presente. E estar preparado para quando as oportunidades ou intempéries surgirem, é tão significante quanto O mote que sugere a abordagem do autor norte-americano indica – seja no incentivo às oportunidades ousadas ou apoio à sobrevivência – formas mais inteligentes e eficazes de se relacionar com as mudanças e inovações do mercado. Esse comportamento decorre, invariavelmente, de relevo apropriado de teorias e conceitos adequados e funcionais ao invés do recolhimento de dados sistematicamente compilados e indicadores obsoletos que, via de regra, só se tornam confiáveis depois de consumada a transformação – isso quando não são sempre tidos como “escassos”. É a figura do rabo que abanaria o cachorro: as características explicativas e sintomáticas da realidade são tidas como um problema insolúvel e interminável.
Consequentemente, quando nos agarramos ao pragmatismo ilusório, as tendências não são compreendidas, o tempo de resposta se torna reduzido, a margem de manobra asfixiada e a gestão se vê comprometida. Tão perigoso quanto, ainda, é se agarrar na âncora do procedimento-padrão como salvaguarda furado, perdendo a dimensão do aprendizado histórico fundamental para reconhecer as lições do passado. Como dizem os próprios autores, mais importante do que correr atrás da bola, é correr na direção da bola.
Configura-se, no sentido de responder a algumas dessas questões, um esforço analítico de grande utilidade, reforçada com linguagem objetiva e simples, cujo diálogo flui com diversas expectativas disciplinares. Seja estrategista, empresário, diretor-executivo, acadêmico ou qualquer outro tipo de leitor que se depare com a necessidade de interagir dialeticamente com o que é novo, sem dúvida terá bom espaço de reflexão no trabalho de Christensen, Anthony e Roth. Discutindo precisamente a inovação como processo, os autores destacam que o grande desafio é saber distinguir o que é ruído do que é sinal do novo em um momento histórico cuja informação é abundante, quase sempre como uma avalanche no instável contexto que dá significado a essa informação.
Quando essa distinção já se consolida no texto, o binômio fundamental para compreender o trabalho surge de forma clara, como a chave inovadora de Christensen: a inovação disruptiva e a inovação sustentadora. Alguns traços tornam o primeiro tipo de inovação mais relevante ao nosso comentário – o que não necessariamente descarta a importância da segunda.
A inovação disruptiva, ou “disruptive innovation” é um termo que surge do conceito de “tecnologia disruptiva”, forjado por Christensen e Bower em 1995 na revista Harvard Business Review. Naquele momento, a inovação ainda não possuía o destaque prioritário do atual período, mas já se mostrava francamente incontornável na formulação de políticas públicas e de planejamentos estratégicos privados. Além disso, Christensen compreendeu que a inovação na gestão estratégica e desenvolvimento de modelo de negócios vêm antes da implementação tecnológica, o que sem dúvida deve ser bem observado nesse sentido.
Em termos gerais, a inovação disruptiva seria uma inovação decorrente de uma transformação ou introdução tecnológica diretamente relacionada a um serviço, produto ou mercado específico, que é/são reformulados (ou forjados) de modo a se reconhecer novos consumidores, inesperados ou simplesmente não considerados pelo mainstream em vigência. No seu par conceitual gêmeo – muitas vezes de difícil distinção -, a “inovação sustentadora” seria fundamentalmente o tipo de inovação que possibilita a satisfação imediata dos clientes em face de complexos problemas anteriores, a otimização da gestão dentro dos padrões estabelecidos ou a redução de custos e preços. Com franqueza, o autor afirma que a segunda é tão importante quanto a primeira, sendo muitas vezes lucrativa, estratégica e inclusive mais frequente. No entanto, a contrariedade evasiva e encabulada em relação à disrupção seria um erro tolo cometido por várias empresas, deixando de lado janelas de oportunidade, a mera sobrevivência ou a ingrata surpresa da derrota.
Além da telecomunicação (que, sem trocadilho infame, é o principal caso em debate, o fio condutor da explanação), os autores situam as assimetrias de recursos, processo e valores como a espinha dorsal da compreensão das transformações futuras, bem como da fricção entre empresas líderes e empresas emergentes. Enquanto capacitação e motivação são importantes índices primários de análise de mercado e cenários de transformação, é tão necessário quanto reconhecer as facilidades e oportunidades propiciadas por empresas baseadas em modelos de negócios de diferente natureza, ou ainda com franca disparidade nas suas proporções corporativas. Mesmo que essas assimetrias sejam não necessariamente o determinante básico para a detecção da disrupção, geralmente a valoração, míope ou clarividente, de determinadas grandes empresas é categórica para o futuro próximo em aceleração franca.
Conforme já apontou Christensen em várias declarações públicas à revistas e jornais, o Brasil é um país com diversas oportunidades onde paira o não-consumo apto para o salto da inovação disruptiva. A tenacidade absorvente dos quadros técnicos e acadêmicos, por sua vez abalizada por uma legislação que caminha objetivamente ao incentivo, é fundamental para um ambiente inovador no âmbito nacional. Ao contrário de uma expectativa primária, em princípio Christensen não é contrário à regulação, citando a experiência do DARPA norte- americano (Agência de Projetos e Pesquisa em Defesa Avançada) como caso de sucesso. Pelo contrário, a preparação para o start-up e o relacionamento com a inovação deve considerar objetivamente o relacionamento e a detecção inteligente sobre forças não-mercadológicas como sindicatos, padrões setoriais, normas culturais, estágio de desenvolvimento tecnológico e infraestrutura sobre propriedade intelectual, entre outros elementos.
Se observarmos atentamente a condição cada vez mais próspera do Brasil enquanto país emergente, com as políticas dos últimos governos em sintonia com empresas em franca internacionalização, é impreterível adequar os modelos de negócios a big wave da inovação. Não necessariamente a inovação disruptiva é temerária. Sem mesmice, sem mecanicismo ou rotinas envelhecidas, é preciso estar atento às transformações que acontecem nas margens do sistema, aparentemente fora do alcance do topo da cadeia. O distanciamento pode gerar a calcificação desses topos de cadeia gerencial, afastando o novo e tornando-se obsoletas no seu modelo de gestão. É necessário, nessa leitura, saber conviver com a inovação e a disrupção de forma a desenvolver redes capacitadas com valor a gerir as transformações setoriais e recriar os mercados.
Notas
2 Clayton M. Christensen, Scott D. Anthony, Erik A. Roth. O Futuro da Inovação – Usando as Teorias da Inovação Para Prever Mudanças no Mercado.Rio de Janeiro: Campus/Elsevier, 2007.
Referência
CHRISTENSEN Clayton M., SCOTT D. Anthony, ROTH Erik A. O Futuro da Inovação – Usando as Teorias da Inovação Para Prever Mudanças no Mercado. Rio de Janeiro: Campus/Elsevier, 2007.
Daniel Santiago Chaves Ribeiro – Professor de História Contemporânea da empresa Universidade Federal do Amapá.
Impérios na história | Francisco Carlos Teixeira da Silva, Ricardo Pereira Cabral e Sidnei J. Munhoz
SILVA, Francisco Carlos Teixeira da; CABRAL, Ricardo Pereira e MUNHOZ, Sidnei J. Impérios na história. Rio de Janeiro: Campus; Elsevier, 2009. Resenha de: CHAVES, Daniel Santiago. Revista Maracanan. Rio de Janeiro, v.5, n.5, p.203-205, 2009.
Paisagens da história. Como os historiadores mapeiam o passado | John Lewis Gaddis
Resenhista
Diogo da Silva Roiz
Referências desta Resenha
GADDIS, John Lewis. Paisagens da história. Como os historiadores mapeiam o passado. Trad. Marisa Rocha Motta. Rio de Janeiro: Campus, 2003. Resenha de: ROIZ, Diogo da Silva. Como os historiadores escrevem a história das sociedades passadas? História Debates e Tendências. Passo Fundo, v. 7, n. 1, p. 217-223, jan./jun. 2007. Acesso apenas pelo link original [DR]
Prometeu desacorrentado: transformação tecnológica e desenvolvimento industrial na Europa ocidental/de 1750 até os dias de hoje | S. Landes David
O título do livro, em português, é impreciso: trata-se de um Prometeu unbound, isto é liberado, não unchained. Isso não muda o valor da segunda edição deste clássico, agora com novo prefácio e epílogo; no resto, o livro permanece igual ao texto de 1969, originalmente um ensaio da Cambridge Economic History (1965). David Landes, emérito de Harvard, já tinha feito um complemento a Adam Smith, em A riqueza e a pobreza das nações (Campus, 1998), superbo nos desenvolvimentos globais, mas falho no que toca à América Latina e ao Brasil, vistos pela ótica enviesada da (“esqueçamo-que-escrevi”) teoria da dependência de FHC.
O titã liberado refere-se ao sistema fabril: seu aparecimento, na Inglaterra, chocou Marx, que condenou a vil exploração do proletariado. Ele ainda não tinha visto nada, pois a China, até ali a maior economia, modorrava na imobilidade industrial, só voltando a praticar a abjeta exploração mais de dois séculos depois. Hoje, as fábricas chinesas não se distinguem, pelas condições de trabalho, das manufaturas de Manchester do século XIX, mas as marcas são ocidentais. A história é européia, mas esse Prometeu desajeitado que é a grande indústria leva seus grilhões ao mundo, o que desespera os antiglobalizadores, mas encantaria Marx, que confiava no papel revolucionário do capitalismo para destruir as “muralhas da China”, o despotismo asiático e os reinos bárbaros do Oriente. Leia Mais
Paisagens da História – Como os historiadores mapeiam o passado | John Lewis Gaddis
A historiografia é abordada como tema nessa obra de John Lewis Gaddis, que consiste em um conjunto de conferências proferidas por ele na Examination Schools em High Street. Influenciado por Marc Bloch e E. H. Carr, o autor discute o papel do historiador e seus métodos, visando a uma complementação e reflexão embasada no pensamento desses autores. Isso é feito de modo interessante e original, com o levantamento de questões – como o objeto de estudo desses profissionais, seu modo de pensar e analisar a realidade – cuja discussão é permeada por exemplos advindos desde a história, até as artes – como a pintura, a literatura e o cinema –, e pelo uso de metáforas; recursos, esses, que facilitam o entendimento e entretêm a leitura.
A discussão se inicia com a análise da pintura O viajante sobre o Mar de Névoa, de Casper David Friedrich, que desencadeia uma reflexão sobre a posição do historiador em relação ao seu objeto. Ele, assim como o personagem do quadro, observa os acontecimentos com o distanciamento que o tempo exige, uma vez que o passado chega até nós inacessível, sendo somente possível sua representação pelos artefatos sobreviventes. Esta pode ser feita sob um prisma mais amplo, quando comparado ao daqueles que viveram a experiência, já que o historiador pode variar entre o geral e o particular, fazendo uso também das diferentes escalas de tempo e espaço, conforme for necessário. Dessa forma, para o autor, o que deve ser buscado é uma abstração, não uma descrição literal dos eventos ocorridos. A história deve ser como um mapa: que simplifica a realidade, destacando aspectos de acordo com o que se pretende compreender e explicar. Leia Mais
Os protagonistas anônimos da História: micro-história – VAINFAS (RBH)
VAINFAS, Ronaldo. Os protagonistas anônimos da História: micro-história. Rio de Janeiro: Campus, 2002. 115pp. Resenha de: GUIMARÃES, Lucia Maria Paschoal. Revista Brasileira de História, São Paulo, v.23, n.45, july 2003.
No Brasil, o ensino universitário de história ainda carece de boa bibliografia teórica produzida por autores nacionais, em que pese o número crescente de traduções de especialistas estrangeiros. A boa repercussão alcançada pelo livro Domínios da História (org. Ciro Flamarion Cardoso e Ronaldo Vainfas, Campus, 1997), certamente deve ter estimulado o professor Ronaldo Vainfas a fazer uma nova incursão na área de teoria e metodologia da história. Melhor dizendo, a aprofundar algumas reflexões que deixara encaminhadas ao concluir aquela obra, que nos últimos anos tornou-se referência no ensino da disciplina. Refiro-me ao recém-lançado Os protagonistas anônimos da História: micro-história, onde Vainfas examina esse gênero historiográfico surgido na Itália, a propósito da coleção dirigida por Carlo Ginzburg e Giovanni Levi, denominada Microstorie, publicada pela editora Einaudi, entre 1981 e 1988. Vale lembrar que a micro-história opera com escala de observação reduzida, exploração exaustiva de fontes, descrição etnográfica e preocupação com a narrativa literária. Neste sentido, contempla, sobretudo, temáticas ligadas ao cotidiano de comunidades específicas — referidas geográfica ou sociologicamente —, às situações-limite e às biografias ligadas à reconstituição de microcontextos ou dedicadas a personagens extremos, geralmente vultos anônimos, figuras que por certo passariam despercebidas na multidão. O certo é que essa corrente historiográfica foi muito mal compreendida, ora tomada como história cultural, ora confundida com a história das mentalidades e com a história do cotidiano. Ou, então, percebida como expressão típica de uma história descritiva, de viés marcadamente antropológico, que renunciou ao estatuto científico da disciplina, invadiu o território da literatura, rompendo de vez as fronteiras da narrativa histórica com o ficcional. Não seria exagero afirmar que ainda hoje a micro-história carrega o estigma de história menor, atacada principalmente pelos defensores dos modelos macrossociais de análise. Mas, como afirma Hans Medick, rebatendo tais críticas, se small is beautiful isto não significa banalizar a história, nem desconectá-la de contextos mais amplos.
Ronaldo Vainfas dispõe-se a desfazer essa intrincada teia de equívocos. E, de fato, alcança seu intento. Assim, no primeiro capítulo, apresenta um panorama da trajetória dos estudos históricos no século XX, detendo-se especialmente na historiografia francesa tributária do movimento de Annales. Dialoga com este quadro conceitual para demonstrar o que a micro-história não é, evidenciando as razões pelas quais a prática microanalítica não pode ser definida apenas em função dos temas de pesquisa, mas sim em relação a seus objetos e às metodologias por ela utilizadas. Desfeito didaticamente o imbroglio, o autor parte para identificar O berço da micro-história (capítulo 2), mostrando as linhagens dessa vertente historiográfica praticada por historiadores italianos, franceses, ingleses e norte-americanos, com ênfase no papel desempenhado pelos italianos e na importância da revista Quaderni Storici e da mencionada coleção Microstorie. Resgatadas as origens teóricas, o autor parte para exemplos concretos. No capítulo terceiro — A micro-história em cena, resume alguns enredos de livros emblemáticos do gênero, a começar pelo clássico O queijo e os vermes, de Carlo Ginzburg, seguindo-se de O retorno de Martin Guerre, de Natalie Zenon Davis; Atos impuros, de Judith Brown, e A herança imaterial, de Geovannni Levi. Essas breves sínteses servem de mote para o exame do modo como se opera a narrativa microanalítica e a discussão das fronteiras que a separam da narrativa ficcional. Em seguida, no capítulo quarto, sugestivamente denominado A micro-história nos bastidores, privilegia o estudo do aparato conceitual empregado pela micro-história, a escolha de temas, a problemática da redução de escala na descrição densa, bem como a delimitação dos objetos de estudo em termos de espaço e de temporalidade. Finalmente, à guisa de conclusão, o professor Vainfas aponta os contrastes entre as abordagens macrossociais e as microanalíticas, discute as possibilidades e os limites de compatibilização entre ambas, oferecendo ainda uma extensa bibliografia comentada, com tudo já que se publicou no País a respeito da microanálise, inclusive trabalhos de historiadores brasileiros que fizeram incursões no gênero.
Longe de fazer proselitismo em defesa do gênero, Vainfas aproxima-se dos encaminhamentos propostos pela historiadora norte-americana Natalie Zenon Davis, um dos ícones da micro-história. Segundo Davis, é inquestionável a natureza complementar dos dois tipos de análise. A tarefa que se impõe aos estudiosos consiste, pois, em investigar métodos de interpretação e de narrativa que possam dar conta no texto escrito do entrecruzamento e das tensões entre o pequeno e o grande, entre o social e o cultural. Ou, que venham a explorar as conexões possíveis entre esses dois níveis de experiência historiográfica, conforme sugere Georg Iggers na sua mais recente contribuição, Historiography in the twentieth century: from scientific objectivity to the postmodern challenge. Seja como for, estudantes e pesquisadores, sem dúvida, irão se beneficiar da leitura dessa obra assentada em sólida argumentação teórica, mas de exposição agradável, repleta de exemplos e de comentários bem-humorados.
Lucia Maria Paschoal Guimarães – Universidade do Estado do Rio de Janeiro.
[IF]Micro-história. Os Protagonistas Anônimos da História | Ronaldo Vainfas
Em 1997, a Editora Campus lançou uma obra que reunia uma série de ensaios gerais sobre teoria e metodologia, analisando os percursos, os principais conceitos e o debate em diversos campos da prática historiográfica. O livro “Domínios da História”2 , organizado pelos professores da Universidade Federal Fluminense, Ciro Flamarion Cardoso e Ronaldo Vainfas, logo se tornou referência em cursos de Graduação e Pós-Graduação, 3 ao revelar-se um importante instrumento de trabalho para professores e pesquisadores.
Naquela obra, além da Conclusão, em que avaliava os “caminhos e descaminhos da história”, Ronaldo Vainfas foi também responsável pelo capítulo intitulado “História das Mentalidades e História Cultural”, texto no qual elaborou reflexões que, de certa forma, acabaria por retomar e ampliar neste seu “Micro-história. Os Protagonistas Anônimos da História”, lançado pela mesma Campus em 2002. Leia Mais
O Capital em Jogo: fundamentos filosóficos da especulação financeira | Gilson Schwartz
W. Rostow sugeriu certa vez que o socialismo era apenas uma moléstia do crescimento do capitalismo. Retrospectivamente, isso parece correto. Contudo, para os que viveram os anos seguintes à Revolução Russa de 1917 e, mais ainda, os da Grande Depressão, as coisas se apresentavam de modo muito diferente. John Maynard Keynes foi um deles e dos mais brilhantes. Os fantasmas da depressão, diretamente, e da revolução, indiretamente, rondam atrás do seu Tratado Geral, publicado em 1936.
A economia política encarava as depressões como uma fase do ciclo econômico que se esgotava, a longo prazo, pela ação dos mecanismos de reativação do próprio mercado. A melhor tirada de Keynes “a longo prazo, estamos todos mortos” sintetizou a sua crítica devastadora à teoria clássica sobre o desemprego e funcionou como bandeira do paradigma emergente de administração anticíclica da demanda. O Tratado Geral ensinou os governos a regular os mercados ao longo do ciclo e assinalou o nascimento da política econômica. Nos limites do raciocínio contrafactual, é razoável argumentar que o keynesianismo salvou o capitalismo do abismo da depressão e, por essa via, “provou” o erro de Karl Marx. Leia Mais
Geschichte sehen / Jörn Rüsen
Ver a história é o título de uma obra coletiva, organizada por Jõrn Rüsen, Wolfgang Ernst e Heinrich Theodor Grütter (Geschichte sehen. Beitràge zur Àsthetik historischer Museen. Pfaffenweiler: Centaurus, 1988, 171+XXV pp.), que debate as questões referentes à apresentação de conteúdos históricos em museus e sua função social-pedagógica. A representação mental da memória e da consciência históricas é analisada desde a perspectiva do ideário presente nas mentalidades e nas organizações sociais que se pensam e expõem, mediante critérios de escolha de temas, objetos, textos e espaços.
Encenar a história como um espetáculo, como um espelho, torna-se um problema teórico e metodológico que ultrapassa o âmbito do gosto, da afetividade, da emoção. A conjuntura da construção da identidade e da especificidade dos grupos sociais mediante a elaboração da consciência histórica toma, na decisão de fazer museus e de preservar indícios [como no conservacionismo arqueológico], uma dimensão que mescla critérios político-administrativos e posições teórico- metodológicas. O mesmo vale para as exposições temporárias, da qual é exemplo a organizada em Munique, de 22 de outubro de 1993 a 27 de março de 1994, sobre München – Hauptstadt der Bewegung (Munique —A capital do movimento), cujo catálogo (485 pp.) não é uma mera descrição de peças expostas e logradouros da cidade, mas um livro de reflexão sobre a realidade social e econômica da Alemanha e sobre a consciência alemã na primeira metade do século XX, que levou (ou tornou possível que se levasse) ao surgimento do nazismo e à consagração da capital da Baviera como a capital do “movimento”. Numa e noutra obra reflete-se de modo esclarecedor sobre as três dimensões da cultura histórica: a política, a científica e a estética, ou seja: o poder, a verdade e a beleza, indispensáveis à qualificação social de histórias que tencionam ter efeito sobre a realidade concreta dos homens.
Ver a história exprimiria, assim, a sintonia suposta (e esperada) entre o mostrado (ou escrito) e o observador (ou leitor), na medida em que as três dimensões encontrariam, na exposição e na compreensão, inteligência comum.
A preocupação com a enunciação e a exposição do pensamento histórico enquanto formador e formulador de identidade social é uma constante na segunda metade do século XX. Os historiadores de língua inglesa e alemã sempre manifestaram interesse especial pelas questões teóricas e metodológicas.
Desde os anos 1960 vem sendo intensa a dedicação a essas questões, em particular ao desenvolvimento da história social e das idéias. A renovação também da história política a que os Anna/es e seus descendentes decerto não são estranhos — reforçou essa tendência. A constituição da história como ciência social e a garantia de sua cientificidade foram objeto de textos que marcaram de forma indelével a prática da ciência histórica no espaço de língua alemã (e mesmo inglesa), como Geschichte ais Sozialwissenschaft, editada pelo historiador social alemão Hans-Ulrich Wehler, em 1973. O crescimento da reflexão teórica sobre os fundamentos da história acelerou-se nos anos 1970 com a formação de amplo grupo de trabalho reunindo filósofos, historiadores, sociólogos, literatos, antropólogos, politólogos e outros (não apenas alemães, mas também ingleses e americanos). Do trabalho desses especialistas resultou uma série de seis volumes de excepcional qualidade, sob o título geral de Theorie der Geschichte, publicado pela dtv wissenschaft, de Munique, entre 1974 e 1990, com os seguintes temas: “Objetividade e partidarismo na ciência histórica”, “Processos históricos”, “Teoria e narrativa na história”, “Formas da historiografia”, “Método histórico” e “Todo e parte”. A tônica desses trabalhos está na pluralidade de abordagens e na interdisciplinaridade, em torno do eixo sistematizador da história social. Jõrn Rüsen, um dos principais formuladores da teoria contemporânea da história, publicou — entre 1983 e 1989 — a mais completa síntese em teoria e metodologia da ciência histórica, sob o título geral de Elementos de uma teoria da história e em três partes: Fundamentos da ciência histórica, Reconstrução do passado: os princípios da pesquisa histórica e Fíistória viva: formas e funções do saber histórico (Gõttingen: Vandenhoek & Ruprecht).
Rüsen concentra-se no caráter racional e seletivo, valorativo e orientador que a elaboração do conhecimento histórico, sob o rigor do método e da pesquisa empírica controlada, possui.
O principal foro de repercussão e valorização das opções teóricas e metodológicas da ciência histórica vem sendo, desde 1962, a revista History and Theory (Wesleyan University, Middletown, Conn., EUA), que tem hoje, entre seus editores, I. Berlin, R. Koselleck, J. Rüsen, A. Danto, J. Passmore, P. Veyne, W. Dray, H. White e J. Topolski. A contribuição da revista para a libertação da ciência histórica de sua fase empirista, descritiva, foi decisiva. Inúmeros equívocos clássicos, como o da confusão entre estilo narrativo e desqualificação da história como ficção pararomanesca, puderam ser desmascarados e superados nas páginas de Hayden White, por exemplo.
Conexo com a questão teórica e com a perspectiva social- pedagógica da exposição do juízo histórico descritivo e explicativo, há um importante aspecto adicional que se destacou, nos últimos quinze anos. Também ele tem a ver com o produto historiográfico constituído e com seu efeito social na comunidade. Trata-se do caráter didático-pedagógico do saber histórico. Com o Manual da didática da história (Handbuch der Geschichtsdidaktik. Düsseldorf: Schwann, 1a edição: 1979; 3a edição: 1985), organizado por K. Bergmann, A. Kuhn, J. Rüsen e G. Schneider, busca-se ultrapassar a freqüente torre de marfim em que a história se encastela, para dar à historiografia uma dimensão a que não pode ficar alheia: a de co-autora da identidade e do processo de constituição dos grupos sociais. Assim, o Manual abre com a apresentação da história como meio ambiente mental dos homens em sociedade, passa por sua consolidação como ciência de rigor, debate longamente o papel e a função da história no ensino escolar e na preparação de seus docentes e conclui pela análise da presença da história no espaço público fora das trincheiras formais das escolas e das universidades. Esse tipo de reflexão potencializa o papel social do conhecimento histórico na perspectiva de sua relevância para a definição mesma do agente racional humano no contexto de seu mundo (de seu espaço de vida, de pensamento, de ação): pensar-se a si próprio e a seu mundo, historicamente, é constituir-se e a ele. A realidade (re)construída pelo saber histórico revela, assim, o caráter antropológico do mundo pensado, descrito e explicado. Sentir a história dessa forma, tomar-lhe o pulso, é — para um número crescente de historiadores — uma tarefa que vai além da pesquisa e da elaboração de uma monografia.
A queda do muro de Berlim e a súbita necessidade de (re)encontrar-se o sentido e a direção dos alemães em sua vertiginosa história contemporânea ofereceram ocasião para um sem-número de estudos e publicações. Muitos relevam análise política e das relações internacionais. Um, contudo, da registra o quanto essa circunstância da vida da Alemanha fez recrudescer o interesse pela história, já que o passado e o presente da sociedade alemã e de seu contexto social, político e econômico são tão carregados de episódios complexos e de repercussão mundial. Interesse an der Geschichte (Interesse pela história. Org. por Frank Niess. Frankfurt—Nova York: Campus, 1989, 144 pp.) acolhe posições de historiadores alemães de renome, que se dedicam a esmiuçar a complicada relação, para os alemães, entre consciência, explicação histórica e responsabilidade social coletiva. A “catástrofe alemã” do nazismo e da ruptura social subseqüente à “organização” da guerra fria, cuja fronteira cortava a Alemanha em duas, constituíra-se em um ponto nevrálgico da consciência histórica que, após inúmeras polêmicas, desembocou na maior delas, em 1986. Esta ficou conhecida como o Historikerstreit (a polêmica dos historiadores), cujo teor foi a superação de um tipo de ser alemão e de fazer-lhe a história que rompesse com o período 1933-1945. A “catástrofe alemã” (W.Schulze), o “aprendizado da história” (K.-E. Jeismann), a história como “objeto de exposição” (G. Korff), a mulher na história e a história das mulheres (G. Bock), o esclarecimento [no sentido do fluminismo] e a instituição do sentido (H.-U. Wehler), a continuidade e a ruptura da identidade (J. Rüsen) e outros temas candentes fizeram da história, para o dia-a-dia dos alemães, algo de interesse prático e imediato, conquanto ainda não ao ponto de tornar os livros de história tão lidos “popularmente” (não confundir com vulgarização ou pseudohistória) como na França. O componente histórico, como elo de coesão e estruturação da consciência de si, aparece, assim, como o interesse mesmo de sua constituição racional, individual e social: “Uma ciência histórica orientada por idéias da Aufklárung, formuladas em sintoma com a atualidade, pode contribuir para enunciar um saber orientador racional, fundado historicamente” (H.-U. Wehler).
Ficam referidas aqui, pois, algumas leituras que trazem contribuição renovadora e inovadora para o campo da ciência histórica e de seus desdobramentos, para bem além do espaço lingüístico alemão. Há certa dificuldade, para nosso público, em ponderá-las, justamente por se tratar de livros publicados em alemão, língua de uso pouco freqüente entre os historiadores no Brasil. Alguma coisa das contribuições desses autores tem versão inglesa (traduções integrais e, no mais das vezes, artigos publicados na History and Theory), o que pode ajudar no acesso aos textos.
Nota
1. A produção historiográfica contemporânea é tributária da revolução metodológica original e originária da escola dos Annales; como aqui não se dá notícia específica dela, remete- se, para um balanço sucinto e sob as categorias derivadas da investigação da superação do Antigo Regime, a Peter Burke: A Escola dos Annales 1929-1989. A Revolução Francesa da historiografia. São Paulo, Editora UNESP, 1991 (orig. francês: 1990).
Estevão C. de Rezende Martins – Universidade de Brasília.
RÜSEN, Jörn; WOLFGANG, Ernst; GRÜTTER, Heinrich Theodor (Org.). Geschichte sehen. Beitràge zur Àsthetik historischer Museen. Pfaffenweiler: Centaurus, 1988, 171p. Resenha de: MARTINS, Estevão C. de Rezende. Ver, sentir, fazer a história. Textos de História, Brasília, v.2, n.4, p.175-180, 1994. Acessar publicação original. [IF]