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I sepolti vivi / Gianni Rodari e Silvia Rocchi
Giane Rodari nell’ URSS, 1979. La Repubblica /
“Sotto terra va il minatore, /Dove è buio a tutte le ore “. Sono versi di Gianni Rodari inseriti in I luoghi dei mestieri, ( Torino, Einaudi, 1960), una filastrocca fatta per i bambini, per la scuola, per imparare e anche per divertire. Ma alle spalle di quei versi, come spesso gli accadeva, c’era una storia vera. Alcuni anni prima, nel 1952, nelle vesti di cronista del settimanale “Vie nuove”, egli aveva raccontato lo sciopero dei minatori di Cabernardi, provincia di Ancona, la più grande miniera di zolfo d’Europa. Lì 300 persone si erano asserragliate a 500 metri di profondità per difendere il loro lavoro. Con la diligenza del cronista il giovane Rodari indica i fatti, elenca i numeri, traccia un quadro della politica industriale del colosso Montecatini nel contesto della nuova Europa: produttività, modernizzazione…
Ma a un certo punto del racconto abbandona il filo della cronaca e segue la storia di Ernesto e Maria, due giovani sposi, separati dallo sciopero. Lui chiuso nelle viscere della terra, lei tenuta lontana dalle cure per il loro bambino e per il vecchio padre, ma anche dalla pressione delle forze dell’ordine che impedivano contatti diretti, rendendo pesante perfino la consegna del cibo. Rodari concentra l’attenzione su come quei giovani stessero vivendo non un’avventura, né una disgrazia, ma l’impegno per fare del proprio lavoro il mezzo con cui costruire Il loro futuro. Ma anche il loro disperato bisogno di vedersi, solo per uno sguardo, per una parola e immagina Ernesto rischiare la lunga, faticosa e pericolosa risalita per una ’uscita di sicurezza’ dalla miniera, non controllata dalla polizia perché ritenuta impraticabile. Un cunicolo da percorrere a tratti strisciando, fatto di gradini appena accennati e addirittura di arrampicate con funi, lungo un percorso che sembrava non finire mai e sempre con un rischio incombente. Scrive Rodari : “Cinque ore di strada per nulla fece Ernesto Donini, un giovane minatore di Pergola, domenica, ventidue giugno. Voleva rivedere la moglie, dopo ventiquattro giorni, almeno per un istante. Maria non c’era. Ernesto gridò a qualcuno che l’andasse a chiamare, forse stava attorno alla miniera. Ma alla fine dovette rassegnarsi e ridiscendere”. Per trovarsi all’appuntamento convenuto, la giovane moglie aveva lasciato il bambino di un anno al vecchio padre dalla salute malferma e aveva percorro 12 km a piedi. Ma, al momento opportuno, la polizia impedì loro di incontrarsi e anche solo di parlarsi.
Così Rodari racconta ciò che non era visibile della lotta operaia: l’umiliazione, con cui chi ha il potere cerca di sfibrare la resistenza di chi potere non ne ha.Hanno fatto bene Ciro Saltarelli e Silvia Rocchi a riprendere e valorizzare questo vecchio reportage, costruendo un libro ( Gianni Rodari, Sepolti vivi, da un’idea di Ciro Saltarelli e illustrazioni di Silvia Rocchi, con un pensiero di Gad Lerner, Torino, Einaudi, 2020) che grazie ai disegni di Silvia Rocchi permette di tornare a riflettere con più calma sul senso del lavoro di Rodari. Perché questo libro non parla del passato. L’umiliazione come strumento di oppressione, oggi più che mai, è all’ordine del giorno in tutte le latitudini della terra. Ma attuale è anche l’impegno per combatterla. E su questo versante l’opera di Rodari è preziosa. Per comprendere l’importanza di quello che era pur sempre uno dei tantissimi episodi di conflittualità economico-sociale dei cruciali anni 50, occorre ricordare che erano passati solo pochi anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana con al primo articolo il suo fondamento nel lavoro.Se per difendere il salario era necessario ricorrere a forme di lotta che mettevano a rischio la salute e la vita; se la polizia interveniva rendendo più difficile la resistenza, parteggiando così per una delle parti in conflitto, allora cos’era cambiato rispetto al fascismo? Quale discontinuità aveva introdotto l’assetto repubblicano? Qual era il senso vero della Repubblica fondata sul lavoro?Era chiaro che le recenti conquiste politiche non erano la fine, ma solo l’inizio di un nuovo cammino. Di un lungo cammino, per il quale necessitavano forze nuove e nuovi strumenti. Era questo il fronte su cui Rodari impegnò tutta la sua forza creativa. Lo disse espressamente presentando La grammatica della fantasia (1972): insegnare “tutte le parole a tutti, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.
Il senso politico del lavoro narrativo dedicato ai bambini di Rodari non sta nel denunciare ingiustizie dolore e umiliazione di chi lavora, né di dare voce a chi non l’ha mai avuta. Molto più radicalmente egli elabora strumenti di lotta, mezzi che servano a chi li usa per difendersi e contrastare chi fa della parola e della cultura uno strumento di dominio. E come campo di battaglia scelse, lui maestro elementare, la scuola e i bambini che la vivevano. A loro ha dedicato la vita, scrivendo cose la cui bellezza da sola testimonia amore e dedizione. Così come, in questo testo, le tavole di Silvia Rocchi.
Franco Martina
Link per acquisto del libro: https://www.edizioniel.com/prodotto/i-sepolti-vivi-9788866566243/
RODARI, Gianni. I sepolti vivi. Da un’idea di Ciro Saltarelli. Illustrazioni di Silvia Rocchi. Resenha de: MARTINA, Franco. L’attualità di Gianni Rodari: “Insegnare le parole a tutti, perché nessuno sia schiavo”. Clio’92, 13 dic. 2020. Acessar publicação original
La peste nella storia / William McNeill
William Hardy McNeill / Foto: Wikipedia /
Questo libro di William Hardy McNeill, scrittore canadese, storico ed esponente della global history (1917-2016), propone un’ampia ricostruzione degli incontri dell’umanità con le malattie infettive al fine di dimostrare come il variare della circolazione epidemica abbia da sempre influito sulle vicende umane e come il ruolo di tali malattie sia stato e rimanga fondamentale per l’equilibrio della Natura.
L’ analisi è basata sul parallelismo tra il microparassitismo degli agenti patogeni e il macroparassitismo dei grossi predatori, i più importanti fra i quali sono sempre stati gli esseri umani. Sia i micro che i macroparassiti hanno interesse a spremere risorse dalle loro vittime. Ma quando esagerano e le uccidono, finiscono per soccombere, a loro volta, per mancanza di cibo.
Le civiltà devono dunque trovare e mantenere il giusto equilibrio tra queste due categorie di parassiti, ripristinandolo quanto prima, in caso di alterazioni dall’esterno, pena la loro estinzione.
Le sofferenze e l’annientamento di intere popolazioni a causa delle pandemie sono documentate fin dai tempi più antichi da fonti provenienti da civiltà come quelle mesopotamiche, quella egizia e quella cinese. McNeill ne fa un’analisi approfondita compensando con ipotesi e speculazioni ben argomentate la mancanza di sufficienti prove relative ad alcune aree del mondo e scegliendo una periodizzazione che dal Paleolitico si articola in sei fasi, corrispondenti ad altrettanti capitoli del testo, corredati ciascuno da un notevole apparato di citazioni bibliografiche. Un’interessante introduzione spiega la genesi del libro a partire dagli interrogativi posti dalla conquista spagnola dell’impero Azteco da parte di un esiguo gruppo di uomini. In appendice un elenco di epidemie verificatesi in varie zone della Cina dal 243 a.C.al 1911 d.C.
L’uomo cacciatore
L’habitat naturale dei primi uomini del Paleolitico era quello delle foreste pluviali africane, popolate da molti parassiti monocellulari capaci di vivere in modo indipendente, senza bisogno di sfruttare l’organismo di un qualunque ospite. Tali ambienti mantennero un buon equilibrio naturale tra predatori e prede, fino all’acquisizione da parte degli esseri umani di nuove tecniche che, condivisibili grazie all’acquisizione del linguaggio, permettevano loro di organizzarsi in gruppo e di cacciare i grossi predatori erbivori delle savane africane. Lo sfruttamento di risorse prima inaccessibili proiettò gli esseri umani al vertice della catena alimentare, senza mutare radicalmente il sistema dentro al quale si erano evoluti. Risultati molto più evidenti si verificarono quando si spostarono in ambienti caratterizzati da climi freddi e asciutti, dove il problema non era rappresentato dai microparassiti, molto meno numerosi ma dai macroparassiti.
I cacciatori riuscirono a sopravvivere imparando ad addomesticare il fuoco e a coprirsi con le pelli degli animali, ma quando le risorse di selvaggina si esaurirono, inevitabili furono le crisi di sopravvivenza in varie parti del mondo, crisi rese ancor più gravi da radicali mutamenti climatici a partire dal 20.000 a.C. L’ingegnosità umana trovò allora nuove strategie per vivere: lo sfruttamento delle coste marine con lo sviluppo della pesca e la raccolta di semi commestibili diede poi vita all’agricoltura, permettendo un rapido aumento demografico e favorendo in breve tempo la nascita di centri urbani.
L’affiorare alla storia
Pastori e agricoltori alterarono gradualmente i diversi ambienti, riducendone la varietà biologica ed accorciando le catene alimentari con il conseguente aumento dei microorganismi patogeni, invisibili all’occhio umano, a differenza dei macrorganismi.
Le colture irrigue ad esempio crearono una situazione climatica simile a quella delle foreste pluviali favorevole alla trasmissione di parassiti patogeni alla popolazione rurale.
L’intelligenza umana si attivò anche in questo caso elaborando prescrizioni dietetiche, come il divieto di mangiare carne di maiale presso ebrei e musulmani, e sanitarie, come l’espulsione dei lebbrosi dai villaggi, nel tentativo di arginare le malattie infettive.
La maggior parte di esse, il morbillo ad esempio, il vaiolo o l’influenza, furono trasmesse alle popolazioni umane da animali domestici oppure furono la conseguenza dell’inserirsi degli umani in un processo patologico presente fra gli animali selvatici, come nel caso della peste bubbonica, della febbre gialla e dell’idrofobia.
Dopo un lungo e continuativo contatto tra gli agenti patogeni e l’uomo, le infezioni virali e batteriche divennero endemiche in alcune società che acquisirono la capacità di resistere ai contagi (immunità di gregge), ottenendo in tal modo un grande vantaggio nell’ incontro con altri gruppi umani più semplici e sani destinati a soccombere per l’azione associata della malattia e della guerra.
Fusione dei serbatoi di virus delle aree civili dell’Eurasia: 500 a.C. -1200 d.C.
Durante il primo millennio a.C. si verificò una stabile condizione di equilibrio fra macro e microparassitismo nei tre più importanti centri di insediamento umano: la Cina, l’India e il bacino del Mediterraneo. Ciò permise una costante crescita demografica e un’espansione territoriale a ciascuna di queste civiltà, che avevano sviluppato un proprio serbatoio di virus capace di diventare letale solo se libero di diffondersi presso popolazioni prive di immunità.
Questo accadde a partire dal I secolo d.C. quando i viaggi di terra e di mare dalla Cina e dall’India fino al Mediterraneo divennero sempre più frequenti, con il conseguente scambio non solo di merci, ma anche di infezioni tra le varie civiltà. L’esposizione a nuovi agenti patogeni ebbe ben poco effetto in India, in Cina o anche nelle zone insulari del mondo, mentre l’incessante verificarsi di scoppi di gravi pestilenze fu una delle concause ad esempio della caduta dell’Impero Romano d’Occidente.
Il Mediterraneo, i cui porti furono regolarmente colpiti dalle pestilenze, fu successivamente sostituito come centro di civiltà dai paesi europei più settentrionali, meno depauperati delle proprie risorse e avvantaggiati da una serie di innovazioni delle tecniche agricole che favorirono un notevole aumento della popolazione.
L’influsso dell’impero mongolo sul mutamento degli equilibri delle malattie:1200-1500
La peste nera del 1346 ridusse di un terzo la popolazione europea. Responsabile di tale infezione era la Pasteurella pestis, bacillo scoperto solo nel 1894, trasmesso agli umani dalle pulci dei roditori presenti nelle steppe euroasiatiche che ne erano cronicamente infette.
La peste giunse in Europa grazie alle piste carovaniere che attraversavano l’Asia, percorse da mercanti, corrieri postali ed eserciti. Dalla Crimea il bacillo salì poi a bordo delle navi, si diffuse in tutti i porti del Medio Oriente e d’Europa e da lì verso l’entroterra.
Molte furono le conseguenze di questa epidemia: psicologiche (paura della morte, colpevolizzazione degli Ebrei, ricorso a rituali o processioni come quelle dei flagellanti), culturali (la decadenza del latino in seguito alla morte di molti chierici e la diffusione delle lingue vernacolari, la danza macabra come tema ricorrente in pittura, una nuova spinta al misticismo), economiche (aspri scontri fra classi sociali).
Ebbe inoltre inizio un nuovo processo culturale attraverso il quale gli uomini impararono a ridurre al minimo i rischi dell’infezione: norme sulla quarantena da rispettare nei porti e altre regole introdotte dai governi delle città-stato specialmente in Italia e Germania. La stessa cosa non accadde nel mondo musulmano che, condizionato da una visione fatalista della malattia, guardava con diffidenza alle misure sanitarie proposte dai cristiani.
Le infezioni bubboniche continuarono ciclicamente a manifestarsi nell’Europa orientale determinando un progressivo disgregamento sociale e una spartizione delle steppe euroasiatiche fra gli imperi agricoli confinanti di Russia e Cina.
Scambi transoceanici tra il 1500 e il 1700
Gli incontri con le malattie infettive, irrilevanti prima dell’arrivo delle popolazioni europee e africane nel Nuovo Mondo, provocarono un imponente disastro demografico fra gli Amerindi sterminati dal vaiolo più che dalle armi degli invasori.
Senza questa malattia, sconosciuta alle popolazioni del Nuovo Mondo e interpretata come punizione divina, gli Spagnoli non sarebbero riusciti a conseguire la vittoria sugli Aztechi in Messico e sugli Inca in Perù. Dio sembrava favorire i bianchi e arrendersi alla superiorità spagnola, convertendosi poi alla loro religione, era la sola reazione possibile.
Altre epidemie si succedettero in quei territori che non raggiunsero mai una stabilità epidemiologica.
In Europa invece, tra 1300 e il 1700, si giunse a un progresso fondamentale: la “domesticazione” delle malattie epidemiche, che si trasformarono in malattie infantili, divenendo progressivamente endemiche e garantendo un regolare aumento della popolazione.
Va considerato inoltre il fatto che l’introduzione di piante e animali del Vecchio Mondo danneggiò gli equilibri ecologici preesistenti nelle Americhe, mentre le piante da lì esportate verso l’Europa garantirono la possibilità di produrre quantità supplementari di cibo.
McNeill insiste nel sottolineare come questa sia una vicenda esemplare per dimostrare il ruolo avuto dalle malattie infettive nel modellare la storia umana. Gli Europei acquisirono la tecnica della navigazione transoceanica e conquistarono molte regioni del mondo, ma la batteriologia fu importante almeno quanto la tecnologia nel decretare la loro supremazia.
L’influsso della scienza medica e dell’organizzazione sanitaria sull’ecologia a partire dal 1700
La creazione di nuovi equilibri ecologici si verificò soltanto nelle aree del mondo caratterizzate da stabilità politica e dalla possibilità di espandere la propria produzione agricola in modo da garantire un regolare aumento demografico.
Un maggiore ricorso all’allevamento del bestiame comportò ad esempio una maggiore assunzione di proteine nella dieta umana e un potenziamento nella formazione di anticorpi contro le infezioni.
Fra il 1200 e il 1700 i medici europei acquisirono nuove competenze grazie alle scuole di medicina e agli ospedali dove potevano osservare ripetutamente i sintomi e il decorso di una patologia.
Ma fu solo a partire dalla fine del XIX secolo che la ricerca medica riuscì ad isolare i germi delle varie malattie infettive ancora capaci di provocare milioni di morti come ad esempio il colera, procedendo anche alla realizzazione dei vaccini, come quello del vaiolo.
I primi decenni del XX secolo videro poi la nascita della medicina preventiva che perseguiva soprattutto il miglioramento delle condizioni igieniche delle case, dei servizi sociali, delle riserve idriche.
Va sottolineato l’importante ruolo dell’amministrazione sanitaria militare preoccupata di tutelare la salute degli eserciti, elemento fondamentale per l’affermazione dello Stato nel continente europeo.
Nonostante i continui progressi, la tecnica e la scienza non hanno ancora liberato l’umanità dalla sua antichissima condizione che la rende vulnerabile ai microparassiti e per il futuro immediato rimane evidente che stiamo attraversando uno dei più grandi sconvolgimenti ecologici mai conosciuti dal nostro pianeta.
Livia Tiazzoldi
McNEILL, William Hardy. La peste nella storia. L’impatto delle pestilenze e delle epidemie nella storia dell’umanità. Milano: Res Gestae, 2012 (1975). 282p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.14, p.149-152, dic., 2020. Acessar publicação original
Crisi. Come rinascono le nazioni / Jared Diamond
Jared Diamond / Foto: Lavin Agency /
Jared Diamond, noto geografo, antropologo, ornitologo americano, meglio noto al pubblico italiano per il suo volume più famoso, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, pubblicato nel 1997, si è costruito con questo testo, a pieno diritto, anche la fama di storico e di divulgatore. In seguito adottando un metodo di analisi multidisciplinare, da lui stesso definito pensiero orizzontale, che dispone lo scienziato all’integrazione di ambiti apparentemente separati, si è applicato allo studio della questione ambientale con il volume Il collasso (2005).
Nell’ultimo suo lavoro, di cui diremo in questa recensione, l’autore spostando la sua attenzione sulla storia più recente, ha analizzato il concetto di crisi attraverso lo studio di sette casi, riguardanti la Finlandia nel periodo della guerra con l’Urss, il Giappone nel periodo Meiji, il Cile di Pinochet, l’Indonesia degli anni Sessanta, la Germania e l’Australia del secondo dopoguerra, gli Stati Uniti nel periodo storico attuale. Il volume intitolato Crisi. Come rinascono le nazioni è stato pubblicato nel 2019 dall’editore Einaudi.
Il termine crisi, utilizzato in molteplici accezioni e quindi applicabile in diversi ambiti, nella sua origine etimologica greca afferisce “all’area semantica di separare, decidere, distinguere. Quindi potremmo pensare alla crisi come a un momento di verità, un punto di svolta in cui la differenza fra la realtà che precede quel momento e la realtà che lo segue è molto più marcata che nella maggior parte degli altri momenti” (pag. XIX).
Questa è la definizione dalla quale prende spunto Diamond. Ma l’aspetto più originale di questo corposo lavoro risiede nella scelta dell’autore di adottare la prospettiva delle crisi individuali, che capitano ad ognuno di noi nel corso della vita, per applicarla alle crisi delle nazioni. E lo fa in modo coerentemente scientifico, accogliendo le tesi della cosiddetta terapia della crisi, una teoria ed una pratica terapeutica ideata dallo psichiatra Erich Lindemann che si sforzava di risolvere in tempi brevi le angosciose condizioni di crisi esistenziali dei propri pazienti.
Diamond, partendo da alcuni fattori che possono rivelarsi utili al superamento delle crisi individuali, costruisce a specchio un elenco di fattori che dovrebbero consentire di rispondere alle crisi collettive di livello nazionale e sovranazionale. Ma guardiamoli più da vicini questi fattori (a sinistra quelli che riguardano l’individuo, a destra quelli che riguardano invece le nazioni:
- Riconoscimento dello stato di crisi / consenso circa lo stato di crisi nazionale. / accettazione della responsabilità nazionale.
- Tracciare un confine / confini chiari per delineare i problemi nazionali da risolvere.
- Chiedere aiuto agli altri / richiesta di aiuto materiale ed economico ad altre nazioni.
- Gli altri come modello / le altre nazioni come modello per la risoluzione dei problemi.
- Forza dell’io / identità nazionale.
- Capacità autocritica / capacità di autovalutazione nazionale onesta.
- Esperienze di crisi pregresse / esperienza storica di crisi nazionali precedenti.
- Pazienza / presa in carico del fallimento nazionale.
- Flessibilità / flessibilità nazionale in situazioni specifiche.
- Valori fondanti / valori fondanti nazionali.
- Libertà dalle costrizioni / libertà da costrizioni geopolitiche.
Possono i fattori individuali adattati e applicati alla storia delle nazioni rivelarsi utili per la comprensione degli esiti delle crisi nazionali? Come è facilmente comprensibile l’adattamento a specchio dei fattori di crisi dall’individuo alle nazioni non si rivela così automatico e tuttavia il tentativo portato avanti da Diamond è in grado di suscitare la curiosità dei lettori e non è privo di interesse per lo storico.
Per portare avanti le sue tesi l’autore prende in considerazione i sette casi di crisi che abbiamo anticipato in precedenza che hanno caratteristiche diverse e riguardano nazioni le cui storie sono molto differenti tra loro.
Non abbiamo modo in questa recensione di esaminarli tutti nel dettaglio, anche per non togliere al lettore il piacere di seguire Diamond nelle sue analisi. Ci soffermeremo quindi solo sull’esempio della storia del Giappone.
Fino al 1853 questo paese somigliava molto all’Europa medievale con una struttura gerarchica di tipo feudale, controllata al vertice dallo shogun, proprietario di larga parte delle terre e dai signori, i daimyo, soggetti a lui. L’imperatore, figura fantoccio, era sostanzialmente privo di potere reale. Rispetto agli stranieri il Giappone mantenne, fino alla metà dell’Ottocento contatti limitati e sufficientemente controllati dal governo. Questo equilibrio si ruppe con l’intervento militare degli Usa che cercavano di rompere l’isolamento degli shogun. Si apriva quella che può essere considerata una fase di crisi acuta per la nazione nipponica che durò circa quindici anni e si tradusse in un capovolgimento dei rapporti interni di potere, un cambiamento dei rapporti del Giappone con il mondo esterno e più in generale una trasformazione del paese. Fu ripristinato il potere reale dell’imperatore, fu avviata una politica di riforme di stampo occidentale e fu progressivamente attenuato l’isolazionismo commerciale del Giappone.
Al termine della sua narrazione degli eventi e dei processi che interessarono questa nazione dal periodo dello shogunato al periodo cosiddetto Meiji Diamond ci mostra anche quali, tra gli indicatori del suo modello, possono aiutarci a comprendere il comportamento adottato dalla nazione nipponica per uscire dalla crisi di quegli anni.
Il Giappone si distingue, più degli altri paesi presi in considerazione, per aver saputo prendere come modello le altre nazioni per la risoluzione dei problemi (Fattore n.5 dell’elenco). La Costituzione come l’organizzazione militare e il codice civile prendono infatti spunto dai modelli tedeschi, inglesi, americani. Riesce inoltre a mettere in atto una capacità di autovalutazione nazionale realistica e onesta (Fattore n.7 dell’elenco) riconoscendo che “i barbari erano molto più forti e che l’unico modo per rafforzarsi era proprio imparare da loro”. Dimostrò infine di essere in grado “di tracciare un confine e di adottare il cambiamento in modo selettivo (Fattore n.3). Molti furono infatti gli ambiti della società nipponica interessati dal rinnovamento, da quello economico a quello giuridico, militare, politico, sociale e tecnologico; ma il Periodo Meiji seppe anche conservare importanti prerogative del Giappone tradizionale, come l’etica confuciana, la venerazione nei confronti dell’imperatore, l’omogeneità etnica, la pietà filiale, lo scintoismo e il sistema di scrittura nazionale”.
Con lo stesso metodo di narrazione storica, di spiegazione e di interpretazione comparativa l’autore si avvicina alla storia degli altri paesi presi in considerazione. E non si può non osservare la sua abilità di scrittura, un piacevole e pacato tono espositivo, la tendenza a mescolare esperienze personali e private con argomentazioni di ordine generale che mantengono viva l’attenzione del lettore.
Ma non è solo sulla storia passata che Diamond mette alla prova il suo modello interpretativo. Nella terza parte del libro prende in considerazione le crisi in corso su scala nazionale del Giappone e degli Stati uniti e le sfide che il mondo nella sua dimensione globale dovrà affrontare per evitare nuove crisi.
Emergono così, in tutta la loro evidenza problemi ben noti nel presente e che riguardano per il Giappone il debito pubblico, il ruolo della donna in una società avanzata, il calo e l’invecchiamento demografico, il rapporto con la Cina e la Corea, la gestione delle risorse naturali, mentre per gli Usa l’autore sottolinea in particolare “il crescente e preoccupante deterioramento della nostra capacità di raggiungere il compromesso politico” causa di “una polarizzazione, di una intolleranza e litigiosità della società americana” partita dalla classe politica per estendersi all’elettorato e in tutti gli ambiti della vita sociale.
L’analisi dei fattori di crisi si estende infine, nell’ultima parte del libro, ai possibili scenari futuri e ai fattori che “minacciano le popolazioni della terra e i nostri standard di vita in generale…e rischiano di minacciare a livello globale la sopravvivenza stessa della civiltà.” Diamond ritiene di identificare questi fattori di potenziale crisi nell’impiego di armi nucleari, nei cambiamenti climatici, nell’esaurimento delle risorse del pianeta e nelle disuguaglianze negli standard di vita.
Diamond ha scritto questo libro nel 2019 a breve distanza dallo scoppio della drammatica crisi pandemica che ha colpito non le singole nazioni ma l’intero pianeta. Ci potremmo chiedere se questo modello di interpretazione della storia, alla luce del concetto di crisi, ci potrà essere utile anche per il superamento di questa crisi pandemica. La risposta ci viene dallo stesso autore in una serie di articoli pubblicati negli ultimi mesi sulla stampa internazionale e italiana. I fattori di potenziale crisi nel prossimo futuro, dianzi esposti, e cioè armi nucleari, clima, risorse del pianeta e disuguaglianze, sono ben più importanti che la pandemia: il Covid-19 non è che un piccolo cruccio momentaneo, ben più importanti saranno le conseguenze di un fattore di crisi come ad esempio il cambiamento climatico. Il saldo delle vittime umane provocate dal clima che cambia è già più pesante rispetto al saldo attuale delle vittime del Covid-19 e non basterà un vaccino per risolvere la crisi o meglio le crisi che il clima è in grado di produrre. Perché l’allarme su questo aspetto non è almeno pari a quello generato dal virus? Le pagine finali del libro, sempre sul filo della comparazione storica e dei possibili scenari futuri del mondo, pongono al lettore un interrogativo se cioè “le nazioni hanno sempre bisogno di una crisi per sentirsi motivate ad agire o sanno anche agire in modo preventivo”. Gli esempi proposti da Diamond in questo libro non risolvono la questione, nel senso che talvolta le nazioni hanno avuto la necessità di attraversare una crisi prima di adottare cambiamenti, talvolta invece hanno prevenuto la crisi adottando scelte che hanno permesso di evitarla. D’altronde è ciò che accade ai singoli individui che di fronte ad una possibile crisi nella loro esistenza talvolta giocano d’anticipo, talvolta riescono a reagire solo quando la crisi ci ha già travolti come ricorda un aforisma di Samuel Johnson: “Credetemi, signore, quando un uomo sa che nel giro di due settimane sarà impiccato, la sua mente si concentra in modo meraviglioso”.
Giuseppe Di Tonto
DIAMOND, Jared. Crisi. Come rinascono le nazioni. Torino: Einaudi, 2019. 450p. Resenha de: DI TONTO, Giuseppe. Il Bollettino di Clio, n.14, p.153-156, dic., 2020. Acessar publicação original
[IF]La Spagnola in Italia 1918-1919 / Eugenia Tognotti
Eugenia Tognotti / Foto: La Stampa /
Misure di distanziamento sociale, sospensione delle riunioni pubbliche, divieto di assembramento, limitazione all’uso dei mezzi di trasporto, chiusura di scuole, chiese e teatri: il lockdown di un secolo fa. La storia delle pandemie ci riporta, con il libro di Eugenia Tognotti, al biennio 1918-’19, nel pieno della terribile Spagnola; in effetti, gli echi di una malattia che sembrava sfuggire a ogni possibilità di intervento umano non sono poi così differenti da quelli riportati dai media oggi. La difficoltà diagnostica legata alla scarsa specificità del quadro sintomatico, simile a quello di altre malattie influenzali, ma ben più letale, l’elevato potenziale contagioso, la concomitanza con la guerra fecero rapidamente delinearsi il quadro di una tragedia collettiva.
“… Fame, peste, guerra. In tutta Italia vi è una grande epidemia chiamata febbre spagnola che anche capitò a Monterosso, non vi potete immaginare quanta gioventù muore, se dura ancora non restiamo nessuno […]. Si muore come l’animali senza il conforto di parenti e amici”. Il tono tragico di questa come di altre lettere, inviate da cittadini italiani a congiunti e amici residenti all’estero e richiamate nel volume, non lascia dubbi sulla gravità della situazione venutasi a creare a seguito della diffusione della Spagnola. Tuttavia, la documentazione ufficiale di quegli anni non fornisce un riscontro corrispondente, né permette di rilevare le reali dimensioni del problema; anzi, ci restituisce l’immagine di un dramma che si delinea a tinte flebili, almeno nella prima fase. E se anche oggi non è raro trovare memoria orale della terribile malattia, meno presente e più sfumata è la versione dei canali divulgativi ufficiali, apparati ministeriali, trattati scientifici, organi di informazione; tanto che molti interrogativi ancora rimangono in attesa di una risposta. Sui giornali dell’epoca le tracce della prima ondata dell’epidemia sono ineffabili, la tragedia che si consuma ha ancora tratti deboli e contorni sfocati. Quasi nulla riesce a trapelare della reale diffusione, delle incertezze del mondo accademico e scientifico, delle disfunzioni del sistema sanitario.
Come mai tale silenzio? Evidentemente, c’erano buoni motivi perché la realtà fosse taciuta o sottostimata. Nell’Italia lacerata dal primo conflitto mondiale, la morsa della censura dello Stato che proibiva la pubblicazione di informazioni militari si strinse, nel momento più drammatico della guerra, anche attorno alla Spagnola, la guerra sanitaria: fornire al nemico austro-ungarico informazioni sulla gravità della situazione reale era considerato contrario agli interessi nazionali, soprattutto nel momento in cui si stava preparando l’offensiva decisiva. Le direttive governative erano ferree per quanto riguarda il controllo dell’informazione: prevedevano addirittura il sequestro per le testate che avessero pubblicato articoli esplicativi. In realtà, ben prima dell’arrivo della Spagnola i giornali si erano esercitati a tacere ogni notizia che potesse avere un effetto demoralizzante sulla popolazione, aggredita già da diverse malattie epidemiche, come il colera, il tifo e il vaiolo.
Dopo il negazionismo del primo periodo – tutt’al più trafiletti tranquillizzanti, brevi note dai tratti ironici sulle pagine locali – finalizzato al consenso e al sostegno al mondo economico e produttivo necessario per la gestione della contingenza bellica, si rileva l’evidente difficoltà delle agenzie governative nel controllo e nell’orientamento della stampa; il diritto del cittadino all’informazione rimase, comunque, fortemente limitato, anche se risultò impossibile nascondere totalmente la realtà quando l’epidemia raggiunse l’acme.
Il saggio di Eugenia Tognotti, pubblicato nel 2002 e aggiornato nell’edizione del 2015, fornisce nuove conoscenze sulla pandemia influenzale del 1918. L’autrice ricorre a una molteplicità di fonti per ricostruire gli aspetti epidemiologici e socio-sanitari, ripercorrendo la cronologia di quegli anni: carteggi amministrativi, provvedimenti delle Autorità sanitarie, relazioni ministeriali. Ma sono presenti e riccamente documentati, grazie alla ricerca effettuata sui quotidiani dell’epoca e negli archivi di scrittura popolare, anche altri tratti che possono efficacemente contribuire alla costruzione del quadro storico del periodo, come le relazioni sociali, i comportamenti dei soggetti, le credenze e le idee ricorrenti: l’impatto che il dilagare della malattia esercitò sull’immaginario e che trovano, in modo sorprendente, una forma di continuità nelle crisi epidemiche, dai tempi lontani alla contemporaneità.
Chi non ricorda la mesta colonna dei carri militari diretti al cimitero di Bergamo, recentemente proposta dai media? Allo stesso modo, le immagini delle salme trasportate con mezzi speciali, delle inumazioni senza la presenza delle famiglie, dei depositi di feretri presso il cimitero monumentale e la stazione tranviaria di Porta Romana di Milano ebbero, negli anni 1918-’19, un enorme impatto sociale. “Non più preti, non più croci, non più campane” riferiva desolata una donna foggiana al genero. Le principali componenti dei rituali funebri, le cerimonie per elaborare il lutto, la condivisione del dolore nell’ambito familiare, l’intreccio fra la dimensione privata e quella pubblica erano cancellati dalla morte per Spagnola. Le fonti epistolari esprimono lo sconvolgimento del vissuto, lo smarrimento e l’angoscia di fronte ai divieti. “E’ una malattia brutta e schifosa che non ti portano nemmeno in Chiesa”, scriveva un abitante di Bedonia in una lettera diretta a New York. Ancora più della morte, sembrava incutere paura la desacralizzazione del corpo, il suo essere considerato un fardello pericoloso di cui disfarsi prima possibile.
Sono stati “i prigionieri dell’isola dell’Asinara a portare il tifo, il colera e altre malattie contagiose. Le autorità non erano riuscite a isolarle come avrebbero dovuto”; quindi, “i venditori ambulanti che bazzicavano di nascosto gli appartamenti” li introducono nelle case. Le parole del prefetto di Alghero nell’anno 1915 ci ricordano che, anche prima che si manifestasse la Spagnola, un’epidemia assume i tratti del dispositivo di emarginazione. Accade oggi, succedeva in un passato ben più lontano, avvenne anche in quel difficile biennio. La necessità dell’igiene e della disinfezione diventava un’ossessione e, almeno in alcuni strati della società, nascondeva la fobia del contatto con quelle parti sociali – quasi sempre gli abitanti dei quartieri popolari delle città – che si sottraevano all’imperativo delle norme igieniche e che venivano, quindi, considerate a rischio. Si trattava dei soggetti socialmente fragili, che occupavano misere case e angusti tuguri, in vie marginali e cosparse di rifiuti. Se non era più possibile, in pieno XX secolo, l’allontanamento coatto delle masse minacciose dei derelitti fuori del contesto urbano, rimaneva, però, lo stigma contro i portatori di germi, pericolosi vettori della Spagnola, incapaci di adeguarsi alle norme igieniche dominanti.
In realtà, scrive la Tognotti, l’aggressione epidemica del 1918 costituisce un’eccezione a una costante sociale: non operò distinzioni di classe. Tuttavia, la prospettiva storica ci restituisce una novità sul piano demografico e sociale: particolarmente bersagliate dalla malattia, con una mortalità superiore a quella degli uomini, erano le donne. L’epidemia non si era incaricata di porre rimedio all’ineguaglianza di fronte ad una morte di genere, quella in guerra, che mieteva solo vittime maschili; altrove dovevano essere ricercate le ragioni di un fenomeno che colpiva la comunità ma che, all’epoca, non furono subito chiare: l’epidemia infierì in modo particolare sulle giovani donne e sulle ragazze che si erano appropriate quasi in esclusiva del compito di assistenza e di cura dei malati, nelle famiglie e fuori. Una rilevante presenza femminile si stagliava con forza sullo scenario pubblico e si concretizzava nella partecipazione alle riunioni operative, nella distribuzione dei generi alimentari, nel confezionamento dei dispositivi di protezione civile. Le donne, inoltre, supplivano la componente lavorativa maschile impiegata nella guerra, assicurando una funzione insostituibile nelle attività produttive: erano perciò particolarmente esposte al rischio del contagio.
La Spagnola, nelle tre ondate con le quali infierì su buona parte della popolazione mondiale, mieté quasi 20 milioni di vittime; una tragedia che si aggiunse a quella della guerra, nel cui contesto – le linee dei diversi fronti, nella loro condizione di debilitazione e di malnutrizione – trovò l’ambiente giusto per prosperare. Una tragedia, tuttavia, che, come si è detto, ha lasciato scarse tracce di sé nella storiografia; per questo ha un particolare valore il libro della Tognotti. La sua documentatissima ricerca può risultare utile innanzitutto alla storia della medicina, come fa notare Gilberto Corbellini nella presentazione del volume; può rendere consapevole il futuro medico che a monte delle conoscenze e delle pratiche correnti esiste un bagaglio straordinario di esperienze, fatto sia di successi sia di errori, e che egli stesso deve essere pronto a cambiare per apprendere le nuove spiegazioni a fronte dei progressi continui del sapere e delle connessioni fra le discipline mediche. L’autrice mette in evidenza il fatto che molti interrogativi sulla patogenesi, sulle caratteristiche epidemiologiche, sui modelli di mortalità specifica per età restano ancora senza risposta, mentre la comunità scientifica pone la sua attenzione all’emergere di virus influenzali percepiti come minacce capaci di sconvolgere il mondo globale e di renderlo ancora più vulnerabile sul piano economico e sociale. La comparazione con l’attualità proposta implicitamente dal volume contribuisce a formare un clima di consapevolezza culturale in relazione alle conquiste della scienza medica, ma anche alle correlazioni che vengono a istituirsi tra medicina e vivere sociale.
Il volume della Tognotti guarda al passato e centra l’attenzione sul nostro Paese, senza dimenticare le istanze che, necessariamente, una pandemia pone sul piano mondiale. E questo è senz’altro uno dei suoi elementi di forza anche sul piano formativo, allorché si voglia ricostruire eventi trascorsi per facilitare la comprensione di ciò che può accadere in caso di riproposizione del fenomeno. Si tratta di un progetto educativo ambizioso – fa notare ancora Corbellini -, che mira a reintegrare il valore culturale ed etico-sociale della medicina attraverso il recupero della dimensione storica del sapere medico. In effetti, le dinamiche delle pandemie influenzali sembrano essere esempi emblematici di come un interesse storico, articolato a più livelli, dalle ricerche paleomicrobiologiche alle reazioni socio-culturali, possa avere ricadute sul presente.
La ricerca della Tognotti contribuisce a colmare le zone d’ombra conseguenti alla rimozione della memoria, di cui molti manuali sono esempi. Fornisce una magistrale dimostrazione di come si elabora e diffonde sapere storiografico, dal momento che le origini e le caratteristiche della crisi pandemica forse più grave dell’umanità vengono ricostruite attraverso un’approfondita ricerca d’archivio, un attento esame della letteratura medica e un’estesa ricognizione dei mezzi d’informazione; il risultato è di sicuro interesse e fruibilità da parte del mondo della scuola. Mettendo in luce il rapporto tra guerra e malattie infettive, il libro mostra come i conflitti siano luoghi dell’esistenza che travalicano ogni linea di confine per intaccare le esistenze di tutti.
Le pandemie sono eventi che si ripetono nel tempo e ricorrono spesso con le stesse modalità, anche se mai in maniera del tutto uguale: il libro fornisce utili strumenti di analisi interpretativa e permette una riflessione approfondita e a tutto tondo su un argomento di grande attualità e di interesse globale.
Enrica Dondero
TOGNOTTI, Eugenia. La Spagnola in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-19). Milano: FrancoAngeli, 2015. Resenha de: DONDERO, Enrica. Il Bollettino di Clio, n.14, p.157-160, dic., 2020. Acessar publicação original
Una politica senza religione – De LUNA (CN)
De LUNA, Giovanni. Una politica senza religione. Torino: Einaudi, 2013, p. 137. p. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
“Per risvegliarci come nazione, dobbiamo vergognarci dello stato presente. Rinnovellar tutto, autocriticarci. Ammemorare le nostre glorie passate è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti, è conforto all’ignavia e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione”
Con queste parole di Giacomo Leopardi, G. De Luna conclude il suo saggio sulla mancanza di una “religione civile” nella nazione italiana e sui tentativi (sporadici) di costruirne una nel corso dei centocinquant’anni di storia unitaria.
In premessa, l’autore esplicita cosa intende per religione civile: “uno spazio in cui gli interessi che tengono insieme un paese si trasformano in diritti, in doveri civici, in valori consapevolmente accettati, nel nome dei quali i cittadini italiani sono sollecitati ad abbandonare le nicchie individualistiche o comunitarie, quei progetti esistenziali racchiusi nel terribile slogan ‘tengo famiglia’ e ‘mi faccio i fatti miei’, condividendo un universo di simboli in grado di legare il singolo e la società in un rapporto di dipendenza e di identificazione”.
Si tratta quindi di uno spazio in continua costruzione, attraverso l’invenzione di tradizioni e il loro consolidamento mediante simboli riconosciuti che creano una realtà pubblica di appartenenza e di cittadinanza. E questo chiama in causa direttamente le Istituzioni e la Politica.
L’autore svolge il rotolo della storia unitaria d’Italia incontrando prima i fallimenti del “fare gli italiani” dell’Italia liberale di fronte al trasformismo della politica, poi quelli del “ciascuno al suo posto” della gerarchia fascista che non riuscì a imporre un vero totalitarismo perché non affrancata da una “marcata subalternità nei confronti di quelli che erano i valori proposti dalle gerarchie cattoliche” ( p. 29).
Il momento nel quale gli italiani furono sul punto più vicino a costruire una loro religione civile fu senza dubbio quello della realizzazione della Costituzione nata dalla Resistenza. Largo spazio G. De Luna dedica all’impegno del Partito d’Azione, individuando nei loro esponenti gli autentici ispiratori di un pensiero laico in grado di farsi civilmente religioso. Piero Calamandrei “cercava di sottrarre il paradigma di fondazione della nostra Repubblica all’ipoteca (che gli appariva effimera) dei partiti antifascisti per riconsegnarla direttamente al vissuto e all’esperienza collettiva di tutti gli italiani. Di qui la sua insistenza sul ‘carattere religioso’ della lotta partigiana…
A fondamento di un nuovo spazio pubblico in cui ci si potesse riconoscere come cittadini di uno stesso Stato nel nome di valore condivisi, Calamandrei chiamava così ‘il popolo dei morti’ (di quei morti che noi conosciamo uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e sulle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti) presentato non nella dimensione ‘vittimaria’ dell’innocenza e dell’inconsapevolezza, ma come fonte attiva di una nuova legittimazione dello Stato” (pp. 40-41).
Il tentativo naufragò sugli scogli del clericofascismo democristiano, favorito dall’art. 7 della Costituzione che integrandovi i Patti Lateranensi creò un “pericoloso innesto confessionale” nella costruzione della Repubblica.
Nel luglio 1960 l’Italia del boom economico scoprì l’antifascismo. Manifestazioni e scontri cruenti con la polizia impedirono il congresso del partito neofascista MSI a Genova, medaglia d’oro della Resistenza, e causarono le dimissioni del governo Tambroni, un monocolore democristiano con l’appoggio esterno del MSI. Si aprì una stagione di importanti riforme: la scuola media unica, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, lo Statuto dei Lavoratori, la chiusura dei manicomi. Ciò nonostante, sostiene De Luna, “il rilancio della Costituzione nel suo significato di testo fondamentale della nostra religione civile fu una grande occasione mancata” (p. 60) perché la stagione si esaurì presto e gli anni Ottanta si aprirono con la famosa intervista a E. Scalfari, nella quale Enrico Berlinguer poneva alla politica tutta la “questione morale”. I partiti ormai non provvedevano più a formare la volontà popolare, non svolgevano più alcuna funzione pedagogica, di dibattito tra le masse. Essi erano diventati pure macchine per l’occupazione del potere.
L’Italia si stava avviando verso una condizione nella quale l’unica “religione” poteva essere quella cattolica vaticana, affiancata, seppur tra mille problemi, da quelle dei nuovi immigrati; non vi sarà più spazio per alcuna religione civile.
O meglio.
L’unica vera, trionfante, religione sarà quella officiata dal “mercato” a cui la politica si sottometterà. Berlusconi sarà il suo eroe. Tutto sarà immerso nella religione dei consumi. E gli italiani, memori di secoli di povertà, si immergeranno in un benessere fondato su consumi indotti massicciamente dai nuovi media, soprattutto dalla televisione invadente. Tutto, ma proprio tutto, sarà ordinato dai totem dell’audience, dello share, della pubblicità, della visibilità, del culto dell’immagine. A questo proposito De Luna ricorda opportunamente come neanche il Vaticano si sottrarrà alle leggi del mercato: basti pensare alle figure degli ultimi tre pontefici, al carisma di Giovanni Paolo II di cui fu perfino spettacolarizzata la lunga agonia, al coup de theatre delle dimissioni si Benedetto XVI, alla capacità meravigliosa di tenere la scena di papa Francesco.
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Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950 – GINSBORG (BC)
GINSBORG, Paul. Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950. Torino: Einaudi, 2013. 678p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.13, p.120-123, lug., 2020.
La famiglia esiste? La ricerca storica (e non solo) aiuta a dare una risposta: si incarica di dirci se la famiglia sia sempre esistita, come si sia formata, come si sia trasformata nel tempo e nelle diverse società.
Nei libri di storia generale, e non parlo solo dei manuali scolastici, la famiglia non c’è. Un po’ come, se è lecito il paragone, le donne e il genere (con cui peraltro la famiglia condivide ampi legami). Solo qualche rapida descrizio ne in alcuni momenti e periodi, senza che sia possibile per studentesse e studenti comprendere la dimensione storica della famiglia, le connessioni e le interdipend enze con i contesti sociali, economici, culturali, le trasformazioni nel tempo, le cesure essenziali, le lunghe durate di ruoli, relazioni, funzioni. La famiglia è un presupposto, si dà per scontata.
Ma nulla è più importante, lo sappiamo, che mettere in discussione i presupposti implic iti che reggono le nostre idee e i nostri pensieri. Le nostre visioni del mondo e della sua storia. Il libro di Paul Ginsborg aiuta a colmare questo vuoto.
Il progetto originario era quello di analizzare il tema della famiglia lungo tutto il Novecento, con uno spartiacque collocato dopo la fine del secondo conflitto mondia le, quando la sconfitta delle dittature e dei fascismi inaugurò anche per la famiglia una nuova epoca. La quantità di materia le accumulato e la ricchezza dei temi hanno orientato l’autore a prendere un’altra decisione: la pubblicazione di un volume relativo alla prima metà del secolo scorso. Un secondo libro avrebbe poi raccontato il seguito della storia fino agli ultimi anni del Novecento.
Un progetto ambizioso, dunque, importante e innovativo: tematizzare la famiglia non solo come oggetto dell’indagine storica ma come soggetto di questo racconto, scritto assumendo quel punto di vista.
La scelta nasce da lontano. Nel 1993, facendo un bilancio della storia della famiglia in età contemporanea (cfr. Famiglia, società civile e stato nella storia contemporanea: alcune considerazioni metodologiche, in “Meridiana”, 1997, n.17, pp. 179-208), Ginsborg denunciava già il sostanziale silenzio della storiografia sulla connessione tra famiglia e politica.
«C’è il rischio, dunque, che la storia della famiglia venga rinchiusa in un ghetto metodologico, in parte per sua stessa colpa, che rimanga uno «studio di area» invece di una parte essenziale di ogni ragionamento storiografico che tenti di legare le istituzio ni sociali, tra le quali la famiglia deve essere considerata la più importante, alle istituzio ni dello stato. La marginalizzazione della dimensione politica nella storia della famiglia comporta la marginalizzazione della famiglia dalla grande storia.» (p.180).
E nel suo libro L’Italia del tempo presente (Einaudi, 1998) il sottotitolo Famiglia, società civile, Stato evidenzia la volontà di assicurare alla famiglia un’attenzione specifica. In questo volume la connessione tra famiglia e storia politica è al centro, occupa tutta la scena.
La necessità è quella di non separare la storia della famiglia dalla storia politica, o la storia sociale da entrambe, ma di cercare come priorità metodologica la relazione tra di esse. E di raccontare, dunque, la storia del Novecento attraverso la lente della vita familiare per rileggere quel periodo.
Da qui, l’attenzione non solo alla politica per la famiglia (le diverse iniziative degli Stati in questo ambito), ma soprattutto alla politica della famiglia, tramite le molteplici e variegate interconnessioni tra individui, famiglia, società civile, Stato. Un rovesciamento di prospettiva che non solo mette in evidenza l’istituzio ne famiglia, ma modifica, arricchendolo, il significato di storia politica.
Il tempo, lo abbiamo detto, è quello della prima metà del Novecento. Sullo sfondo la grande guerra, le rivoluzioni, il primo dopoguerra e l’affermazione dei regimi dittatoriali. Anni di profonde trasformazio ni che l’autore attraversa esaminando in chiave comparativa la storia della famiglia in vari Stati-Nazione: la Russia, prima e dopo la rivoluzione sovietica; la Turchia, dall’Impe ro Ottomano alla Repubblica kemalista; l’Italia fascista; la Spagna prima e durante il regime franchista; la Germania, dalla Repubblica di Weimar al nazionalsocialismo; l’Unio ne sovietica staliniana. A ciascuno di questi stati è dedicato un capitolo (un centinaio di pagine circa) del libro.
Tre sono gli elementi metodologicame nte interessanti del volume di Ginsborg. Il primo è dato dalla pluralità dei temi messi in campo, delle angolature e delle tessere utilizzate per ricostruire il mosaico della famiglia: l’uso originale delle biografie di personaggi esemplari (Alexandra Kollontaj per la Russia rivoluzionaria, la scrittrice nazionalista Halide Edib per la Turchia del primo Novecento, Il futurista Filippo Marinetti per l’Italia fascista, la femminista Margarita Nelken per la Spagna e per la Germania Joseph Goebbels come modello archetipico della famiglia nazista); la ricostruzione della vita delle famiglie comuni, con particolare attenzione a quelle contadine e operaie; la focalizzazione sulle diseguaglianze di genere e le lotte delle femministe; il controllo spesso violento e repressivo della grandi dittature verso le famiglie e allo stesso tempo i sogni e le proposte rivoluzionarie e utopiche maturate in quegli anni; la legislazione e i codici che ne hanno definito ruoli, regole, diritti e doveri e le teorie politic he che ne hanno tentato letture e interpretazio ni complessive.
Con questa tavolozza l’autore disegna il suo racconto che procede ricostruendo ampi quadri descrittivi degli Stati esaminati, all’interno dei quali si possono cogliere la ricchezza e la complessità dell’universo familiare e il ruolo della famiglia come istituzione politica e civile, non riducibile alla sola dimensio ne privata.
La chiave comparativa è l’altra importante ossatura del libro: la prima metà del Novecento è un’epoca di grandi e radicali trasformazio ni che sconvolgono l’assetto geopolitico dell’Europa, le strutture economiche, le società e anche le mentalità collettive. Rivoluzioni e dittature sono messe a confronto con la vita familiare.
Si scoprono analogie: ad esempio il predominio della struttura patriarcale, tratto largamente dominante e trasversale ai differenti contesti; il sostegno, la difesa e la regolamentazione della famiglia riconosciuta dai diversi regimi assieme alla repressione di massa di determinate categorie di famiglie, su base etnica, razziale, nazionale, di classe, religiosa o politica, al là dei contenuti ideologici differenti che li caratterizzano; il ruolo della società civile che fu sostanzialmente soffocata dall’oppressione dei diversi regimi che eliminarono qualsiasi forma di pluralismo, dall’Impero ottomano, alla Russia rivoluzionaria, alla stessa esperienza degli anarchici spagnoli.
E anche significative differenze: per esempio comparando l’effettivo potere sulle famiglie è possibile allineare i diversi regimi lungo un continuum che va dal relativo lassismo di Mussolini in Italia al più alto controllo del nazisti che adottano una politica eugenetica contro i membri più deboli della loro stessa comunità nazionale. O relativamente ai rapporti di genere e al ripensamento stesso della vita familia re, particolarmente significativa è stata l’esperienza rivoluzionaria russa che si distingue per la lotta al patriarcato e i diversi tentativi di emancipazione femminile. Le proposte di Alexandra Kollontaj, unica donna a far parte del Consiglio dei commissari del popolo guidato da Lenin, di una grande società famiglia nella quale si superasse definitivamente il modello della famiglia, fallirono ma decisive e importanti furono le ricadute di quella riflessione sui codici di famiglia che ne derivarono così come fu essenziale l’aver affermato il ruolo centrale dei rapporti sessuali e sentimentali nella lotta per la liberazione.
Ma, mentre in Russia dopo la rivoluzione la famiglia borghese era da superare e abbattere, nella Turchia di Mustafa Kemal rappresentava una prospettiva rivoluzionaria: “applicare nel 1926 il Codice civile svizzero a una società prevalentemente rurale e musulmana fu un atto straordinario di rivoluzione dall’alto” (p. 614) Un ruolo particolare fu quello della Chiesa cattolica che di fronte alle dittature “non difese la vita familiare in sé, ma piuttosto la civiltà cattolica” (p.620). L’integralismo di Pio XI e Pio XII era più preoccupato di affermare il primato dell’ ecclesia che i valori del pluralismo, della libertà e della democrazia.
C’è inoltre un altro aspetto che qualifica questo libro di storia: i documenti iconogra fic i e la rappresentazione visuale della famiglia. Le complessive 135 illustrazioni ne sono parte integrante, fornendo ulteriori chiavi di lettura del tema assieme ai dipinti di alcuni grandi artisti della prima metà del Novecento – Archile Gorky, Pablo Picasso, Mario Sironi, Max Beckman, Kazimir Malevic e altri ancora – le cui opere sono presentate in 18 tavole fuori testo.
L’appendice statistica sugli aspetti demografici della storia della famiglia in chiave comparativa, curata dall’autore insieme a Giambattista Salinari, tematizza tre aspetti: la transizione demografica, le catastrofi demografiche e le politiche eugenetiche.
Nelle considerazioni finali, P. Ginsborg tirando le fila del suo lungo percorso di analisi mette in discussione la categoria di totalitarismo con cui tradizionalmente si legge la prima metà del secolo scorso: la storia delle famiglie mostra anche zone di antagonismo, certamente minoritarie e marginali, che però sono tracce di un ruolo che l’istituzio ne famiglia seppe agire pur di fronte a un potere dittatoriale e “totalitario”. Lo spazio privato della casa è stato anche il luogo di reti di solidarietà, di comportamenti e codici di opposizione e di resistenza. È la storia di Victor Klemperer, uno dei 198 ebrei rimasti a Dresda nel febbraio del 1945 (erano 1265 alla fine del 1941), il quale, grazie all’aiuto della moglie Eva Schlemmer, sopravvisse anche ai bombardamenti alleati della città: si strappa la stella gialla di David dal cappotto e con documenti falsi fugge verso la Baviera e la salvezza. O di Pepa López « madre cattolica e borghese che riuscì a salvare la sua famiglia dalle “orde rosse” a Malaga nel luglio 1936, travestendosi da venditrice di frutta e verdura (…)». (p. 612).
Non c’è solo una relazione diretta tra individui atomizzati e stato totalitario, in grado di controllare comportamenti, pensieri e azioni: se prendiamo in considerazione anche la famiglia e le storie delle famiglie il quadro si modifica e obbliga a valutazioni più articolate e complesse.
Il ruolo interpretato dalle famiglie nel nuovo contesto democratico che si affermerà dopo il 1945 sarà poi del tutto diverso. Ma questa, come si dice, è un’altra storia. Ancora da raccontare.
Ernesto Perillo Acessar publicação original
[IF]La mamma, Collana L’identità italiana – D’AMELIA (BC)
D’AMELIA, Marina. La mamma, Collana L’identità italiana. Bologna: Il Mulino, 2005. 311p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.13, p.124-127, lug., 2020.
Marina d’Amelia, docente di storia moderna all’Università “La Sapienza ” di Roma e appartenente alla Società Italiana delle Storiche, si propone con questo libro di rispondere a un interrogativo ben preciso: quando nasce in Italia lo stereotipo della mamma responsabile della mancanza di senso civico da parte di cittadini educati al protagonismo individuale più che al senso del bene comune? Un rapporto madre-figlio per descrivere il quale, negli anni ’50, Corrado Alvaro introduce il termine mammismo.
L’autrice si propone di dimostrare che questa immagine materna nasce col nuovo stato italiano, poco più di due secoli fa. Non vi è traccia infatti di madri iperprotettive nella civiltà romana, caratterizzata dalla centralità del padre, dove le donne delle famiglie più ricche si facevano sostituire dalle balie nella cura dei figli e ne affidavano l’educazione a istitutori e maestri. La tradizione giurid ica romana della patria potestà si è tramandata per un lunghissimo periodo informando di sé i codici di comportamento delle strutture familiari medievali e moderne.
Solo a partire dal tardo Settecento la mentalità collettiva comincia a guardare in modo nuovo alla relazione madre-figlio. Si fa strada una nuova visione del matrimonio, della famiglia e la consapevolezza dell’importanza del legame materno soprattutto con il figlio maschio.
Nel corso dell’Ottocento la cultura romantica, centrata sulla rivalutazione del sentimento e degli affetti privati, riscopre il femminile, attribuendo alla madre un ruolo privilegiato nella formazione sentimentale dei figli e anche un importante ruolo pubblico.
Nel volume, corredato da un’amp ia bibliografia illustrata e commentata, l’autrice delinea i tratti dell’immagine della madre italiana ripercorrendo i momenti fondamenta li del suo definirsi dal Risorgimento alla II guerra mondiale, rievocando molte figure femminili, molte testimonianze, scritture pubbliche e private.
Le madri risorgimentali
L’identità della madre italiana nasce nel Risorgimento ed è caratterizzata da un rapporto quasi simbiotico con il figlio, dall’ammirazione per tutto ciò che fa, da un eccesso di protezione nei suoi confronti e dall’intromissione nella sua vita privata.
È importante ricordare come il matrimo nio per le donne di quell’epoca non fosse frutto di una libera scelta, ma dell’obbedienza a una decisione paterna. La maternità invece era vista come vocazione e missione legata alla “rigenerazione della patria” attraverso l’educazione dei figli agli ideali di libertà, dedizione e senso del sacrificio, valori che saranno alla base della nuova Italia.
La figura della madre del patriota risorgimentale, dedita a sostenerlo durante l’esilio o nelle guerre di indipendenza, nasce negli ambienti patriottici mazziniani.
Dopo il 1848 si registra un maggio re coinvolgimento delle madri a favore dell’indipendenza italiana: organizzano campagne di propaganda con giornali e manifesti volti a mobilitare l’opinio ne pubblica.
Maria Drago, madre di Giuseppe Mazzini, e Adelaide Cairoli e i suoi numerosi figli si affermano come l’asse portante del mito di un Risorgimento che ne riconosce l’importanza pubblica in quanto capaci di mettere in moto grandi emozioni collettive.
Dopo l’Unità d’Italia, nel momento in cui si tratta di riscrivere la storia, l’icona della madre sacrificale viene posta alla base di un nuovo sentimento nazionale: diviene mito fondativo, emblema di una comune madre patria che unisce tutti i suoi figli in un comune vincolo di fratellanza.
La madre angelo del focolare nell’età liberale
In un momento storico in cui la maggioranza della popolazione italiana viveva in precarie condizioni di vita il pensiero positivista assegna alle madri il compito di rigenerare il patrimonio fisico e razziale della nazione, facendosi promotric i dell’allenamento ginnico sia dei figli che delle figlie e garantendo l’igiene dell’ambiente in cui li crescono. Si tratta di abbassare il tasso di mortalità infantile e di innalzare quello di alfabetizzazione.
Il nuovo modello è dunque quello della madre totalmente dedita alla casa, al benessere familiare, disponibile ad accogliere le indicazioni degli esperti sull’allevamento e sull’educazione dei bambini.
Le materie di igiene ed economia domestica entrano a far parte del currico lo scolastico dal 1899; proliferano inoltre manuali, riviste dedicate al pubblico femminile che insegnano alle donne come fare le madri.
In tal modo, osserva giustamente l’autrice, la presenza e l’ingerenza della madre nella vita del figlio diventa ancor più indiscutibile, fondata com’è su basi scientifiche.
Lo Stato si premura comunque di ribadire la preminenza della volontà paterna nella vita dei figli, ma questo non impedisce di perpetuare in altra forma l’idea di una relazione materna appagante di per se stessa, all’interno della quale le donne possono sublimare una vita fatta di subalternità e insoddisfazione coniugale.
L’amore materno è insomma un sentimento esclusivo, molto diverso da quello paterno, che non lascia spazio ad altro. Deriva da un compito preciso assegnato dalla Natura alla donna in quanto conservatrice della specie e somiglia ad una lava sempre rovente che ribolle continua nel vulcano del cuore. Solo dopo Freud, aggiunge l’autrice, ci si interrogherà su quali ambivalenze si nascondano dietro tanta dedizione materna.
Ben radicata rimane la centralità della maternità nel primo decennio del Novecento e se ne trovano molte testimonianze nelle riviste femminili che, pur riconoscendo il diritto all’emancipazione femminile , insistono sulla specificità della donna latina , contenta di essere donna grazie alla missio ne ricevuta dalla Natura di mettere al mondo un figlio.
La maternità si impone dunque come elemento fondante e irrinunciab ile dell’identità femminile, contrappo sto all’egomania che connota l’unive rso mentale maschile.
La madre cattolica
La Chiesa cattolica non si sottrae al compito di indicare le caratteristiche della madre ideale, incaricata dell’educazione religiosa dei figli, chiamata a difendere il suo sacerdozio d’amore, così lo definisce Beppe Fenoglio nel libro La vera madre di famiglia, dalle richieste di uguaglianza e parità, dalla pericolosa concorrenza di dottrine laiche , dalla tentazione di seguire le mode straniere del tempo.
Caratteristica peculiare della madre cattolica è quella di dover essere una presenza silenziosa, capace di controllare le proprie emozioni. Le parole che non siano preghiere sono giudicate superflue e immodeste. Va coltivata anche la virtù del non rivendicare mai le proprie ragioni, pur sapendo di averle, ma di soffocare gli scontri in un sospiro, di nascondere e dissimulare le pene. Il Papa Pio X nel 1906 dichiara che la donna non deve votare, ma deve votarsi a un’alta idealità di bene umano.
Degli ideali di emancipazione femmin ile si fanno carico nel frattempo associazioni e movimenti di ispirazione socialista che si battono per l’istruzione, la parità salaria le fra uomo e donna e il suo diritto al voto.
I primi anni del Novecento vedono un importante cambiamento nelle direttive cattoliche che incoraggiano sia l’istruz io ne che la partecipazione femminile alla vita pubblica. Si riconosce alle donne il ruolo missionario di difesa dei valori cristia ni nella società.
Madri e Grande guerra
In piena continuità con il modello sacrificale proposto in età risorgimentale, la guerra chiede alle madri italiane di appellarsi al proprio senso del dovere e di sostenere i figli impegnati nello sforzo bellico, sintonizzandosi con il loro vissuto emotivo soprattutto attraverso lo scambio epistolare che raggiunge quasi i quattro miliardi di lettere e cartoline, con una media di circa tre milioni al giorno. Ne risulta un’immagine di madre disposta a penare silenziosamente, centrata sul desiderio di rispecchiare le aspirazioni dei figli e percepita come un talismano, come presenza salvifica, ultimo rifugio dallo smarrimento.
La guerra attiva inoltre molti organismi di solidarietà e di mobilitazione civile che riconoscono un ruolo centrale alle madri, ruolo ribadito alla fine del conflitto quando lo Stato italiano decide di celebrarne l’eroismo e il sacrificio con un monume nto , La Pietà di Libero Andreotti, collocato nella Chiesa di Santa Croce a Firenze e idealmente collegato con quello del Milite Ignoto a Roma.
L’enfatizzazione di questo specifico ruolo della donna lascia troppo nell’omb ra , secondo l’autrice, alcuni elementi chiave della vita femminile di questi anni come le manifestazioni contro la guerra, la diffusione del lavoro femminile, la crescente fatica di sopravvivere di molte donne diventate capifamiglia e l’impossibilità di dare voce a sentimenti e angosce repressi in nome della coerenza.
La figura della madre in epoca fascista
Alla celebrazione della maternità il fascismo dedica una festa particolare: la Giornata della madre e del fanciullo, grande “rito di amore e orgoglio nazionale” avente lo scopo di sollecitare l’incremento della popolazione.
Vi si celebra l’immagine della donna sposa e madre prolifica esemplare, tenace custode della morale sessuale tradiziona le , soprattutto nei confronti delle figlie femmine, anche se i confini di ciò che è lecito vengono definiti dal padre. Il comportamento autoritario della famiglia ha come conseguenza quella di reprimere il desiderio di affermazione e indipendenza delle figlie.
Il partito fascista cerca in ogni modo di evitare qualunque possibile commistione fra maschi e femmine sia in ambito scolastico che durante le manifestazioni pubblic he riservate ai giovani.
Comunque, grazie alle adunanze, alla divisa, alle decorazioni, le ragazze scoprono la possibilità di una sia pur piccola liberazione dal controllo familia re , alimentando in se stesse il desiderio di un’emancipazione futura.
Il modello ideale proposto dal regime fascista è quello di Rosa Maltoni, la madre del Duce, donna semplice ma ricca di spiritualità , trasformata nel mito celebrativo della donna capace di sostenere l’ascesa sociale dei figli, opponendo un fermo rifiuto a tutti i mali che possono disgregare la famiglia. Predappio, luogo natale di Mussolini diviene meta di pellegrinaggi per onorare in lei tutte le madri della Nuova Italia.
La figura della madre nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza
Mentre il Risorgimento e la Grande guerra avevano fatto leva sull’ero ismo silenzioso delle madri comuni disposte al sacrificio pur di sostenere la causa patriottica, la seconda guerra mondiale ne esalta questa caratteristica soltanto fino all’ 8 settembre 1943 che vede il disgregarsi improvviso dell’esercito.
Le madri non vengono risparmiate dall’orrore di quanto accade successivamente ed è difficile per loro superare la barriera delle opposte appartenenze dei propri figli.
Alcune si ritrovano ad essere madri di partigiani o partigiane esse stesse pronte ad impegnarsi e lottare nella Resistenza, altre si schierano con il fronte dei Repubblichini di Salò arruolandosi nel servizio ausilia rio femminile.
Il pensiero della madre percepita come rifugio rassicurante accomuna invece il sentire dei due schieramenti, a conferma di una fratellanza che la logica di guerra nega, ma anche di uno stretto collegamento fra istinto di sopravvivenza e bisogno di protezione.
Livia Tiazzoldi
[IF]Storia della famiglia in Europa – BARBAGLI; KERTZER (BC)
BARBAGLI, Marzio; KERTZER, David I. (a cura di). Storia della famiglia in Europa. Roma: Il Novecento; Bari: Laterza, 2005. Resenha de: RABUITI, Saura. Il Bollettino di Clio, n.13, p.127-130, lug., 2020.
Questo volume sul Novecento, è l’ultimo dei tre volumi della Storia della famiglia in Europa, la fortunata opera curata da Marzio Barbagli e David I. Kertzer. Nel 2002 e nel 2003 erano usciti i due precedenti volumi: Dal Cinquecento alla Rivoluzione francese e Il lungo Ottocento.
Ogni volume è aperto da una corposa introduzione dei curatori e raccoglie dieci saggi, articolati in quattro sezioni (economia e organizzazione della famiglia; lo Stato, la religione, il diritto e la famiglia; forze demografiche; relazioni familiari) che individuano gli ambiti considerati dalla ricerca, da quelli economici a quelli demografici, culturali, giuridici e sociali.
In questo terzo volume sul Novecento è particolarmente approfondita l’analisi delle politiche familiari, sia nei regimi dittatoria li (Le politiche sulla famiglia dei grandi dittatori di Paul Ginsborg e Famiglie socialiste? di Alain Blum) che democratici (Politiche sociali e famiglie di Chiara Saraceno) che in tempo di guerra (La famiglia in Europa e le due guerre mondiali di Jay Winter). Forte è anche l’attenzione al ruolo delle donne in rapporto all’economia, al lavoro, alle politic he governative e ai legami intergenerazio na li (Trasformazione economica, lavoro delle donne e vita familiare di Angélique Janssens; I legami di parentela nella famiglia europea di Martine Segalen).
Il volume si chiude fotografando il passaggio, soprattutto nell’ultima parte del secolo, dalla famiglia alle famiglie, alla varietà delle forme di famiglia (La famiglia contemporanea: riproduzione sociale e realizzazione dell’individuo di François de Singly e Vincenzo Cicchelli; Angéliq ue Janssens; I legami di parentela nella famiglia europea di Martine Segalen).
Nel suo complesso l’opera indaga le trasformazioni della famiglia nel lungo arco temporale di cinquecento anni e nel vasto spazio di tutta l’Europa, “intesa come continente di circa 10 milioni di chilometri quadrati, delimitato a ovest dall’oceano Atlantico, a est dalla dorsale degli Urali e dal fiume Ural, a nord dal mare Artico e a sud dal mare Mediterraneo, il mar Nero e il mar Caspio. Un continente che all’inizio del Cinquecento aveva circa 81 milioni di abitanti e oggi ne ha 730 milioni” (p. V) L’intento dichiarato dai curatori non è solo quello di esaminare in una prospettiva comparata “i modi in cui le famiglie si formano, si trasformano, si dividono, la frequenza dei matrimoni e l’età a cui li si celebra, le regole di residenza dopo le nozze, le relazioni fra mariti e mogli, genitori e figli, la fecondità, la frequenza delle separazioni legali e dei divorzi.” È anche quello di cercare i nessi tra i cambiamenti nella sfera domestica e le trasformazioni economiche, sociali, politiche e soprattutto di arrivare a individuare “se, e in che misura, le società europee siano diventate più simili o più dissimili riguardo alle caratteristiche della vita domestica” (pp. V-VI) nell’arco dei cinque secoli considerati.
A questo interrogativo i curatori offrono una risposta conclusiva nelle quaranta pagine dell’Introduzione ai saggi che compongono questo terzo volume, là dove individ uano processi di convergenza e di divergenza fra le società europee. A conclusione del percorso di ricerca e in estrema sintesi, Barbagli e Kertzer ritengono infatti di poter affermare che “nei primi tre secoli [considerati] siano prevalse le tendenze alla divergenza” (p. 32), ovvero che siano cresciute, alla fine del Settecento, le differenze tra i vari paesi e regioni d’Europa (volume 1); che nell’Ottocento invece si siano registrate tendenze sia divergenti che convergenti e che siano continuate ad esistere, fra le diverse aree, differenze enormi (volume 2); che Il Novecento sia da considerarsi infine “il secolo della convergenza”, un secolo che ha visto “il mondo domestico dei vari paesi europei sempre più simile” (p. 38) Forti convergenze fra i paesi europei si sono avute per tutto il Novecento per quel che riguarda le strutture degli aggregati familiari.
Da questo punto di vista infatti nel corso del secolo si è affermata la famiglia nucleare e coniugale: è diminuito ovunque e continuativamente il numero medio di persone per famiglia e il numero di persone che dopo le nozze andava ad abitare con i genitori del marito o con parenti ed è cresciuto ovunque, soprattutto nella seconda metà del secolo, il numero di quelle che vivono sole, in conseguenza del più alto livello sia del reddito che della speranza di vita.
Ancora più forte, seppur assai discontinua, è stata poi la convergenza sul declino della fecondità, un processo che ha investito, con forti oscillazioni nei periodi bellici e postbellici, la popolazione europea di tutti gli strati sociali e fedi religiose, sia delle città che delle campagne. Altrettanto forte e discontinua è stata la tendenza all’aumento delle separazioni legali e dei divorzi, che nel corso del Novecento sono diventati un fenomeno di massa, mentre nei secoli precedenti avevano riguardato un numero molto limitato di coppie.
Meno netta e ancor meno lineare è stata la convergenza su altri aspetti quali ad esempio la nuzialità (rispetto alla quale l’Europa occidentale si differenzia ancora da quella orientale) o il divorzio o la convivenza more uxorio. In questo caso è l’Europa nord occidentale che si differenzia da quella mediterranea (vedi il saggio Una transizione prolungata: aspetti demografici della famiglia europea di Theo Engelen).
Nel corso del secolo, le somiglianze sono cresciute anche per quel che riguarda la divisione del lavoro e la distribuzione del potere all’interno delle famiglie (fra mariti e mogli, genitori e figli), il diritto di famiglia, le norme sul matrimonio, i rapporti patrimonia li fra i coniugi, le successioni, il divorzio, lo stato dei figli un tempo “illegittimi”.
La riduzione (e non certo l’azzeramento ) delle differenze tra aree geografiche e sociali dell’Europa non è il risultato di un processo lineare. Solo alcune delle trasformazioni che sottendono le convergenze sono state continue e lineari (ad esempio la semplificazione delle strutture familiari). Altre invece (come ad esempio il declino della fecondità) hanno oscillato fra accelerazioni, rallentamenti e anche inversioni di tendenza.
Le profonde trasformazioni della vita familiare che il Novecento ha conosciuto sono state a volte precedute mentre altre volte hanno fatto seguito a cambiamenti del diritto che (vedi Il diritto di famiglia in Europa di Paola Ronfani), all’inizio del secolo, in tutti i paesi, attribuiva in ambito domestico particolari poteri al marito (capofamiglia, con potestà maritale e patria potestà, col diritto di controllare e gestire il patrimonio familia re …). Queste trasformazioni hanno intaccato ma non eliminato diseguaglianze di genere e si sono accompagnate e intrecciate con due tendenze di convergenza generalizzabili in tutta Europa: l’aumento delle donne occupate in attività extradomestica retribuita e l’invecchiamento della popolazione.
Infine va ricordato che la riduzione delle differenze fra aree geografiche e sociali non ha riguardato tutti i molteplici aspetti del mondo familiare, neppure tutti quelli indagati nei saggi che compongono il terzo volume. La fine del secolo registra insomma ancora importanti differenze nella vita familiare dei vari paesi, alcune di antichissima origine altre più recenti.
Per quel che riguarda le prime, basti ricordare ad esempio che risalgono alla seconda metà del Cinquecento i diversi atteggiamenti, basati sul credo religioso, rispetto al divorzio, ancora meno frequente nei paesi mediterranei. (Alla fine del ‘900, il numero dei divorzi/separazio ni legali andava da 10 a 20 su ogni 100 matrimo ni in Italia, Spagna, Grecia, Portogallo mentre era superiore a 40 in molti paesi dell’Europa settentrionale e orientale).
Fra le differenze di origine più recente, basti ricordare ad esempio quelle riconducibili alle nettamente diverse politiche sociali e familiari perseguite dai paesi nord occidentali e da quelli del Mediterraneo. Italia, Spagna, Grecia, Portogallo poco sostengono il costo dei figli o la cura degli anziani e poco aiutano a concilia re lavoro e famiglia, scaricando i compiti di cura e di riproduzione sociale quasi esclusivamente sulla famiglia o per essere più precisi sul lavoro domestico non pagato delle donne. Non a caso, alla fine del secolo, la quota di donne con un lavoro retribuito era nei paesi mediterranei assai più bassa che nei paesi nord occidentali.
Dalla pubblicazione del volume sul Novecento sono trascorsi quindici anni, durante i quali la ricerca sulla famiglia ha continuato a rinnovarsi. I meriti dell’inte ra opera comunque rimangono tutti e stanno innanzitutto nella ricca e chiara sintesi che offre sul tema, in una prospettiva comparata, su un lungo arco temporale e un vasto spazio territoriale. Stanno anche nell’ approccio multidisciplinare che ha visto all’opera studiosi di storia, sociologia, antropologia, demografia, economia, diritto, ambiti tutti necessari per delineare il complesso e variegato quadro delle famiglie, oggi come ieri. Stanno infine – e penso ovviamente ad un suo possibile utilizzo a scuola- nel mostrare il ‘900 non solo come il secolo delle guerre mondiali, delle crisi economiche, delle dittature, dei totalitarismi, dei genocidi, ma anche come il secolo dei diritti civili e sociali, dell’avvento dello Stato di welfare, delle profonde trasformazioni della vita familia re che hanno modificato in particolare la condizione delle donne, i loro diritti e quelli del lavoro.
Saura Rabuiti
[IF]Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città – ALLEN (CN)
ALLEN, Williams S. Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città. Torino: Einaudi, 2005. (Ristampa a cura di L. Gallino). Resenha de: ORI, Giada. Clio’92, 7 ago. 2019.
ll titolo del libro di Allen di primo acchito ci comunica gli elementi caratterizzanti del libro:
- salta subito all’occhio che Allen vuole spiegarci il processo attraverso il quale i tedeschi di una piccola città diventarono seguaci del nazismo;
- il periodo storico è ben delineato, si tratta del breve sessennio dal 1930 al 1935;
- il territorio di cui parla il libro è molto delimitato, si tratta infatti di una piccola città da lui chiamata Thalburg (in realtà Nordheim nell’Hannover)
Allen tenta col suo libro di metterci in condizione di capire come sia stato possibile che un partito quasi inesistente, in poco tempo sia divenuto il primo e successivamente l’unico di tutto il territorio. Prende in considerazione una piccola città come studio di caso per rendere più comprensibile il mutamento avvenuto in quegli anni in tutta la Germania, dall’arrivo dei nazisti sino alla loro salita al potere.
Il libro di Allen presenta sia una introduzione di Luciano Gallino, sia una prefazione dell’autore. Nella prefazione l’autore ci spiega che ha preso in considerazione una città piccola della Germania per il semplice motivo che mai nessuno si era occupato di una situazione locale per parlare del nazismo, precisando che le città piccole hanno come caratteristica la scarsa riservatezza e molti pettegolezzi.
Afferma che la città di Thalburg aveva una buona dose di documenti da poter consultare e ci mette a parte che molti cittadini si lasciarono intervistare con la promessa dell’anonimato anche della città stessa (ecco spiegato, quindi, il motivo del perché la città di Thalburg è inesistente sulle cartine).
Dunque, una molteplicità di fonti — tra cui quelle di memoria — è messa a frutto dallo storico statunitense.
L’introduzione invece ci riassume in poche pagine il ruolo della NSDAP (Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi) e dell’SPD (Partito Socialisti di Germania) nella città di Thalburg: di come NSDAP si sia fatto strada tra i cittadini privando l’SPD di moltissimi voti lavorando sulla preoccupazione che i cittadini avevano del comunismo, di come il partito nazista abbia manifestato contro il trattato di Versailles colpendo nel vivo i cittadini che non si erano ancora ripresi da quella umiliazione, come l’SPD non abbia fatto nulla per cercare di fermare l’avanzata del partito hitleriano nella città.
L’autore, a questo proposito, alla fine del libro, analizza i vari dati raccolti nelle sue ricerche organizzandoli in tabelle statistiche e in grafici, rendendo possibile, attraverso la loro lettura, la comprensione immediata delle situazioni e dei processi, anche senza aver prima letto l’intero libro.
Grafici e tabelle esplicano perfettamente i dati riguardanti la disoccupazione, le elezioni e le frequenze delle riunioni dei vari partiti a Thalburg negli anni che il libro prende in considerazione.
Allen non propone una periodizzazione ragionata dei sei anni analizzati. Ma all’interno del suo libro, la si può trovare schematizzata nell’indice. Dapprima suddivide i sei anni da lui presi in considerazione in due parti: dal gennaio 1930 al gennaio 1933, poi dal gennaio 1933 a quello del 1935. All’interno delle due parti i capitoli creano un’ulteriore periodizzazione suddivisa in stagioni.
Allen articola il libro in due parti: la morte della democrazia, dal gennaio 1930 al gennaio 1933, e introduzione alla dittatura, dal gennaio 1933 al gennaio 1935.
La prima parte inizia col darci alcune informazioni sulla città: dov’era collocata, più o meno, sulla cartina, com’era “fisicamente”, quali erano le sue condizioni durante la depressione, quale il grado di disoccupazione, quali i lavori svolti dagli abitanti, quale il ruolo delle industrie. Il terzo capitolo “entrano i nazisti”, ci spiega come nel giro di pochissimi mesi, il partito NSDAP sia riuscito a diffondersi nella città in cui il partito SPD era già ben attecchito.
Da questo terzo capitolo, sino al nono, Allen ci mostra come lentamente il partito di Hitler si sia impadronito della città, sfruttando la disoccupazione dilagante, manifestando contro il trattato di Versailles, utilizzando i giornali per la loro propaganda, e facendo presente come l’SPD, iniziò a perdere voti, smettendo di lottare contro un partito antisemita, violento e rivoluzionario.
La seconda parte del libro inizia con le ultime elezioni in Germania nel 1933, anno in cui Hitler divenne cancelliere e l’NSDAP iniziò a lavorare per istaurare una dittatura.
La città da quel momento fu totalmente soggiogata al partito, con ormai pochissime persone, totalmente emarginate, che militavano ancora per l’SPD.
Il capitolo “il regime del terrore” è incentrato sul tentativo dei nazisti di evitare qualsiasi minima reazione da parte di coloro che non erano militanti di Hitler, facendo boicottare i loro negozi, proibendo le armi al privato, mettendo fuori legge il partito socialista e sciogliendo i sindacati. In questo capitolo si inizia a parlare del campo di concentramento di Dachau, in cui venivano mandati gli avversari politici, e di cui gli abitanti di Thalburg erano a conoscenza. Le accuse per cui si poteva venire arrestati erano assai labili, ma come veniva scritto anche sui giornali, quando i nazisti mettevano gli occhi su qualcuno, in un modo o in un altro, lo prendevano.
Lentamente la società di Thalburg, fino a quel momento ben organizzata, iniziò a disgregarsi. I circoli cittadini iniziarono ad essere controllati dai nazisti che non lasciarono più nulla di intentato per evitare che ideologie diverse dalle loro attecchissero all’interno della città.
Nel quindicesimo capitolo “gli aspetti positivi” Allen, per darci una visione complessiva del periodo, ci mostra l’altra faccia della medaglia, ovvero la positività del nazismo nella città. I nazisti, infatti, trovarono la soluzione alle difficoltà economiche che imperversavano a causa della depressione. I soldi nelle casse della città, e anche quelli stanziati da Hitler, permisero di far diminuire la disoccupazione già dal luglio 1933. Nel 1935 tutti i segni della depressione erano scomparsi.
Il capitolo “disgregazione della società”, tratta in primis della questione ebraica.
Allen ci spiega che a Thalburg gli ebrei erano una minoranza e che da una generazione all’altra il numero cresceva minimamente. Essi erano ben integrati nella società: difatti, gli ebrei non abitavano in un quartiere ebraico, svolgevano piccole attività commerciali e non risentivano molto dell’antisemitismo ereditato dal medioevo, poiché era poco sviluppato nella città.
Ma con la salita al potere dei nazisti la situazione cambiò: le quasi inesistenti frasi antisemite comparse nei discorsi precedenti al 1933 divennero realtà il 29 marzo di quell’anno. L’antisemitismo dei nazisti si manifestò non solo nei discorsi, ma anche con i fatti: nell’aprile di quell’anno infatti il boicottaggio degli ebrei diede il via al processo che solo dieci anni dopo terminò con le camere a gas. Questo primo attacco diede come risultato il disgregarsi del rapporto con i non ebrei dal punto di vista sociale.
Ma era, come si sa, solo il primo passo verso qualcosa di molto più ampio. Inizialmente si voleva solo evitare che i rapporti umani ostacolassero la dittatura e le idee che erano alla base di essa. Thalburg e gli ebrei non si accorsero in tempo del problema che avrebbe creato l’ideologia antisemita all’interno della città, anzi, gli ebrei li ritenevano, inizialmente, innocui.
Ma il boicottaggio fu una catastrofe per la piccola cittadina: tutti iniziarono a capire che gli ebrei erano dei reietti nel regime nazista, che erano da evitare per salvaguardare la propria incolumità, e lentamente furono messi tutti ai margini. Molti ebrei appartenevano a dei club, soprattutto i più facoltosi, come il banchiere Braun, fiducioso e tutto intenzionato a non andarsene dalla sua città, a nessun prezzo, allontanandosi dai club solo per evitare questioni spiacevoli, ma non perché credeva che quella situazione non sarebbe durata a lungo. Era un uomo fiducioso. Molto meno lo fu Gregor Rosenthal, che all’opposto del suo compaesano, si chiuse in se stesso e ruppe tutti i contatti sociali. Venne allontanato da tutte le congregazioni e il suo modo di fare inquietò così tanto i thalburghesi che crebbe in loro l’idea che fosse poco conveniente farsi vedere anche solo parlare con un ebreo. Non fu sicuramente l’unico con un tale comportamento, anzi, era molto più facile che gli ebrei si comportassero in modo schivo e quasi da invisibili che non da uomini di mondo come il banchiere. Non solo le relazioni sociali degli ebrei si rovinarono in questo periodo: in poco tempo, attraverso il controllo dei club, con la creazione di nuovi, con la fusione o lo scioglimento di altri, a causa delle tensioni e delle paure dovute alla sfiducia che tutti avevano verso il prossimo, sentimento che cresceva giorno dopo giorno, le relazioni divennero minime. Non ci si fidava più nemmeno dei proprio amici intimi, in poco tempo nessuno desiderava più riunirsi per scambiarsi opinioni o semplicemente chiacchierare, tutti temevano di dire qualcosa di sbagliato e di finire nei guai.
È molto interessante il modo con cui Allen costruisce la conoscenza di come ci si trasforma in sostenitori di un partito antidemocratico e razzista.
Egli presenta le situazioni e svolge i processi del loro mutamento perciò nel libro sono alternati blocchi testuali descrittici con quelli narrativi.
I primi due capitoli: l’ambiente e anatomia della città hanno lo scopo di farci conoscere lo stato di cose della cittadina di Thalburg nel 1930. In essi troviamo la descrizione fisica della città, del territorio regionale, della situazione demografica, del clima religioso, delle classi sociali e dei loro club.
Il capitolo sugli ebrei leggiamo prima la descrizione di come essi vivevano prima dell’avvento dei nazisti e negli anni successivi alla loro vittoria elettorale, poi i narrativi ci raccontano i giorni del boicottaggio, come certi facoltosi ebrei reagirono alle leggi antisemite di fronte agli amici e alla società e di come i cittadini si comportarono verso di loro: amichevolmente alcuni, andandoli a cercare nei loro negozi e per la strada proprio per parlarci, i socialisti in testa, oppure approfittandosi di loro, facendo spese folli nei loro negozi senza mai pagare un soldo.
Allen conclude il suo libro facendo una carrellata dei fatti successivi al 1935: di come i nazisti iniziarono a manifestare le loro vere intenzioni sulle questioni religiose, di come già nel 1937 il ritmo dell’espansione economica rallentò, di come nessuno si oppose ai nazisti nel 1938 nella “notte dei cristalli”.
Durante il 1944 i bombardieri americani colpirono in parte la città, ma in tutti i casi i cambiamenti furono rilevanti: molti profughi si trasferirono in quella cittadina per fuggire agli orrori della guerra, la popolazione aumentò esponenzialmente e all’arrivo degli alleati si sottomisero senza combattere. Nel 1950 la popolazione dell’inizio degli anni trenta era raddoppiata.
[IF]La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente – BELIVACQUA (CN)
BEVILACQUA, Piero. La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente. Roma-Bari: Editori Laterza, 2009. 209p. Resenha de BRIONI, Germana. Clio’92. 7 ago. 2019.
Anche in questo libro, La Terra è finita, Bevilacqua coniuga il rigore della ricerca con la disposizione intellettuale alla domanda di senso, propria di chi appartiene a una cultura civile che cerca nuove e vecchie responsabilità per evitare la ripetizione degli errori in futuro. Il suo itinerario storico è sintetizzato dalle sue stesse parole nell’introduzione: “Come siamo arrivati fin qui?” ed egli intende svolgerlo procedendo alla ricerca e alla ricostruzione di quei fenomeni che, nel passato remoto e più recente, sono stati e sono all’origine delle gravi problematiche ambientali di oggi, nell’intento di individuare le cause e i responsabili dell’attuale situazione di alterazione della natura. L’autore è consapevole che già molti studiosi, in campi disciplinari diversi, hanno fornito ipotesi interpretative alla domanda che egli ripropone: interpretazioni di tipo culturale (tra cui il concetto di natura per il cristianesimo) e di tipo economico, come l’approccio liberistico, o quello capitalistico. Di tali interpretazioni egli formula argomentate critiche, introducendo l’accenno a una posizione ambientalista che svilupperà nel prosieguo del libro. La sua dichiarazione di intenti è una ricostruzione della storia dell’ambiente rivolta al passato e nel contempo al futuro, pertanto cerca di coniugare le due diverse esigenze, e ritiene necessario considerare da un lato i danni, le distruzioni, le alterazioni che negli ultimi due secoli hanno cambiato la faccia della Terra; dall’altro le iniziative a livello politico e legislativo, congiunte ai mutamenti di sensibilità e di cultura nei riguardi dell’ambiente, che hanno contenuto i danni e cercano di impedire il peggioramento della situazione ambientale, a livello italiano, europeo e mondiale.
Bevilacqua dichiara apertamente che lo storico non deve rinunciare a giudicare, ma deve cercare la risposta al problema posto all’inizio, tenendo conto dei processi, non dei singoli fenomeni o protagonisti. Avvia perciò una accuratissima analisi di un complesso di processi storici, responsabili della degradazione dell’habitat, in primis il processo storico che si è svolto soprattutto in età contemporanea. (pag. 27)
L’oggetto primo di analisi è un tema di particolare interesse per Bevilacqua: il lungo processo che dall’agricoltura preindustriale ha portato all’agricoltura contemporanea. Mentre denomina l’agricoltura una delle attività più pericolose per la salute umana (p. 77), lo storico individua le ombre della Modernità, principalmente nello sfruttamento, da sempre presente, ma in età contemporanea divenuto abnorme, in maniera finora impensabile, di territori europei e extraeuropei, di risorse energetiche non rinnovabili; infine, ma soprattutto, nello sfruttamento delle risorse umane, cioè di quel frammento di natura che è l’uomo, dominato dalla tecnica. Processi di alterazione e contaminazione anche in passato riscontrabili a livello locale, ma che nel XX secolo, a seguito del processo di industrializzazione, a cui attribuisce la responsabilità maggiore, diventano universali. La trattazione dello storico si allarga a una visione planetaria; analizza e offre innumerevoli significativi esempi dell’accelerazione su scala globale di processi che minacciano la sopravvivenza stessa del genere umano. Egli mette continuamente a confronto la situazione della natura e dell’ambiente antropico nell’età preindustriale con la situazione dell’età industriale, in un arco temporale di due secoli. Ne coglie i più significativi fattori destabilizzanti: per il Novecento, fornendo precisi dati quantitativi e geografici risalenti al 2008, pone l’accento sull’accelerazione demografica, sull’urbanesimo vertiginoso e la formazione delle megalopoli, sulla crescita del consumo di beni alimentari. Individuando la relazione tra questi fenomeni tuttora in crescita e i trasferimenti di popolazione, introduce il concetto di “profughi ambientali”, ai nostri tempi di assoluta attualità. Profughi in fuga da fenomeni naturali antichi e nuovi, in massima parte imputabili all’uso sconsiderato del territorio. Tra i molti esempi citati di tale uso/abuso, l’erosione della Terra; il diboscamento; la presenza di rifiuti tossici; la radioattività, alterazione invisibile quanto pericolosa; la contaminazione delle campagne; la desertificazione e la perdita di terra fertile. In merito a quest’ultima, il dato totale risulta terribilmente allarmante: oggi (2008) l’area degradata dall’azione dell’uomo è calcolata in un quarto delle terre coltivate.
Le varie iniziative a scala planetaria per il contenimento e la riduzione dei danni provocati dai fenomeni ricordati, spesso non vengono rispettate: il Protocollo di Kioto del 2005, uno dei primi esempi di accordo internazionale, non viene rispettato proprio dalle potenze industriali come gli Stati Uniti, o in avanzato grado di industrializzazione, ugualmente responsabili dei danni maggiori. Lo storico compie un’analisi approfondita della situazione agricola in età contemporanea: se già a inizio Novecento l’agricoltura industrializzata presenta degli evidenti vantaggi, assicurando un enorme incremento produttivo, per lo meno nei paesi dell’Occidente, presenta anche molti limiti: infatti la trasformazione nell’uso di concimi, di risorse energetiche sprecate, di modalità di allevamento degli animali del tutto disgiunto dalla coltura del terreno provoca infiniti danni al territorio e al paesaggio.
Bevilacqua vede nell’agricoltura biologica un’alternativa indispensabile per rimediare, per mantenere la biodiversità, nella convinzione che l’agricoltura biologica rappresenta il corrispettivo agricolo di una fase superiore del processo di civilizzazione (pag. 104). Informazioni sulle iniziative legislative e su accordi a livello planetario arricchiscono il saggio: sono azioni non di facile attuazione, ma che impegnano i governi di tutto il mondo a incrementare l’uso di risorse rinnovabili, a incrementare la biodiversità, lo sfruttamento sostenibile delle acque; a limitare i prodotti ad alta tecnologia, come gli OGM, di cui lo storico vede l’inutilità, e anzi evidenzia i danni provocati dal loro uso distorto; a riciclare e a limitare gli scarti e i rifiuti inquinanti industriali, con sistemi che già oggi nuove tecnologie, intelligentemente applicate, consentono.
Dopo aver identificato i caratteri specifici dell’ambiente naturale italiano e le trasformazioni in esso avvenute, denunciando gli errati interventi del passato e del presente su paludi, laghi, habitat selvaggi, e la disordinata proliferazione urbana e industriale, come cause della degradazione dell’ambiente e del paesaggio italiano, Bevilacqua sottolinea come, da parte delle classi dirigenti, ci sia ancora scarsa percezione di quella casa comune che è l’ambiente (pag. 191) e che esso ha meno difensori che altrove. Nonostante l’amarezza suscitata dalle considerazioni precedenti, con sguardo sempre rivolto al futuro, egli sostiene un nuovo ambientalismo, come reazione di portata globale agli squilibri prodotti dall’insipienza delle azioni umane, compiute solo nella logica di puro sfruttamento economico.
Come si legge nell’introduzione a una antologia di saggi a cura di Leandra D’Antone e Marta Petrusewicz e a lui dedicati (La storia, le trasformazioni. Piero Bevilacqua e la critica del presente, Donzelli, 2015), “la storia per Bevilacqua […] è sapere che si rigenera costantemente; è coscienza critica del presente, consapevolezza del passato, immaginazione del futuro; è fertile lezione trasmessa ininterrottamente dalla generazione più anziana a quella più giovane”.
Germana Brioni
[IF]Novecento.org – (CN)
Novecento.org. Resenha de: COCILOVO, Cristina. La nuova edizione della rivista dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. Clio’92, 7 ago. 2019.
Torna in veste rinnovata Novecento.org, la rivista on line di didattica della Storia dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e degli altri 68 Istituti italiani ad esso associati. È un bentornato a una rivista che ha avuto un illustre passato per il livello dei contributi e la partecipazione degli utenti, per lo più insegnanti e ricercatori, interessati ai temi della didattica della Storia del 900. Appunto per questo, nella pagina di profilo della rivista , non manca un ampio ricordo di Antonino Criscione che aveva progettato e curato la precedente versione, chiusa ormai da un decennio.
L’intenzione degli editori/autori è di continuare la tradizione, innovandola e adeguandola ai tempi. La mission della versione del 1999 è stata infatti ripresa in pieno: “L’ ambizione di questa rivista on line è quella di raccogliere, condividere e redistribuire saperi, conoscenze, risorse utili per la ricerca didattica e l’innovazione su questo terreno utilizzando a questo fine le potenzialità di Internet e stimolando la nascita e lo sviluppo della comunità virtuale degli insegnanti-ricercatori di storia.” Ma l’aggiunta di un’indicazione significativa può permettere ora di ampliare lo sguardo dei docenti, grazie alla rete di relazioni scientifiche degli Istituti: “La rivista è stata quindi pensata e progettata come uno strumento affidabile per i docenti italiani che vogliano aggiornarsi dal punto di vista storico e didattico, … un punto di riferimento[… ] su quanto avviene in Europa in questo specifico ambito di insegnamento.“
Sin dal numero 0 del giugno del 2013 la rivista si è confermata come un formidabile supporto per la didattica della Storia del ‘900, sia per le riflessioni metodologiche che per i materiali offerti e immediatamente fruibili. Ben presto ci auguriamo che diventi uno strumento indispensabile per i docenti che desiderano aggiornarsi.
Si assiste infatti da molti anni all’assenza di un serio processo di formazione pubblica degli insegnanti. Essa viene gestita, fra mille ostacoli, da associazioni disciplinari o appunto Istituti di ricerca come l’ISMLI, consapevoli di supplire a un compito fondamentale per l’educazione dei futuri cittadini.
Diretta da Antonio Brusa, colonna portante della didattica della Storia, assistito a sua volta da una redazione che raccoglie i nomi di maggior esperienza dell’ISMLI e del Landis, la rivista ha avuto il suo battesimo in un riuscito convegno, tenutosi a Piacenza nel marzo 2013, sul tema “La Storia nell’era digitale”. Introdotto da una stimolante relazione di Antonio Brusa, il convegno ha visto succedersi in due mattinate docenti e ricercatori esperti nell’utilizzo delle tecnologie digitali applicate alla storia. Nel corso del pomeriggio, tre laboratori didattici rivolti ai docenti della primaria (a cura di Paola Limone), secondaria di primo e di secondo grado (gestiti da Cristina Cocilovo e Patrizia Vajola), hanno messo a fuoco le modalità innovative di una didattica centrata sulla costruzione di conoscenze e di competenze storiche attraverso l’uso del digitale.
Gli atti del convegno sono pubblicati nella sezione “Dossier”, con la riproposizione in modo pressoché integrale di molti interventi (Brusa, Cigognetti, Ferri, Noiret, Biondi, Di Tonto, Mattozzi, Facci, Formenti), seguiti dai materiali presentati nei laboratori.
Gli atti del convegno sono pubblicati nella sezione Dossier, con la riproposizione pressoché integrale degli interventi (Antonio Brusa, Luisa Cigognetti, Paolo Ferri, Serge Noiret, Giovanni Biondi, Ivo Mattozzi, Giuseppe Di Tonto, Carlo Formenti, Michele Facci), seguiti dai materiali presentati nei laboratori.
Sarebbe opportuno guardare la sequenza degli interventi videoregistrati, sempre accompagnati da un fedele testo scritto: si affrontano temi chiave dell’uso di Internet da parte di allievi e docenti che affrontano la Storia, senza dimenticare che (citando Brusa) ” La disciplina storia è uno statuto di regolazione dei saperi, cioè un insieme di regole e operazioni da compiere per la specificità della formazione storica: la messa in prospettiva, la contestualizzazione, i lessici e le grammatiche fondamentali del sapere storico, la costruzione di grandi codici di senso.”
Il dibattito sull’uso della rete, che può essere spaesante, rischioso, e insieme un’inesauribile risorsa, ha accompagnato tutto il percorso del convegno nella consapevolezza che l’epistemologia, la grammatica e la sintassi della Storia sono da anteporre alle tecnologie, sebbene possano trarne reciproci vantaggi se messe in sinergia.
I materiali pubblicati in Laboratori – Storia e nuove tecnologie, offrono spunti per il docente che vuole affrontare la Storia secondo un approccio costruttivista, per attivare gli studenti secondo percorsi coerenti con la propria modalità cognitiva, approfittando dei vantaggi offerti dalla rete e dalle nuove tecnologie (ma fino a che punto sono nuove? Se lo domanda maliziosamente Facci).
Infine sono state attivate le altre sezioni nel Menù del sito. In Pensare la didattica viene recensito l’avvincente romanzo In territorio nemico, sulla maturazione di due giovani attraverso l’avventura partigiana. Scritto secondo il metodo di Scrittura Industriale Collettiva (SIC), offre spunti operativi alle classi che vogliono cimentarsi nella produzione di un testo storico. In Didattica in classe (un chiaro riferimento all’intenzione espressa nell’introduzione di pubblicare riflessioni teoriche e percorsi di didattica praticata) è presentato “Lettere dall’America. Una storia d’amore e di emigrazione, affinità elettive“: un epistolario di M.G. Salonna, che, oltre ad essere una lettura stimolante in sé, si accompagna ad altri materiali che lo collocano nel contesto storico del suo tempo. Il tutto infine viene impiegato in un il bellissimo laboratorio didattico che consente agli studenti di rivivere la grande Storia attraverso la storia di gente “apparentemente” comune. In Uso pubblico della storia troviamo ricche riflessioni per la valorizzazione del calendario civile, che può diventare uno strumento per il curricolo di Storia, a cominciare dalle giornate della memoria e del ricordo.
Una citazione a parte merita l’ultima sezione del Menù, Ipermuseo, dove sono pubblicate sotto forma di presentazione o slide share mostre realizzate dagli Istituti della Resistenza in anni recenti su temi caldi del ‘900: avvento del fascismo, resistenza, deportazione, la difficile convivenza sul confine orientale nell’alto Adriatico, la realizzazione dell’esperienza pedagogica innovativa nel Convitto Rinascita di Venezia. L’uso della rete rende queste mostre fruibili a distanza di tempo, ancora spunto di riflessioni e di possibili approfondimenti nelle classi.
La nuova versione del sito si presenta con una veste grafica molto lineare, ben leggibile e invogliante. La navigazione è semplice e immediata. I materiali facilmente scaricabili. Comodo poi è l’indice di ogni numero della rivista, che permette di consultarla in modo sequenziale come se fosse una pubblicazione cartacea (vedi alla voce Indici del Menù).
Un particolare prezioso: la vecchia rivista resta in consultazione ed è velocemente raggiungibile dalla pagina home d’apertura del sito. Di fatto è ancora un pozzo di informazioni. Inoltre la distanza temporale fra la vecchia e la nuova versione offre poi il vantaggio di cogliere la dimensione storico-cronologica dello sviluppo della ricerca didattica.
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Marghera 1971: l’inizio di una fine. Un anno di lotta alla Sava – PUPPINI (CN)
PUPPINI, Chiara. Marghera 1971: l’inizio di una fine. Un anno di lotta alla Sava. Portogruaro (VE): Nuova dimensione editore, 2015. 191p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
All’inizio del Novecento, cent’anni fa, il porto di Venezia era il secondo in Italia dopo quello di Genova, ma con spazi ormai insufficienti agli importanti traffici di petrolio e carbone necessari all’industria italiana da poco decollata. Di qui l’esigenza di creare un nuovo porto; si scelse l’area di Marghera. Si iniziò a scavare i canali per le navi e a costruire i collegamenti ferroviari con la vicina stazione di Mestre. Dieci anni dopo quell’area era diventata geograficamente strategica: un notevole porto industriale, con una buona rete ferroviaria e stradale alle sue spalle. Tra i protagonisti della realizzazione ci fu il conte Volpi, capitano d’industria e futuro ministro di Mussolini che nel 1926 riunì l’intero territorio nell’amministrazione comunale di Venezia. Era ormai nato quello che nel secondo dopoguerra diventerà il più grande polo industriale italiano, arrivando ad occupare, nel 1965, fino a 35 000 addetti, senza contare l’indotto. Un polo chimico integrato, ma non solo: cantieri navali, vetrerie, fabbriche per fertilizzanti e materie plastiche, l’alluminio.
Stabilimenti enormi. Tanti.
Oggi, cinquant’anni dopo, “Marghera è un enorme spazio che pare senza confini, abbandonato (in apparenza), punteggiato da impianti lontani e spenti.” (Jacopo Giliberto, Porto Marghera volta pagina. E prova a ripartire con l’industria ‘verde’, Il Sole 24ore, 8 gennaio 2015).
Qual è stato il processo che ha così trasformato questo territorio in solo mezzo secolo? Com’è successo?
Qualsiasi risposta rischia di essere semplificatoria. Chiara Puppini consegna con il suo libro l’inizio di questo processo. O meglio, uno degli inizi. E’ la crisi della Sava, un’azienda che nel 1966 produce il 36% dell’alluminio nazionale e possiede: 2 miniere di bauxite in Abruzzo e Puglia, 1 fabbrica di allumina, 2 fabbriche di alluminio, 1 centrale termoelettrica, 5 centrali idroelettriche, 3 navi da trasporto, 1 fabbrica per prodotti chimici, 50% di una fabbrica che produce polvere e pasta di alluminio, 1 istituto di ricerca.
Ebbene, nel 1971 “i dirigenti della Sava di Porto Marghera [comunicano alle organizzazioni sindacali] la decisione del Consiglio di Amministrazione della Alusuisse [proprietaria della Sava] di chiudere il 15 ottobre la fabbrica Allumina e di licenziare circa 800 lavoratori tra operai e impiegati” (p. 69) che, sommati ai 200 posti precedentemente in cassa integrazione, fanno 1000 licenziamenti!
Il libro racconta la lotta sindacale dei lavoratori per salvare l’azienda e con essa il loro posto di lavoro. La narrazione presenta gli avvenimenti attraverso le cronache giornalistiche dell’epoca, i volantini sindacali e i comunicati aziendali, le fotografie delle manifestazioni sindacali e quelle delle trattative tra sindacati e azienda, le interviste ai dirigenti aziendali e sindacali di allora. In quelle pagine si respira l’aria dell’epoca: la solidarietà operaia, la vicinanza effettiva delle istituzioni e delle forze politiche con chi lavora e produce ricchezza. Si sente – siamo agli inizi degli anni Settanta – una cultura che mette al centro il lavoro. Ciò nonostante, il 26 gennaio 1972 l’Allumina chiude. Nel 1973 l’area Sava di Marghera viene suddivisa con altre società e negli anni successivi l’intera produzione dell’alluminio a Marghera viene dismessa. Il 12 settembre 1991 ci sarà l’ultima colata di metallo.
Insomma.
“La storia della Sava è paradigmatica: il primo episodio della crisi di Porto Marghera. Assistiamo in questi anni a cambiamenti rapidissimi: all’epoca si parlava di decenni, comunque un cambiamento era ineludibile. Lo stabilimento di Allumina di Marghera veniva rifornito di bauxite che proveniva dall’Istria, dalla Puglia, tutte miniere che negli anni Settanta non avevano più senso – se si pensa come veniva estratta la bauxite in Australia a cielo aperto. Era l’inizio di un certo tipo di globalizzazione.” (p.98)
Chi parla è Giorgio Berner, allora giovane dirigente della Sava.
“Allora c’era qualcuno che pensava che Porto Marghera per i successivi cinquant’anni potesse restare sempre così, invece purtroppo la realtà è in continuo movimento. Quando l’Alusuisse ha scoperto che in Australia non era più necessario andare sottoterra a ottocento metri per cercare quel minerale dal quale poi si ricavava l’allumina, ma c’erano miniere a cielo aperto, bastava andare con i bulldozer… da lì è incominciata ad andare in crisi … Porto Marghera” (p. 101)
Chi parla è Bruno Geromin, allora segretario dei metalmeccanici CISL a Marghera.
In conclusione.
La Puppini non vuole nascondersi dietro una falsa oggettività da ricercatrice ma prova a tirare delle conclusioni per il presente e per il futuro:
“Nell’ottica delle responsabilità occorre ripensare ai doveri/diritti di ciascuno; da una parte il dovere di rispettare l’ambiente e di garantire la produttività, dall’altra – cioè dalla parte operaia – il dovere di fare bene il proprio lavoro, ma il diritto di non morire sul posto di lavoro, il diritto di vivere in un ambiente sano, i cui tempi siano modulati sull’uomo e non sulla macchina, il diritto di trovare anche soluzioni migliorative, cioè di dare il proprio contributo di esperienze per un’umanizzazione dell’organizzazione del lavoro. Questo vuol dire riappropriarsi del proprio lavoro e responsabilità per le parti che competono a ciascuno; al finanziatore, al produttore, all’esecutore, al fruitore.” (p. 125)
La nostra autrice si accorge, però, che sta chiedendo tanto, forse troppo.
“Un sogno? Alle volte sognare aiuta a cambiare la realtà, poi, però, bisogna attrezzarsi per realizzare i sogni.”
Enzo Guanci
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Storia di donne e di uomini, di acque e di terre – BELLAFRONTE (CN)
BELLAFRONTE, E. Russo. Storia di donne e di uomini, di acque e di terre. Barletta: Editrice Rotas, 2009. Resenha de: GUANCI, Vincenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
Il sale non è solo l’ingrediente per rendere “saporita” la nostra alimentazione quotidiana. Il sale è assolutamente necessario nell’industria chimica, nella concia delle pelli e, naturalmente, per la fabbricazione dei prodotti agroalimentari. Pervade la nostra vita quotidiana. Ma non da ora; fin dal Neolitico i gruppi umani scoprirono l’importanza strategica di una materia prima necessaria all’alimentazione e che, per di più, consentiva la conservazione dei cibi. La storia dell’umanità è punteggiata da alleanze e conflitti per il controllo della produzione del sale, che, fino a pochi decenni or sono, era monopolio statale, e non solo in Italia.
Al museo della salina di Margherita di Savoia si impara la storia. La storia del sale e delle saline, la storia di Margherita di Savoia, delle sue donne, dei suoi uomini, dei suoi bambini, del loro lavoro, della loro vita.
Questo ci dicono e ci fanno capire Francesca Bellafronte ed Enzo Russo con il loro libro-catalogo del museo, Storia di donne e di uomini, di acque e di terre, editrice Rotas, Barletta, 2009.
La felice scelta degli autori è quella di dare al libro un’impostazione di tipo didattico.
Innanzitutto, la salina di Margherita di Savoia è raccontata secondo una struttura “presente-passato-presente”, che con tutta e immediata evidenza dà conto dei motivi per cui oggi valga la pena di studiare la storia di una realtà importante come la salina.
In secondo luogo, le difficoltà del testo storiografico sono stemperate attraverso l’uso della domanda e della risposta. Intendiamo dire, per esempio, che un testo descrittivo-argomentativo con un intrinseco rischio di forti asperità lessicali e concettuali, come quello sulle innovazioni tecniche nel XIX secolo, viene invece smontato, tematizzato, problematizzato e risolto con risposte relativamente brevi e piane a dieci domande:
- perché nel primo trentennio del XIX secolo prese corpo l’ipotesi di bonifica del lago Salpi?
- Quali conseguenze produsse la riduzione della profondità del lago?
- Quale problema destava più preoccupazione?
- Come si intervenne per risolvere questi problemi?
- Quale era il progetto di Afan de Rivera?
- Gli obiettivi di Afan de Rivera furono raggiunti?
- Come si presentava il nostro territorio a metà Ottocento?
- Quali erano le vie di comunicazione a metà Ottocento?
- Qual era la produzione della salina?
- Come si spiega l’incremento produttivo di inizio Novecento?
In terzo luogo, le tantissime riproduzioni di documenti d’archivio, carte topografiche, fotografie d’epoca, non svolgono una mera funzione esornativa bensì costituiscono, assieme ai testi, parte integrante del materiale per la costruzione della conoscenza storica di chi legge e studia.
Infine, due testi introduttivi e un glossario forniscono gli strumenti cognitivi e concettuali per seguire senza difficoltà, sia la visita al museo sia la sola lettura del libro.
Si inizia con la descrizione della salina oggi, all’inizio del XXI secolo: dove si trova, come funziona, con quali macchine; ci si sofferma sui procedimenti di produzione del sale, si scopre come viene impacchettato, come viene trasportato nelle varie parti d’Italia e del mondo; si arriva fino alle innovazioni più recenti, quale, per esempio, l’arricchimento con lo iodio introdotto da una legge del 2005.
La seconda parte del volume racconta il passato, la storia della salina. Si va dalla prima attestazione documentaria di una salina nella Tavola Peutingeriana, che nel XII secolo segnala la presenza di saline sulla costa adriatica già in epoca romana, fino agli anni Sessanta del Novecento. Ma alcune tracce la fanno risalire al Neolitico; si tratta delle cosiddette “vasche napoletane”. Cosa sono? Ce lo spiegano F. Bellafronte e E. Russo: “due canalette circolari, scavate su una piattaforma di pietra nell’età del Bronzo, rinvenute nei pressi del canale Carmosino. Probabilmente erano utilizzate per lo scolo dei sali di magnesio, più amari, dai cumuli di cloruro di sodio.”
La modernità irrompe nella salina in epoca illuminista con l’intervento del Vanvitelli, ingegnere e architetto, colui che aveva progettato la reggia di Caserta, chiamato dal re di Napoli, Carlo III di Borbone, ad ammodernare e riorganizzare la salina, per aumentarne la produzione. Nel XVIII secolo, ci ricordano gli autori, le “tecniche produttive erano rudimentali e basate sull’impiego di attrezzi manuali, per lo più azionati con la forza della braccia. L’energia animale era impiegata nel trasporto del sale: i cavalli trainavano i carretti carichi di sacchi di sale fino alla spiaggia, dove prendevano la via del mare. L’energia solare ed eolica, allora, come oggi, erano le principali protagoniste del processo di salinazione, attraverso l’evaporazione dell’acqua”. Vanvitelli risistemò le vasche, “attraverso l’eliminazione degli isolotti di terra, il livellamento del fondo e il consolidamento della base degli argini d’argilla, mediante l’inserimento di una fila di tufi.” Ma, naturalmente, non si limitò a questo; rese più vivibile l’ambiente, ampliò la base produttiva della salina e, soprattutto, introdusse le “coclee di Archimede”, chiamate volgarmente “trombe”, macchine che sostituivano i tradizionali “sciorni”.
Lo sciorno, ci spiegano gli autori, “consiste[va] in una specie di parallelipedo aperto su un lato, della capacità di due secchi, fissato ad un treppiede per mezzo di una fune. Veniva azionato a braccia: ci voleva un movimento continuo e ripetuto dei salinieri, per trasferire tutta l’acqua da un vaso all’altro” (cfr. illustrazione a p. 61). Le coclee di Archimede permettevano di “sollevare più facilmente l’acqua, in tempi più veloci e con minore fatica, superando i dislivelli altimetrici tra gli scaldati ed i campi” (p. 65) comportando anche una notevole riduzione di manodopera.
E così via. Il racconto del passato della salina di Margherita di Savoia viene presentato prestando sempre molta attenzione al contesto storico del tempo, spiegando le trasformazioni locali nella salina con il quadro politico, economico, sociale e culturale italiano ed europeo. Insomma, un esempio di come si può studiare la storia locale senza scadere nel localismo sterile che non ci fa capire i veri movimenti della storia.
Il libro si conclude con una bella carrellata di fotografie sulla evoluzione delle tecniche nel XX secolo rispetto alle problematiche di sempre della salina:
- raccolta e ammassamento del sale;
- pesatura e confezionamento;
L’accelerazione novecentesca appare in tutta la sua evidenza dalle fotografie degli zappasale al lavoro nei primi anni del Novecento, alla prima introduzione degli elevatori meccanici negli anni Dieci, alla velocizzazione con i nastri trasportatori negli anni Trenta, alla foto del capannone Nervi in funzione fino agli anni Settanta.
Insomma una pubblicazione di storia locale e di storia generale, di storia della tecnica e di storia sociale; una guida per una visita al museo e un percorso di educazione al patrimonio culturale. Impreziosita, tra l’altro, dall’accuratezza della grafica che rende leggibili le riproduzioni cartografiche e godibili quelle fotografiche.
Del resto già Giorgio Nebbia nella sua ricca e impegnata presentazione iniziale ci ricorda che oggi – dati del 2007 – nel mondo si producono ancora circa 250 milioni di tonnellate di sale, a testimonianza della sua importanza economica.
“Esiste tutta una economia e fiscalità del sale, una merce così importante – scrive Nebbia – che tutti i potenti ne hanno approfittato per ricavare imposte e per instaurare monopoli sul suo commercio. Salaria, Salina, Sale, Saline… sono i nomi di località e strade associate alla produzione e al commercio del sale. Plinio ricorda le saline di Taranto, di cui oggi resta traccia soltanto in un toponimo. E al sale era associato anche il nome di Salapia, Salpi, la misteriosa città che sorgeva proprio alle spalle della più grande salina del Mediterraneo, quella di Margherita di Savoia.” (p. 6).
Appunto a questa è dedicato il Museo, a parere dello stesso Nebbia di grande interesse per almeno tre motivi:
costituisce un opportuno riconoscimento dell’importanza dell’energia solare, il cui impiego nella salina di Margherita ammonta su base annua all’equivalente energetico di tre milioni e mezzo di tonnellate di prodotti petroliferi.
Mostra la lenta formazione del sale nelle saline solari, la nascita di cristalli diversi, mano a mano che con l’evaporazione si separano i vari sali. “Uno spettacolo che meriterebbe un film, tanto più che simili fenomeni si verificano nelle pentole, quando bolle l’acqua per la minestra, sulle serpentine degli scaldabagni …”
Recupera e valorizza la conoscenza di una peculiare industria chimico-mineraria, tipica del Mezzogiorno.
“Il recupero della storia e delle tecniche salinare di Margherita contribuirà – secondo Nebbia – a conservare e far crescere la conoscenza e l’orgoglio operaio e imprenditoriale proprio in Puglia, tanto più che le saline di Margherita sono state ricche di innovazioni sia meccaniche, sia chimico-industriali …”
Enzo Guanci – Membro della segreteria nazionale di Clio ’92, Associazione di insegnanti e ricercatori sulla didattica della storia. Ha insegnato Storia e ricoperto il ruolo di dirigente scolastico nella scuola secondaria di II grado. Recentemente ha curato, assieme a Carla Santini, il volume Capire il Novecento, FrancoAngeli editore, Milano, 2008. Svolge attività di formazione, ricerca e aggiornamento sulla didattica della storia.
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Il bisogno di pátria – BARBERIS (CN)
BARBERIS, Walter. Il bisogno di pátria. [Torino]: Einaudi, 2004 e 2010. 141p.. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
“Come figli di una famiglia senza armonia e senza memorie, gli italiani si sono spesso cresciuti da soli, superando la solitudine con cinismo, con opportunismo, con diffidenza, talvolta con esibizionismo. Ignorando le ragioni e l’utilità di una salvaguardia dell’interesse generale. E’ così che l’idea di patria si è di volta in volta caricata di significati che invece di tendere all’unità hanno accentuato visioni faziose, volte all’esclusione.” (p.7)
Con queste parole W. Barberis ripropone la questione della patria, o meglio della mancanza di un’idea di patria per gli italiani, partendo dalla sua considerazione che tale mancanza non ha inizio, come è stato scritto, l’8 settembre 1943, ma ben più in là, almeno cinque, se non quindici, secoli or sono. Egli sviluppa le sua argomentazioni annodandole intorno a tre temi, o meglio, intorno a tre “bisogni”, a ciascuno dei quali dedica quarantadue pagine: il bisogno di Stato, il bisogno di storia, il bisogno di patria.
Quale patria?
“una patria che non disegni i confini di un’identità chiusa, esclusiva; ma che prenda valore dalla consapevolezza della pluralità storica dei suoi volti. Una patria che non dimentichi di richiedere a chi appartenga alla comunità il rispetto delle tradizionali virtù civiche: l’obbligazione fiscale, l’esercizio della giustizia, la difesa delle istituzioni dello Stato.” (p. 10)
Il libro guarda al futuro, sia pure riflettendo sul passato. Si tratta, infatti, di un libro di storia. Perché, ricorda l’autore, ” è la storia ciò di cui ha bisogno un popolo: qualcosa che rimetta in ordine, oltre lo spirito di parte, la dinamica degli avvenimenti e le loro molteplici ragioni.” La memoria ha uno sguardo parziale e, pertanto, non può nutrire che sentimenti patriottici esclusivi; memorie differenti si contendono lo spazio della patria “una” tendendo ciascuna a farsi storia. E’ proprio questa contesa che una società sana deve evitare. E la storia ha esattamente questa funzione: “affidata a protocolli riconosciuti da una comunità scientifica”, attraverso procedure di analisi e interpretazioni, ha il compito di fornire alla comunità intera uno sguardo generale. Barberis esemplifica tutto questo nelle pagine dedicate a sviluppare il tema del bisogno di storia indicando le linee per la costruzione di una “dotazione storiografica comunitaria – se vogliamo nazionale – … [uscendo] dalle contingenze e dalle urgenze della contemporaneità. L’Italia ha una storia millenaria, tutta utile alla definizione dei suoi caratteri attuali e alla possibilità di emendarli.” E qui vengono ricordati i soggetti necessari a costruire una storia d’Italia: la Chiesa innanzitutto, Roma, i municipi, il Mezzogiorno, la Repubblica, la Costituzione.
La storia ci conferma che una comunità priva di un apparato statuale efficiente e condiviso non è davvero tale, poiché ciascuno in misura più o meno grande inclina infine verso il proprio interesse privato, provocando proprio ciò che tanto spesso è stato incolpato agli italiani: opportunismo, trasformismo, dissimulazione, mancanza di senso dello Stato, appunto. Barberis mostrando la necessità di uno Stato per gli italiani ripercorre la storia della sua formazione a partire dalla risposta alla domanda: perché proprio il Piemonte (e non un altro tra gli Stati d’Italia) unificò la penisola fondando lo Stato italiano?
“Il Piemonte, selvatico e periferico, non aveva conosciuto gli splendori della civiltà comunale e signorile… La certezza delle istituzioni, la loro continuità, la prospettiva di durata della dinastia, il suo radicamento territoriale, fecero ciò che non conobbe il resto d’Italia: assicurarono i sudditi che le loro iniziative erano possibili, che avevano i requisiti minimi di riuscita, primo fra tutti il tempo, garante eccellente di ogni contratto…. non furono simpatia, garbo e cultura; ma senso dello Stato, tecnica amministrativa e militare, e anche un certo patriottismo, il bagaglio eccentrico con cui poi i piemontesi si disposero all’incontro con gli altri italiani.”(p. 21)
Il bisogno di patria, la coscienza di appartenere ad un’unica comunità, furono esigenze che si rappresentarono immediatamente dopo la fondazione dello Stato italiano e sono state preoccupazioni presenti finora nella classe dirigente per tutti i centocinquant’anni dal 1861. All’inizio fu soprattutto la letteratura a svolgere il ruolo più importante, si pensi solo alle poesie di Carducci e al Cuore di De Amicis, ma poi dopo la prova tremenda della Grande Guerra, fu il fascismo a forgiare l’idea di patria sovrapponendola alla retorica della guerra, aiutato in questo dalla letteratura futurista. Così si confuse patria con nazionalismo, aggressione e morte, con la guerra appunto.
Oggi, bisogna ricostruire per gli italiani un’idea di patria che escluda non solo guerra ma anche la sopraffazione degli altri popoli , i quali, al contrario, vanno inclusi in un’idea di patria meticciata, alla quale partecipano tutti coloro che hanno la fortuna di abitare un paesaggio unico al mondo, poiché, ricorda Berberis citando Settis, “il nostro bene culturale più prezioso è il contesto, il continuum nel quale si iscrivono monumenti, opere, musei, città e paesaggi, in un tessuto connettivo ineguagliabile… questo è il tratto identitario degli italiani” (p.111). Se questo è vero, come è vero, vuol dire che insegnare storia d’Italia significa insegnare contemporaneamente geografia d’Italia, poiché ciò che conta imparare, va ribadito, è innanzitutto il contesto, di tempo e di spazio.
[IF]Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro – PALLOTTI (CN)
PALLOTTI, Gabriele; CAVADI, Giorgio. Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro. Formello (Roma): Bonacci editore, 2012. Resenha de: GUANCI, Enzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
A cura di Enzo Guanci.
“Mangiare non era l’unico intrattenimento. Nel Rinascimento infatti ci si divertiva in molti modi e anche questo ci fa capire come ci si sentisse più liberi. Nel Medioevo la Chiesa controllava tutta la vita delle persone e considerava i giochi come una specie di peccato: quindi non si giocava molto e chi lo faceva doveva un po’ vergognarsi. Invece nel Rinascimento il gioco diventa una parte importante della vita: tutti, ricchi e poveri, giocano in ogni luogo, in casa, nei negozi , nelle osterie, nelle strade e nelle piazze.” (p. 86)
Questa è una notizia tratta dalle ventisette pagine dedicate al Rinascimento nella “storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro” da Gabriele Pallotti e Giorgio Cavadi. L’informazione sui giochi si trova nella pagina dedicata al “divertirsi ” nel paragrafo “La vita nel Rinascimento”, che costituisce la parte più corposa del capitolo; gli altri paragrafi sono dedicati alla geopolitica (gli Stati nazionali; le signorie, piccoli stati regionali) e a fornire informazioni di contesto che consentano di comprendere il Rinascimento italiano nel quadro europeo. La scelta degli autori è appunto quella di incentrare il loro manuale sulle condizioni di vita, sui costumi, sulle abitudini sociali degli italiani piuttosto che sugli avvenimenti della politica nel corso dei secoli. La selezione dei contenuti quindi affranca il manuale dalla congerie dei numerosissimi eventi del tempo breve della politica, concentrandosi sulla descrizione delle strutture delle società italiane presentate in cinque “epoche”, come programmaticamente esplicitato nell’introduzione: Roma, il Medioevo, il Rinascimento, l’Ottocento, il Novecento. Ciò consente di “raccontare” l’Italia dall’VIII sec. a. C. alla fine del XX secolo in poco più di centoquaranta pagine! E per chi volesse approfondire ci sono tre pagine di riferimenti bibliografici.
In realtà, la storia non viene “raccontata”: non ci sono, per esempio, i personaggi e gli episodi che tradizionalmente punteggiano la storia d’Italia dei nostri manuali scolastici, che generalmente fanno della storia politica e delle istituzioni un genere storiografico noioso e poco comprensibile agli studenti della scuola secondaria. Gli autori segnalano fin dal titolo lo sforzo di descrivere la carrellata dei ventotto secoli di storia italiana “in modo semplice e chiaro”. Non era facile. Loro ci sono riusciti. Sulla base di due idee-forza: costruire un linguaggio piano, controllato al punto da riuscire “semplice”; costruire un affresco del passato d’Italia sulla base delle conoscenze essenziali a comprendere le trasformazioni delle società e dei popoli italiani dall’epoca romana al Novecento. E, siccome il libro è pensato per comprendere l’Italia di oggi, l’intero testo è punteggiato frequentemente da riferimenti e riflessioni sull’attualità, anche con un apposita rubrica titolata “ieri e oggi” (Per esempio, nelle pagine in cui si parla della repubblica romana e della figura istituzionale del dictator la rubrica viene usata per sollecitare una riflessione sul mondo attuale:
“Anche in tempi più recenti qualcuno ha pensato che un dittatore solo con tutto il potere riesca a governare lo Stato meglio di un’assemblea di rappresentanti. Ad esempio in Italia, durante il fascismo, Mussolini…. Uno Stato in cui decide una persona sola si chiama assoluto o autoritario. Uno Stato in cui le decisioni sono prese dai rappresentanti eletti da tutti i cittadini si chiama democratico. Hai mai pensato cosa si guadagna e cosa si perde in ciascuno di questi sistemi?”).
Leggendo attentamente il libro a noi pare emerga chiara la difficoltà di raccontare la storia politica “in modo semplice e chiaro” senza cadere nella banalizzazione. Un esempio, a noi sembra, possa essere fornito dalle due-tre pagine dedicate al Risorgimento (L’Italia diventa un Paese unito, pp. 97-99) nelle quali Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi si muovono come personaggi di un “racconto” dal quale sono espunte le problematizzazioni del fenomeno risorgimentale, perché i problemi non si possono “raccontare” e se lo si fa è quasi impossibile farlo con un “linguaggio semplice e chiaro”: si rischia appunto la “banalizzazione”. I nostri autori hanno intelligentemente evitato questo rischio proponendo una storia d’Italia dal punto di vista economico e sociale, come espressamente dichiarato nell’introduzione.
Infine va anche sottolineato che il libro non dimentica la sua funzione di strumento per l’apprendimento della storia e pur non proponendo esplicitamente esercitazioni per sviluppare le abilità di base della disciplina, l’uso di linee del tempo, tabelle, cartine tematiche, illustrazioni non di carattere esornativo bensì inserite e commentate nel testo, e l’esortazione frequente a riflettere su analogie e differenze tra passato e presente (Ieri e oggi, Pensaci su) indica implicitamente a chi ha la responsabilità dell’insegnamento la strada migliore per interessare gli allievi a imparare la storia d’Italia.
Maggio 2012
[IF]Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche – BETTINI (CN)
BETTINI, Maurizio. Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche. Bologna: Il Mulino, 2014. 155p. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.
“La pluralità degli dèi non costituisce l’essenza delle religioni politeistiche, come vorrebbe farci credere il nome che le designa, ma solo la condizione necessaria affinché esse possano esplicare la virtù che meglio le caratterizza: ossia la capacità di pensare in modo plurale ciò che ci circonda e, nello stesso tempo, di fornire altrettanti modi d’azione per interpretarlo e intervenire su di esso” (pag. 111).
Maurizio Bettini, antropologo del mondo antico, ci fa conoscere in questo libro la specificità e l’originalità delle religioni politeistiche dell’antichità attraverso la costruzione della concettualizzazione di “quadro mentale” che, per capirci, è, nel nostro mondo, “quello costituito dalla convinzione profonda, e spesso talmente interiorizzata da risultare inconscia, che non possa esservi se non un solo e unico Dio.” (p. 21). Tale quadro mentale oggi connaturato a quella buona parte del pianeta che professa religioni monoteiste viene opposto a quello delle società antiche politeiste, in particolare quelle greca e romana. Beninteso, va subito sgombrato il campo da vecchie gerarchie evolutive di stampo colonialista, eurocentriche e cristianocentriche che considerano la religione greca e romana come una mitologia pagana e idolatra, “superata” dal cristianesimo unica e vera religione. “Gli dèi che furono venerati e onorati da [queste] due civiltà – ricorda Bettini – sono stati al centro di organizzazioni sociali, culturali e intellettuali molto complesse…” (p.9) che si fondavano, tra l’altro, su una concezione della cittadinanza considerata importantissima, al punto da coinvolgere perfino il mondo degli dèi. Infatti, nel quadro mentale dei Romani gli dèi di un altro popolo, amico o conquistato, venivano cooptati all’interno della civitas romana. Tutt’altra cosa dalla tolleranza alla quale siamo esortati dal migliore cristianesimo dei nostri tempi.
In fondo tutto il libro di Bettini costituisce una comparazione tra il quadro mentale delle religioni politeistiche e quello dei monoteismi ebraico-cristiano e islamico.
Innanzitutto, la questione della violenza. Se è vero che Greci e Romani hanno combattuto guerre e perpetrato massacri non hanno mai fatto guerre “per affermare una religione sull’altra, come invece hanno fatto nei secoli successivi cristiani e musulmani” (p. 43).
Il fatto è, sostiene Bettini, che il politeismo è flessibile: “la messa in valore di alcune caratteristiche proprie di ciascuna divinità (il fornire alimento, il portar semi, la stabilità) [costituiscono un] tramite cui costruire inferenze che producono di volta in volta l’identificazione con un’altra divinità” (p.69) ovvero la traduzione di una divinità da una cultura ad un’altra. Gli esempi sono molteplici: l’egizio Serapide diventa Esculapio o Iuppiter a seconda delle caratteristiche del dio, il Wotan germanico è identificato con Mercurius, ecc.
Il monoteismo, al contrario, non può che essere rigido, costruito com’è su una verità scritta direttamente da Dio: le sacre scritture.
Se è vero che la Chiesa cattolica “produce” una quantità sterminata di santi e beati, soddisfacendo le esigenze di “protezione divina” delle diverse attività umane, è vero altresì che il Catechismo della stessa Chiesa ribadisce l’esistenza di un solo “Dio unico e vero”. Con l’aggiunta che “evangelizzando senza posa gli uomini la Chiesa si adopera affinché essi possano ‘informare dello spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità’ in cui vivono” (p.45). Di qui allo Stato confessionale il passo è (è stato?) breve.
[IF]Culture del consumo – CAPUZZO (BC)
CAPUZZO, Paolo. Culture del consumo. Bologna: Il Mulino, 2006. 334p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.179-183, giu./nov., 2019.
Paolo Capuzzo, docente di storia contemporanea presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna, ricostruisce in questo libro la nascita, lo sviluppo della società dei consumi e le modificazioni culturali che ne accompagnano l’espansione in Europa tra il Seicento e l’inizio del Novecento. L’esperienza europea è collocata all’interno del processo che dalle prime conquiste coloniali ha portato alla formazione dell’economia mondiale.
Si mettono a fuoco da un lato la progressiva acquisizione di forza politico-economica della società europea, in particolare di quella dell’Europa urbana del Nord, dall’altro la sua capacità di democratizzarsi, nel momento in cui le classi subalterne si appropriano di beni inizialmente appartenenti alla sfera del lusso.
Il libro è suddiviso in 5 capitoli preceduti da un’Introduzione nella quale vengono delineate le linee di forza dell’intero percorso e le tematiche centrali: • il rapporto tra consumi europei e commercio mondiale • la dimensione etica del consumo • la costruzione della sfera privata • la regolazione dei rapporti di classe • la costruzione di uno spazio pubblico del consumo “Ricostruendo la storia della diffusione dello zucchero, del caffè, del tabacco, del tè, della cioccolata è possibile- scrive l’autore- mettere in evidenza i rapporti tra la domanda europea, la conquista di basi e monopoli commerciali, l’organizzazione della produzione di questi beni.
La diffusione delle nuove bevande mostra poi come, una volta approdate nei grandi porti commerciali europei, queste merci subissero un variegato processo di appropriazione da parte dei consumatori […]. Le nuove culture del consumo che si costruiscono in Europa attraverso queste bevande non sono, insomma, un epifenomeno dell’espansione coloniale, ma rispondono a un processo di produzione della quotidianità, nella quale agiscono soggetti che si appropriano di tali risorse.” (p. 10).
Nel momento in cui la ricchezza e il potere non derivano più dall’appartenenza ad un ceto sociale, ma dal successo del mercato sono i modi del consumo a decidere dell’inclusione o dell’esclusione da una determinata cerchia sociale.
Il lusso si popolarizza sovvertendo le tradizionali gerarchie sociali. E’ dunque evidente il legame tra la diffusione dei liberi consumi e il progresso della democrazia.
I processi di consumo appartengono ad una sfera dotata di autonomia, ma sono in stretta relazione con la definizione delle identità, con la costruzione dei rapporti sociali e di genere.
Il consumatore non è visto come un terminale passivo di un processo di manipolazione dei suoi desideri, ma come individuo capace di attribuire un significato al consumo, pur all’interno di un habitus, cioè di un insieme di principi legati all’estrazione sociale e interiorizzati fin dall’infanzia che ne orientano l’azione attribuendo un determinato valore alle cose.
Tale habitus viene progressivamente messo in crisi dal processo di commercializzazione, dalla logica del profitto, che utilizza la moda e la pubblicità come criterio di valore di una merce.
“La forza semiotica della commercializzazione contemporanea, scrive ancora l’autore, è certamente un carattere inedito nella creazione dell’immaginario, cosa che distingue la nostra società da quelle precedenti […] tuttavia i consumatori continuano a far udire la loro presenza […]”. (p. 15 ).
Ciascuno dei cinque capitoli in cui si articola il volume offre una sintesi ragionata degli studi prodotti dalla storiografia internazionale sui vari temi, corredata da un’ampia bibliografia.
Capitolo 1. Consumi europei e globalizzazione del commercio tra XVII e XVIII secolo
Si analizza in queste pagine l’espansione del commercio europeo all’inizio dell’Età moderna, la nascita di una prima globalizzazione collegata al colonialismo e ad una grande disponibilità di risorse materiali.
Si sottolinea il fatto che gli sviluppi e il rinnovamento dei consumi in Europa sono intimamente connessi ad un nuovo assetto del potere mondiale ottenuto con la disponibilità finanziaria, la superiorità tecnologica, con la forza delle armi e con la deportazione della manodopera africana impegnata nelle miniere di metalli preziosi e nelle piantagioni americane.
Le colonie sono luogo da cui prelevare materie prime come zucchero, caffè, legname, tabacco, cotone da trasformare e rivendere poi come prodotti finiti a prezzi ben più alti.
Sulle tavole europee arrivano nuovi prodotti (patate, pomodori, cacao, fagioli, frutta tropicale, mais, zucche) inizialmente utilizzati solo dalle classi sociali più alte, ma accessibili poi anche ad altre classi sociali, quando la produzione col sistema delle piantagioni e la commercializzazione su larga scala ne abbassano i prezzi.
Caffè, tè e tabacco (il primo dei prodotti esotici ad essere consumato dalle masse) vengono subito apprezzati per la loro capacità di garantire lucidità, al contrario del vino.
Il consumo di questi prodotti si associa anche a una specifica ritualità praticata in nuovi spazi pubblici come le coffee e le tea houses, fattori formidabili di “sociabilità”, o nelle case private, nell’ambito di un mondo soprattutto femminile.
I primi locali detti caffè, dal nome della bevanda che vi si consumava, nascono a Venezia alla metà del Seicento e diventano di moda nel secolo successivo in tutte le grandi città europee. Sono frequentati da un’ élite di uomini d’affari che leggono i giornali, discutono di politica. Vi si aggiungono poi artisti e scrittori.
Capitolo 2. Lusso, moda e ordine sociale tra XVIII e XIX secolo
Il capitolo è dedicato nella prima parte ad una riflessione sul lusso, alla sua funzione nella società di corte, in particolare quella francese, e alla sua progressiva “popolarizzazione”.
Nelle società di corte il consumo designa un modello particolare di sociabilità, quello dei cortigiani e delle cortigiane, che si afferma poi come modello anche nelle grandi città europee come Parigi, la capitale del gusto, soprattutto per le donne che frequentano i salotti dell’alta società. Quello dell’apparire, grazie all’uso di cosmetici, gioielli, abiti eleganti, diventa un valore sempre più ricercato dai nuovi ricchi, da esibire sia nella sfera privata che in quella pubblica dei teatri, delle sale da musica, dei ristoranti.
Nei contesti cittadini è lo stile del consumo a decretare l’inclusione o l’esclusione da una certa schiera di persone. La ricchezza derivante dal mercato ha sostituito la nobiltà di nascita nella costruzione della posizione sociale e pubblica, soppiantando anche qualunque codice etico nell’accumulazione del reddito.
Nasce in questi anni la categoria di “povertà” dove la miseria materiale è strettamente connessa a quella morale.
La questione dell’apparire contrapposto all’essere è al centro di molti dibattiti nel Settecento: c’è chi critica il lusso in nome di un ideale di uguaglianza sociale, chi lo considera un’opportunità per scardinare un rigido ordinamento sociale.
Molti autori concordano sul fatto che la grandezza delle nazioni si fonda sul lusso, sulla forza economica, non sulle virtù dei cittadini: è impossibile controllare e organizzare una società in base a dei valori condivisi che restano appannaggio della sfera privata.
Il dibattito proseguirà nei secoli successivi accanto al filone della critica moralistica del lusso considerato responsabile della decadenza culturale.
La seconda parte del capitolo affronta la questione della moda come nuova dimensione del consumo a partire dalla fine del Settecento. L’ostentazione del lusso cede il passo alla sobrietà, alla scelta di un abbigliamento regolato da specifici galatei, diversificato in base all’età, alle differenze di genere e ai vari contesti.
La diffusione della moda è legata agli spazi urbani delle città, alle vetrine dei negozi, alle illustrazioni colorate e alla pubblicità sui giornali.
Essere bella, elegante, consona alle varie situazioni sociali è una precisa missione sociale per la donna borghese dell’Ottocento: è occasione di legittimazione sociale e anche indiretta dimostrazione del successo economico maschile.
Le classi sociali inferiori subiscono il fascino della moda e sono spinte a imitare quelle superiori che, dal canto loro, cambiano spesso abbigliamento per mantenere la distinzione.
Si innesca così un meccanismo di continua emulazione. Lo sviluppo della moda in Inghilterra alla fine del Settecento può essere considerato come una delle cause della rivoluzione industriale favorita anche dall’importazione del cotone, usato per produrre tessuti meno costosi.
Nel corso dell’Ottocento la produzione del vestiario si diversifica in base a due segmenti di mercato: quella industriale di massa sia per i lavoratori delle grandi città che per le uniformi dell’esercito e quella dei laboratori di sartoria che, grazie all’uso delle macchine da cucire, confezionano abiti su misura per la clientela più ricca.
Il Novecento vede poi l’allargamento della classe media e la nascita dei grandi magazzini che propongono abiti colorati, in fibre sintetiche, standardizzati, ma anche diversificati in base alle varie esigenze della vita moderna.
Capitoli 3 e 4. Culture del consumo delle classi medie e della classe operaia
Questa parte del libro è centrata sull’analisi e sul confronto fra queste due classi sociali in un periodo che va dal 1700 all’inizio del 1900.
Le descrizioni sono declinate al plurale tenendo conto delle variabili geografiche, delle trasformazioni nel corso del tempo, delle dinamiche di distinzione, conflitto, emulazione.
Della classe media si sottolinea l’importante funzione di separare lo spazio pubblico da quello domestico, luogo della convivenza familiare, al riparo dalla corruzione della città.
Le famiglie borghesi in Olanda e in Inghilterra hanno il compito di ricostruire una sfera morale che l’economia e la politica non sono in grado di proporre.
Il lavoro femminile si sposta all’interno della casa dove la moglie si dedica all’amministrazione, all’arredamento, alla cucina e alla cura dei figli lasciando al marito il compito di provvedere alle necessità economiche della famiglia.
La classe operaia valorizza molto meno la sfera privata della casa, dove molte donne non possono inizialmente svolgere un ruolo simile a quelle della borghesia. Sono spesso costrette a lavorare in fabbrica assieme ai mariti e ai figli, con i quali condividono anche momenti di tempo libero fuori casa: in spazi pubblici, pub e taverne, luoghi di consumo di alcol, gioco e scommesse.
Le tipologie abitative delle due classi sociali sono ampiamente descritte e messe a confronto per quanto riguarda il numero di stanze, l’arredamento, le spese destinate ai consumi domestici.
Tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento la classe media, fatta di commercianti, imprenditori, professionisti e funzionari statali, assume un ruolo sempre più importante nell’Europa nord-occidentale dove si affermano il capitalismo industriale e lo stato moderno.
Il processo di privatizzazione dello spazio abitativo diventa uno dei principi che regolano i consumi nel XX° secolo per quanto riguarda la tipologia delle case e l’arredamento: nasce l’industria di massa del mobile e dei beni durevoli.
La separazione fra spazio privato e pubblico è alla base anche dell’edilizia seriale del Novecento, secolo nel quale gli stili di consumo della classe operaia cominciano ad avvicinarsi a quelli della classe media.
La riduzione dei tempi di lavoro nelle fabbriche lascia spazio a partire dalla fine dell’Ottocento a momenti di divertimento: il gioco del calcio, le vacanze, favorite anche dai mezzi pubblici di trasporto come ferrovie e tram.
La Grande Guerra rappresenta un ulteriore momento di profonda trasformazione della società europea per quanto riguarda la massificazione degli stili di vita, trasformazione che si compie pienamente negli anni Cinquanta dello stesso secolo.
L’industria della cultura di massa è fondamentale nel Novecento: è strumento per regolare il tempo libero, ma anche terreno di eversione identitaria.
Capitolo 5. Lo spazio pubblico del consumo: geografia urbana e reincanto del mondo
Si affronta il tema del consumo come forma di evasione dalla quotidianità, momento da vivere in grandi città quali Londra e Parigi, negli spazi che allestiscono lo spettacolo delle merci dove è possibile sognare ad occhi aperti.
L’autore sottolinea in particolare le trasformazioni della geografia urbana e dei flussi di traffico provocati dalla nascita dei grandi magazzini, strutture sviluppate su più piani, dotate di grandi vetrine e insegne luminose. Questi nuovi spazi pubblici del consumo sono frequentati soprattutto dalle donne della classe media, libere di muoversi anche non accompagnate dagli uomini.
Interessanti le osservazioni a proposito della nuova figura delle commesse che anticipano stili di vita femminili del Novecento.
La commercializzazione dei prodotti riceve un grande impulso nella seconda metà dell’Ottocento dalle grandi esposizioni di Londra, Vienna, Parigi che nel 1900 totalizza quasi 50 milioni di visitatori.
Livia Tiazzoldi
[IF]L’età del disordine. Storia del mondo attuale 1968-2017 – DETTI; GOZZINI (BC)
DETTI, T.; GOZZINI, G. L’età del disordine. Storia del mondo attuale 1968-2017. Bari-Roma: Laterza, 2018. 210p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.190-192, giu./nov., 2019.
Cinque anni nel cuore del Novecento trasformano il XX secolo: dal 1968 al 1973 si manifestano o accelerano in modo significativo mutamenti strutturali che, spesso in modo graduale e in parte inavvertito, danno forma al mondo attuale. Questa è la tesi dei due autori: in quegli anni si sono poste le radici di uno stravolgimento economico, sociale e culturale che ha generato un grande disordine planetario, vissuto spesso con ansia e paura; una congiuntura che richiede l’elaborazione di coordinate orientative, al fine di affrontare le sfide globali che ci sovrastano: migrazioni, disuguaglianze, clima, finanza, povertà.
Lo shock petrolifero del ’73 pone per la prima volta in modo drammatico l’Occcidente di fronte al problema delle fonti di energia; il ciclo economico innescato determina un lungo periodo di stagnazione e di inflazione, accelerando processi ancora in atto. La globalizzazione acutizza fenomeni capaci di trasformare radicalmente gli equilibri mondiali. È l’”incubo dei nostri tempi”? Forse sì, se pensiamo alla finanza, quella “bolla di carta” sempre più svincolata e distante dalla ricchezza tangibile. Ma la globalizzazione, scrivono Detti e Gozzini, non è un complotto, è l’insieme dei movimenti internazionali di merci, persone, capitali e informazioni ed è tanto velleitario pensare di annullarla quanto necessario provare a controllarla. Certamente, tra le sue conseguenze ci sono l’approfondirsi del dislivello di ricchezza tra le parti del mondo industrializzato e le altre, così come disoccupazione e sotto-occupazione nei Paesi ricchi, migrazioni, sfruttamento incontrollato e distruzione dell’ambiente in quelli poveri. Tuttavia, i dati evidenziano che è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per un possibile processo di convergenza. Riforme agrarie, scolarizzazione di massa, qualificazione, innovazione tecnologica hanno una forte potenzialità nell’aumento del reddito e nell’uscita dalla povertà: in Asia le grandi carestie sono state sconfitte; dal 1980 in poi i poveri di tutto il mondo sono considerevolmente calati. Permangono, però, forti fragilità nell’Africa subsahariana ed equilibri instabili sul piano sociale ed economico sia all’interno di un Paese, sia fra Paesi diversi. Ne sono emergenze ben visibili le tragedie umanitarie del Terzo mondo, la povertà persistente fra gli anziani e nelle famiglie numerose dell’Occidente avanzato, ma anche quel mutamento antropologico, indotto dai media e dai consumi, che si manifesta nell’individualismo acquisitivo di massa e nel prevalere delle ragioni della libertà economica sulla giustizia.
Nel ’68 si accesero i riflettori internazionali sulla prima grande crisi umanitaria nella regione nigeriana del Biafra, a seguito di una guerra civile. Migrazioni, carestie e profughi si sono drammaticamente replicati con andamento altalenante: segno che la politica e la diplomazia possono fare molto per contenerli e per indirizzare verso la pace, ma anche che raramente questa volontà si manifesta in maniera concorde nelle nazioni più potenti.
Le migrazioni sono, infatti, attualmente uno dei maggiori fattori di ‘disordine’ mondiale. Certo, è difficile e fuorviante accordare le tendenze demografiche con i tempi brevi dei cambiamenti economici e politici. Tuttavia, le legislazioni restrittive adottate l’indomani della crisi petrolifera del 1973, finalizzate a fornire risposte a un’opinione pubblica spaventata dalla recessione, hanno inciso sulle caratteristiche e sulla visione pubblica del fenomeno: da arrivo favorito dal bisogno di forza lavoro cento anni fa, a viaggi di fortuna e ingressi illegali e osteggiati, spesso sostenuti dalla delinquenza organizzata. L’andamento ondulatorio dei flussi è un segno che le crisi si possono limitare, se sono coordinate sul piano internazionale e se si elabora la complessità economica e sociale del problema: “Abbiamo di fronte esseri umani non interessati a prendere le nostre terre, ma alla ricerca di un futuro migliore. Ci si può intendere, basta che ci sia una politica con l’intento di farlo”.
Il quinquennio 1968-1973 si apre con un ciclo di mobilitazioni studentesche che, per la prima volta nella storia, assume una dimensione globale; una massa critica di giovani con aspirazioni e speranze molto maggiori di quelle dei genitori si scontra con una realtà che non corrisponde alle loro aspettative: società tradizionalista, strutture universitarie inadeguate, docenti distaccati e retrogradi. I loro sogni spesso si frantumano, ma nello stesso tempo si affermano due processi nuovi correlati: il potenziamento dei media, ancorché inegualmente distribuiti, tendenzialmente al servizio del potere e generatori di conformismo, ma dotati di dirompente potenzialità: “Ci furono foto pubblicate sui giornali che contribuirono a cambiare la storia”; la svolta sui diritti sociali e civili delle donne: sale percentualmente in modo significativo l’occupazione femminile, aumenta l’impiego in settori qualificati, crescono le iscrizioni all’Università. Negli anni Settanta, gli stessi movimenti rivendicano la parità ma chiedono il riconoscimento della differenza tra uomini e donne e la valorizzazione delle specificità. Si avvia così l’elaborazione del concetto di gender, una categoria interpretativa che supera il determinismo biologico di quella di sesso e privilegia gli aspetti sociali e culturali, storicamente variabili nello spazio e nel tempo.
Altri processi toccano il sistema politico democratico. Si afferma, in quegli anni, una forte proliferazione del numero degli Stati, ma si ridimensiona la loro sovranità a seguito dell’avvento di una governance sovranazionale. La speranza che il nuovo sistema riesca ad assicurare definitivamente una diffusione della democrazia, però, si rivela presto un’illusione: la democrazia appare un processo evolutivo, conflittuale e reversibile. Ne sono testimonianza i golpe in Uruguay e Cile, lo stato d’emergenza in India, la primavera di Praga, la rivoluzione dei garofani in Portogallo. Ma lo spirito dei tempi sembra decisamente a suo favore: molti regimi autoritari si rivelano incapaci di legittimarsi come modelli alternativi e migliori. Altrettanto lacerata è l’area mediorientale, dove, a seguito dello shock petrolifero del ’73 che rilancia il ruolo di alcuni Paesi esportatori di petrolio (in particolare l’Arabia Saudita), ha inizio un’era islamista. Nel difficile contesto della decolonizzazione, emergono gravi contraddizioni e si radica il fondamentalismo; l’11 settembre 2001 aprirà lo scenario a una serie di prolungati conflitti nel mondo musulmano, incapace di garantire benessere e libertà, che dimostrano quanto sia difficile la transizione di queste società alla democrazia.
Globalizzazione, disordine, democrazia: la dialettica fra i tre termini lancia numerosi spunti di riflessione e costituisce una buona base di partenza per comprendere il nostro tempo. Certo – scrivono Detti e Gozzini – la globalizzazione contemporanea non è molto diversa da quella di cento anni fa, quando movimenti umani, di merci e informazioni si spostavano in misure altrettanto consistenti. Allora la politica la fermò con i nazionalismi e due guerre mondiali, al prezzo di settanta milioni di morti. Per non ripercorrere quella strada c’è bisogno di una nuova politica che non ceda.
Enrica Dondero Acessar publicação original
[IF]Storia della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche – OSTERHAMMEL; PETERSSON (BC)
OSTERHAMMEL, Jürgen; PETERSSON, Niels P. Storia della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche. Bologna: Il Mulino, 2005 (2003). Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.184-189, giu./nov., 2019.
Il saggio si snoda attraverso sette capitoli e una conclusione finale. Dopo aver precisato il concetto di globalizzazione nei due capitoli introduttivi, gli autori (insegnano storia contemporanea all’università di Costanza) ricostruiscono i processi che hanno portato all’attuale mondo globalizzato, a partire dall’età medievale e moderna, mostrando la progressiva interconnessione di rapporti economici, politici e culturali e al tempo stesso la profondità storica della globalizzazione.
Il presente è terreno elettivo delle scienze sociali che hanno assunto la globalizzazione (dagli anni Novanta circa del secolo scorso) come categoria interpretativa delle loro analisi, mettendone in luce le diverse caratteristiche. Che il mondo sia sempre più piccolo e interconnesso è d’altronde senso comune diffuso, esperienza quotidiana e concreta di un numero sempre maggiore di persone.
In questo scenario gli storici possono essere utili esercitando il loro mestiere: mettere in prospettiva temporale il tema (la globalizzazione), problematizzare ciò che appare come assoluta novità, verificare la tenuta euristica e interpretativa della concettualizzazione anche nel loro campo di indagine: la lettura del passato.
La storiografia che nasce come disciplina scientifica nell’Ottocento ha previlegiato la nazione come oggetto di ricostruzione e soggetto delle sue narrazioni: solo recentemente si sta affermando la necessità di una interrogazione trasversale rispetto alle storie nazionali, di una storia globale al cui interno la (storia della) globalizzazione rappresenta un campo specifico.
Il concetto di rete diventa allora essenziale: la globalizzazione è il processo di costruzione e intensificazione delle reti mondiali (ai diversi livelli, con diversa intensità e velocità di contatti e grado di integrazione). E processo significa dare conto di svolgimenti e cambiamenti che avvengono nel tempo, non in modo meccanico, regolare, scandito sulle canoniche tappe ed epoche della storia politica, ma con ritmi, accelerazioni, rallentamenti, riprese che sono proprie dei diversi ambiti coinvolti dalla globalizzazione: economico, tecnico, politico e dell’organizzazione dello Stato, sociale, culturale.
La periodizzazione è lo strumento concettuale che gli storici utilizzano per comprendere i fenomeni analizzati. Ogni periodizzazione è discutibile e provvisoria: Osterhammel e Petersson ne sono consapevoli. Ed è proprio la loro discutibilità il sale della storiografia e strumento di migliore comprensione della storia come ricerca.
Per i due storici tedeschi è possibile periodizzare il processo di globalizzazione, dopo alcune forme di integrazione verificatesi già in età antica e medievale, nelle seguenti fasi:
- 1450-1500: inizio della modernità e avvio della globalizzazione
- 1750-1880: Imperialismo, industrializzazione e libero commercio
- 1880-1945: Capitalismo mondiale e crisi mondiali
- 1945-1975: La globalizzazione dimezzata
Dagli ultimi decenni del Novecento: La globalizzazione attuale La preistoria della globalizzazione Riguarda il mondo antico e premoderno. In esso l’integrazione macrospaziale si verificò in forme diverse (l’ aggregazione di unità politiche minori in grandi imperi sulla base essenzialmente della forza militare (l’impero romano, cinese, indiano, ottomano…), l’ecumene religiosa (cristianesimo, islam, buddismo…), il commercio a distanza (la via della seta che univa la Cina al Mediterraneo, le vie carovaniere del Vicino Oriente e del Nordafrica…), le migrazioni di popoli (gli insediamenti preistorici dell’America e dell’Asia, la diffusione di popolazioni di lingua bantu della regione del Niger-Congo tra il 500 a.C. e il 1000 d. C. …).
In epoca medievale, le spinte all’integrazione di ampi spazi si possono collocare nel VIII (fondazione e diffusione dell’Islam) e nel XIII (l’impero mongolo di Gengis Khan), mentre dal XIV secolo si rafforzarono processi differenti nella parte orientale dell’Eurasia (consolidamento di Cina e Giappone) rispetto a quella occidentale e meridionale (ripresa degli imperi plurinazionali accanto alla formazione degli “Stati territoriali”).
L’inizio della modernità
Il periodo tra il 1450 e il 1500 si conferma come profonda cesura nella storia della globalizzazione e l’inizio della “modernità” anche in una prospettiva di storia globale. Ne furono fattori decisivi e connessi la scoperta e la colonizzazione dell’America, l’avanzata degli Europei nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, l’«imperialismo ecologico» (in primo luogo i virus e i batteri delle malattie europee), la rivoluzione delle tecnologie militari (polvere da sparo e artiglieria) e della comunicazione (la stampa).
Gli europei stabilirono sull’Atlantico un dominio incontrastato e nell’America si realizzò un’economia di piantagione (caffè, tè, cacao, caucciù…) coltivata da schiavi, che introdotta alla fine del Cinquecento si affermò come istituzione sociale dominante fino ai primi decenni del XIX secolo. Si intensificarono inoltre le reti commerciali transoceaniche: per il commercio di schiavi in primo luogo e delle merci preziose (spezie, tessuti, tè, pelli animali, argento).
1750-1880 Imperialismo, industrializzazione e libero commercio
Intorno alla metà del Settecento, ancora prima delle rivoluzioni politiche (americana e francese) e industriale, un altro impulso ai processi di globalizzazione venne dall’affermarsi di una politica mondiale legata alla necessità del controllo degli oceani (sia dal punto di vista militare che commerciale): il teatro dei conflitti non fu, come in precedenza, a scala locale/regionale, ma mondiale con una presenza egemonica dell’Inghilterra.
Le rivolte di coloni e schiavi delle Americhe tra il 1765 e il 1825 (le tredici colonie inglesi a Nord e le repubbliche del Sud e del Centroamerica) se da una parte indebolirono i legami della rete globale, dall’altra, superata la rottura politica, posero le basi per una diversa relazione tra Stati Uniti e Inghilterra.
La rivoluzione industriale fu ovviamente fattore decisivo per l’intensificarsi dell’interconnessione globale: gli autori mettono in evidenza da una parte le caratteristiche e le ragioni del caso inglese, dall’altro gli effetti a distanza in ambiti diversi dalla produzione di merci: armi e cannoni, trasporti, tecnologie della comunicazione (telegrafo).
Nel corso del XIX secolo l’Europa occidentale e in particolare l’Inghilterra si affermarono quali potenze dominanti e come modello di riferimento per lo sviluppo e il progresso di ogni altro stato del mondo: il futuro sarebbe stato possibile solo accostandosi almeno parzialmente al loro livello.
Gli autori parlano di una globalizzazione adattiva e ambivalente (tra ammirazione e disprezzo, vicinanza e distacco, assimilazione e preservazione della propria identità): si andava profilando un unipolarismo culturale ancora più che geopolitico, che vide nello Stato nazionale la forma ideale e desiderabile per le sfide del tempo.
Nella seconda metà dell’Ottocento la dimensione mondiale dell’economia trovò ulteriore impulso: accelerazione del commercio mondiale, migrazioni di massa (tra il 1850 e il 1894 circa 60/70 milioni di persone), nuova divisione internazionale del lavoro legata alla possibilità di inviare beni di massa a grande distanza, congiunture economiche con ripercussioni su scala planetaria (grande depressione del 1873, congiuntura favorevole del 1896).
Capitalismo mondiale e crisi mondiali (1880-1945)
Contrariamente alla vulgata corrente (soprattutto della storia economica) che racconta gli anni precedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale come epoca di estesa globalizzazione seguita da una de-globalizzazione che durò fino al secondo dopoguerra, gli autori suggeriscono una lettura del periodo secondo la quale il contrasto tra queste due fasi è meno netto: gli stessi processi di de-globalizzazione sono descrivibili dentro uno spazio economico e politico mondiale.
Alla svolta del secolo il mondo era percepito come una comunità di destino: grazie anche ad una diversa esperienza (non solo nella coscienza delle élites) della dimensione del tempo e dello spazio nella vita quotidiana. La sempre maggiore diffusione dei mezzi di comunicazione, l’alfabetizzazione crescente, l’adozione di un sistema di computo del tempo suddiviso per fusi orari e basato sul meridiano di Greenwich, la maggiore frequenza dei viaggi transcontinentali furono tra i fattori di questo cambiamento. Tra Otto e Novecento l’economia mondiale può essere descritta come un sistema multilaterale caratterizzato da flussi internazionali interconnessi (di forza lavoro, capitali e merci), reti commerciali con centro a Londra e conseguenze anche per i paesi extraeuropei, infrastrutture (trasporti e comunicazioni) garantite dagli Stati nazionali.
Non che fossero assenti “buchi” nella rete (la maggior parte dell’Africa, le regioni interne della Cina e tutti i continenti non collegati dalle reti ferroviarie e dalle rotte delle navi a vapore): nel 1913 il divario tra i più ricchi centri del mondo (che non erano già più in Europa) e i più poveri era di 10:1 (nel 1820 era di 3:1).
La globalizzazione avveniva parallelamente alla costruzione delle nazioni. E il mondo divenne uno spazio di interazione tra Stati nazionali concorrenti (con l’aggiunta di nuovi attori, gli Stati Uniti e il Giappone): un mondo sempre più piccolo (nel 1911 quando R. Amundsen arrivò al Polo Sud, ogni parte del globo era conosciuta e cartografata) nel quale si realizzarono un sistema globale di alleanze, la spartizione coloniale del pianeta, processi di territorializzazione degli Stati nazionali, all’interno della dialettica tra globalizzazione e frammentazione.
Secondo J. Osterhammel e N. P. Petersson la Grande Guerra dal punto di vista delle cause fu una guerra europea che ben presto si allargò su scala globale con l’impiego di risorse globali. Segnò la fine del potere mondiale dell’Europa e l’assunzione dello Stato nazionale come modello di organizzazione politica generale. Negli anni successivi si assistette alla ideologizzazione della politica su scala mondiale: liberalismo, leninismo e fascismo furono esperimenti politici che si scontrarono in quella che può essere definita una guerra civile internazionale.
Il cosiddetto “regionalismo” dell’economia internazionale del periodo tra le due guerre con il privilegio accordato ovunque all’ambito “nazionale” conferma il primato della politica sulle interazioni economiche. Si possono anche leggere le politiche autarchiche degli anni Trenta come forme di regionalismo: la loro valenza globalizzante fu che condussero a una nuova guerra mondiale che divenne anch’essa globale, consacrando gli Usa potenza mondiale decisiva e fu punto di partenza di un ulteriore impulso alla globalizzazione economica, politica, e culturale del dopoguerra. Il 1945 può essere considerata una data decisiva (una data globale): per la fine della guerra e la volontà dei vincitori di creare un nuovo ordine mondiale.
Dal 1945 alla metà degli anni Settanta: la globalizzazione dimezzata
La divisione del mondo in due blocchi contrapposti fu la più importante struttura politica (non prevista) del secondo dopoguerra che condizionò anche gli spazi di interazione economica ai vari livelli. Diverse furono le conseguenze di questo assetto geopolitico bipolare nella sfera di influenza sovietica e in quella occidentale nella quale la priorità della riorganizzazione interna produceva, tra l’altro, una spinta all’integrazione regionale. Il processo di integrazione europeo, in transizione dalla federazione di Stati allo Stato federale, va inquadrato in questo contesto. Se da una parte tale processo può essere letto come limitazione del potere degli Stati nazionali, dall’altro si può pensare che la cooperazione realizzata nl quadro delle strutture europee sia stata funzionale al persistere dello stesso modello dello Stato nazionale.
L’ordine della guerra fredda pose fino anche agli imperi coloniali: dal 1950 al 1970 gli Stati nazionali indipendenti passarono da 81 a 134. Nacque quello che allora si chiamò il “Terzo Mondo” che non divenne uno spazio d’integrazione e di cooperazione di politiche sovranazionali. Un ruolo politico transnazionale importante, invece, ebbe la protesta studentesca della fine degli anni Sessanta che coinvolse paesi di gran parte del mondo e le cui ragioni sono comprensibili nel quadro delle trasformazioni socioculturali del secondo dopoguerra.
Gli accordi di Bretton Woods del 1944 avrebbero dovuto assicurare un nuovo ordine mondiale dell’economia, attraverso istituzioni (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio) create per garantirne il funzionamento.
La pianificazione economica in realtà fallì ma navigazione, commercio, telecomunicazioni, traffico aereo e attività multinazionali crearono reti globali che aggregarono, a gradi diversi di intensità delle interdipendenze, anche il Terzo mondo e l’area di influenza sovietica, ad esclusione della Cina che seguiva una scelta rigidamente autarchica.
Dagli anni Sessanta si registrarono spinte verso una globalizzazione socioculturale: le migrazioni verso l’Europa con la creazione di megalopoli multiculturali, l’aumento dei flussi turistici legati alle vacanze di massa, l’omogeneizzazione globale dei riferimenti culturali e degli stili di consumo (dalla Coca-Cola che divenne un marchio mondiale alla diffusione dei jeans e delle t-shirt). Un processo che non fu privo di contraddizioni e resistenze: basti pensare ancora al movimento del ’68 e alla lotta contro l’omologazione culturale e ideologica che trovò nella mobilitazione contro la guerra del Vietnam uno dei suoi momenti più significativi.
Conseguenza della cultura della contestazione di quegli anni fu anche la consapevolezza politica che per la prima volta si ebbe sui temi del clima, dell’esauribilità delle risorse, dell’inquinamento e in generale dell’impatto dell’uomo sul pianeta. Non solo la guerra nucleare, ma anche lo sfruttamento incontrollato delle risorse del mondo potevano determinarne la fine.
La svolta del XX secolo
Può essere datata alla fine degli anni Sessanta con la trasformazione degli assetti complessivi del secondo dopoguerra. In una prospettiva storica, questa ultima (per ora) globalizzazione (per alcuni la vera globalizzazione) è caratterizzata, secondo gli autori, principalmente da questi aspetti: la fine del mondo bipolare con il crollo dell’Urss e del blocco sovietico, la crisi dello Stato sociale (conseguenza e causa al tempo stesso della globalizzazione), l’estensione delle relazioni internazionali e finanziarie internazionali (con l’affermazione delle imprese transnazionali e l’evoluzione dei paesi di recente industrializzazione, in particolare nel Sud-Est asiatico), i progressi delle reti di comunicazione e di informazione, la diffusione su scala globale di beni e modelli culturali (soprattutto americani) pur in presenza di spinte che vanno nella direzione opposta, la presenza, accanto alle reti internazionali legali di quelle illegali (droga, riciclaggio di denaro sporco, traffico di esseri umani) con un peso significativo all’interno dell’economia globale.
Per J.Osterhammel e N. P. Petersson “la sensazione diffusa a livello mondiale di vivere nell’epoca della globalizzazione ha validi fondamenti “ (p. 122), ma non si tratta di un unicum nella storia dell’umanità: la cesura fondamentale a partire dalla quale la globalizzazione è diventata tema centrale e decisivo va individuata, secondo gli autori, nella prima età moderna (epoca delle scoperte, del commercio degli schiavi, dell’«imperialismo ecologico») e non nel tardo Novecento. Spinte e tendenze alla globalizzazione si sono poi verificate in epoche precedenti, a partire dalla metà dell’Ottocento.
Nella riflessione conclusiva del saggio si sottolinea come nella storia delle modernità i processi di integrazione e di de-globalizzazione e frammentazione sono andati di pari passo e come la globalizzazione sia strettamente connessa con la modernizzazione.
Il concetto di globalizzazione, in conclusione, ha senso ed è utile se non viene usato come categoria astratta, essenzializzandone il contenuto, e senza dimenticare che dietro e dentro la globalizzazione e i legami globali ci sono attori e soggetti (Stati, imprese, gruppi, individui… con differenti visioni e strategie), conflitti di interesse, vincitori e vinti.
La globalizzazione è dunque una categoria interpretativa e un processo con una sua storia: che è compito degli storici indagare e far conoscere.
Ernesto Perillo
[IF]La Repubblica inquieta. L’Italia della Costituzione 1946-1948 – De LUNA (BC)
DE LUNA, Giovanni. La Repubblica inquieta. L’Italia della Costituzione 1946-1948. Milano: Feltrinelli, 2019. 304p. Resenha de: GUANCI, Vicenso. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.191-196, giu./nov., 2019.
«Per risvegliarci come nazione, dobbiamo vergognarci dello stato presente. Rinnovellar tutto, autocriticarci. Ammemorare le nostre glorie passate è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti, è conforto all’ignavia e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione».
Con questa citazione di Giacomo Leopardi, Giovanni De Luna concludeva nel 20131 il racconto di un’Italia che dall’iniziale trasformismo liberale all’attuale subalternità alle regole del mercato non sembra essere riuscita a darsi quella religione civile che l’autore già allora individuava nel “dare forza” alla nostra Costituzione.
Quattro anni dopo pubblica questo libro, riedito in edizione economica quest’anno, nel quale racconta come si fece la Costituzione. Come e perché dal 1945 al 1948 fu possibile costruire una sorta di “sacra scrittura” per una “religione civile”. La consolidata storiografia sull’argomento viene rivista alla luce dei diari di coloro che “vissero con passione e impegno gli anni di formazione della nostra Repubblica” – a cui infatti viene dedicato il libro – conservati presso l’Istituto storico della Resistenza “Giorgio Agosti” e soprattutto all’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano. Ne scaturisce una narrazione appassionante e una dettagliata analisi del momento storico in cui vennero poste le basi della nostra moderna democrazia.
Furono due anni: dal 2 giugno 1946 al 18 aprile 1948. Un biennio cruciale. Che si comprende a fondo solo se si studiano bene le premesse: gli avvenimenti dei tredici mesi e sette giorni precedenti, dal 25 aprile 1945 al 2 giugno 1946.
Il libro è organizzato in tre parti. La prima ci mette di fronte ad un paese con strutture demografiche e produttive molto simili a quelle degli inizi del Novecento, con un Mezzogiorno ancorato al tempo quasi immobile della civiltà contadina e con un tasso di analfabetismo del 25-30%, e un Settentrione con il 60% del reddito nazionale e analfabetismo pressoché scomparso. E’ un’Italia disunita quella che esce dalla guerra. Per ricordarla De Luna rimanda alle immagini di Paisà di Rossellini, ché meglio non si potrebbero raccontare i drammi e gli entusiasmi nelle terre della penisola risalita dalla Sicilia alle regioni settentrionali; in più sottolinea la condizione delle donne che “rappresentarono allora l’icona simbolicamente più efficace dei guasti che l’arrivo degli eserciti alleati poteva causare” (pag. 39) e che, tra il 1943 e il 1945, si sommarono alle stragi naziste. Le due Italie in quegli anni si riconoscevano nella contrapposizione tra fascismo e antifascismo. Il 25 aprile 1945 vinse la Resistenza, che “si propose come la negazione di quei caratteri di passività e rassegnazione che sembravano pesare come una sorta di tara genetica sulla nostra identità collettiva” (pag. 57); vinse l’Italia viva e nuova, l’Italia dei prefetti del Cln, l’Italia del governo Parri. Iniziò il dibattito, o meglio, una vera e propria lotta politica, tra la “continuità” dello Stato a cui era favorevole il ministro Benedetto Croce (la “parentesi” fascista) e la “discontinuità” dallo Stato liberale e fascista per una nuova democrazia per la quale si batteva il Partito d’Azione. Si scelse la prima opzione. Parri fu sostituito da De Gasperi che, assieme a socialisti e comunisti, guidò il paese verso le nuove elezioni del 2 giugno 1946 a suffragio davvero universale (per la prima volta votavano le donne!) per la Costituente e il referendum tra la monarchia e la Repubblica. Furono giorni difficili. Le pagine di De Luna rendono bene il momento: “Che il rischio di una nuova guerra civile ci fosse davvero ce lo dice la cronaca delle giornate convulse seguite al referendum.” (pag. 106)
I partiti di massa nati dalla lotta partigiana, il governo, il Vaticano, soprattutto la Casa Reale, tutti si muovevano su un filo di rasoio. Il 12 giugno dopo un ultimo colloquio con Pio XII, dopo aver messo al sicuro i gioielli e il patrimonio di famiglia, Umberto II partì per l’esilio portoghese. Il 18 giugno la Cassazione ratificò il risultato delle elezioni, il 25 giugno l’Assemblea Costituente tenne la sua prima seduta. “La Resistenza aveva vinto, e con essa la democrazia. Una vittoria che chiudeva una pagina esaltante della nostra storia. […] Il 28 giugno, Enrico De Nicola fu eletto capo provvisorio dello Stato con 396 voti su 501: ‘Camminava come un impiegato che va all’ufficio, un signore qualunque che rientri a casa un po’ preoccupato’ annotava Alba de Céspedes. I 40 voti dei repubblicani andarono a Cipriano Facchinetti, i 30 dell’Uomo Qualunque a Ottavia Penna di Caltagirone, nata baronessa di Buscemi, una donna, a simboleggiare un’altra delle rotture sancite dal 2 giugno 1946.” (pag.118)
La seconda parte racconta e spiega come in due anni, un mese e dodici giorni nacque la repubblica dei partiti e fu scritta la Costituzione, Carta fondamentale della nostra democrazia.
Le elezioni dell’Assemblea Costituente sancirono la nascita dei partiti politici. E dei partiti di massa: la Democrazia Cristiana con il 35,1%, il Partito Socialista con il 20,6%, il Partito Comunista con il 18,9%; agli altri restarono le briciole. Eredi delle bande politicizzate della Resistenza, i “partiti dei fucili” – come li chiamano taluni storici – erano diventati “partiti delle tessere”; i partigiani erano diventati elettori e i capi dirigenti e militanti di partito. De Luna si rifà esplicitamente al pensiero di Norberto Bobbio con una sua citazione sul nesso vitale tra partiti e democrazia: «L’allargamento del suffragio ha reso inevitabile la formazione di grandi e bene organizzate associazioni politiche. E queste associazioni si sono consolidate applicando al loro interno le regole della democrazia […] così che il partito oggi non è soltanto l’organo motore dello stato democratico ma è anche per la sua stessa costituzione il principale coefficiente di una educazione politica democratica, perché stimola energie assopite, dirige volontà disordinate, porta sul piano di un’attività politica concreta e fattiva interessi sviati e incerti.» (pag. 142). Quanto importante e decisiva si dimostrò la loro funzione non solo di pedagogia politica ma anche e soprattutto di direzione e guida delle masse si vide nei momenti di crisi della neonata democrazia italiana. Per esempio, la firma del Trattato di pace nel febbraio 1947, che oltre alle perdite delle colonie e di territori al confine francese, dovette affrontare le questioni del confine italo-jugoslavo con Trieste e l’Istria, in piena “guerra fredda”, con il ricordo dell’occupazione italiana fascista della Slovenia, i morti delle foibe, i profughi istriani. E ancora, le rivolte partigiane contro la politica di “rappacificazione” portata avanti da Togliatti e De Gasperi, di cui quello più famoso è l’episodio di Santa Libera – una frazione di Santo Stefano Belbo nelle Langhe – dove nella notte del 20 agosto 1946 una sessantina di partigiani occuparono la zona e ci volle l’intervento di un dirigente del PCI e di Pietro Nenni – vicepresidente del Consiglio – per farli sloggiare. Soprattutto, la campagna elettorale per le elezioni del primo Parlamento della Repubblica del 18 aprile 1948 che fu davvero contrassegnata da forti contrasti e grande partecipazione di massa. I prestiti americani e il piano Marshall fecero ripartire l’economia e la politica economica deflattiva di Luigi Einaudi se favoriva industriali e ceto medio impiegatizio ma portò disoccupazione e licenziamenti tra gli operai. Tutto questo ovviamente aumentò molto le tensioni nel paese. La lunga guerra mondiale, e in più la guerra civile fascisti-antifascisti, da cui si era appena usciti, aveva comunque creato un’abitudine alla violenza, all’uso della violenza, quasi fosse un normale strumento di pressione e repressione. Le manifestazioni di protesta, gli scioperi, spesso finivano in scontri, anche cruenti, tra la Celere – reparto di polizia specializzato creato da Scelba, ministro degli Interni – e i manifestanti. Il primo maggio 1947, nelle campagne di Portella della Ginestra, in Sicilia, banditi assoldati dai latifondisti, spararono sulla folla di contadini che festeggiava il “Primo Maggio” nelle terre occupate. Il 31 maggio De Gasperi formò il suo IV governo, questa volta senza comunisti e socialisti. Era partita la crociata anticomunista, appoggiata dal Vaticano che mise in campo tutta la forza della Chiesa Romana. Le sinistre si presentarono unite sotto le insegne del Fronte popolare, convinti di vincere e instaurare il socialismo. Il 18 aprile la DC ottenne il 48,7% dei voti, il Fronte (PCI+PSIUP) il 31%. Per De Gasperi fu un trionfo, per socialisti e comunisti una delusione tremenda.
Tre mesi dopo uno studente fascista esaltato sparò a Togliatti mentre usciva da Montecitorio. Il paese si sentì e si trovò di nuovo sull’orlo della guerra civile. Dopo aver affrontato e superato una campagna elettorale difficile, appassionata e movimentata, dovette affrontare una prova ancora più aspra. Poche ore dopo l’attentato, con Togliatti in sala operatoria, le fabbriche del triangolo industriale si fermarono per scioperi spontanei, le piazze furono occupate da manifestanti, poliziotti e militari consegnati nelle caserme pronti a tutto. Il 16 luglio lo scontro si trasferì in Parlamento con i deputati comunisti che attaccarono il ministro Scelba. In quei tre giorni tuttavia non accadde nulla di irreparabile. Ci furono, è vero, 92.000 persone fermate dalla polizia, di cui 70.000 rinviate a giudizio; 11 morti tra i manifestanti e 6 tra le forze dell’ordine. Complessivamente negli anni dal 1948 al 1954 sono stati contati negli scontri tra polizia e manifestanti 75 morti e 3126 feriti, ai quali vanni aggiunti 28 persone uccise nelle campagne dai latifondisti. Nello stesso periodo risulta che in 38 province furono arrestati 1697 partigiani dei quali 884 condannati a complessivi 5806 anni di carcere. “Un bilancio pesante, il prezzo pagato nel difficile processo d’impianto della democrazia in Italia”, commenta De Luna (pag. 216).
Nella terza parte l’autore tira le fila del suo lavoro di ricerca tra cronaca, letteratura e storiografia individuando “le Italie che finiscono e… quelle che cominciano”.
Le giornate dell’attentato a Togliatti costituirono per il movimento operaio “l’occasione di congedarsi definitivamente da quel tipo di lotta e dalla paralizzante alternativa integrazione-insurrezione; con i caroselli della Celere di Scelba si chiudeva una fase lunghissima della storia delle classi subalterne, aperta mezzo secolo prima dalle cannonate di Bava Beccaris a Milano; quella forse più epica, ma anche, senz’altro, la più cruenta e difficile. In quei tre giorni si bruciarono modelli politici e tradizioni culturali ai quali il mutare delle condizioni economiche avrebbe di lì a poco sottratto ogni parvenza di credibilità” (pag. 281)
Il miracolo economico negli anni Cinquanta avrebbe mutato la stessa antropologia degli italiani, non solo le dinamiche politico-economiche. Sarebbero cambiati usi e costumi, consumi e culture; elettrodomestici e televisione, scooter e automobili, avrebbero modificato le percezioni del tempo e dello spazio.
E i partiti? I partiti furono costretti al rinnovamento. Pur non avendo essi determinato la grande trasformazione del paese cercarono di farvi fronte. Con fatica, vi riuscirono. “La fiammata antipartitica che aveva animato le schiere di quelli che avevano votato per la monarchia nel referendum del 2 giugno 1946 […] si era spenta e gli elettori qualunquisti, a partire dal 1948, avevano indirizzato i loro voti verso la Democrazia Cristiana […]. E la Costituzione era diventata compiutamente e decisamente la Costituzione dei partiti.” (pag. 286)
La Costituzione sarebbe rimasta la consegna più importante e duratura che i partiti di massa hanno lasciato agli italiani. Nella Costituente si scrisse e operò solennemente un patto di cittadinanza condiviso fondato sul “grande compromesso” dell’intreccio tra le tre culture che fanno il nostro paese: “la tradizione democratico-liberale, che lasciò la sua impronta nel riconoscimento del valore assoluto dei diritti dell’uomo; l’accentuazione dei principi di giustizia sociale, che avevano animato larga parte del movimento operaio; lo slancio solidaristico e comunitario che da sempre aveva segnato le battaglie politiche dei cattolici.” (pag. 289)
Giovanni De Luna conclude il suo libro così. Ricordando che con la Costituzione i partiti della Resistenza hanno vinto. E, se è vero che vinse la “continuità” dello Stato con i suoi apparati più o meno fascisti, o almeno nostalgici di quel tempo, è vero che la Resistenza seppe forgiare una classe politica rivelatasi pienamente all’altezza dei suoi compiti.
“La Resistenza fu qualcosa di più grande dei Cln e dei partiti che la guidarono, perché la Resistenza fu soprattutto la ‘moltitudine delle vite concrete dei resistenti’, di quanti interpretarono l’8 settembre 1943 come la fine di una stagione di carestia morale e di avvelenamento delle coscienze, vivendola come il momento in cui non ci si doveva vergognare di se stessi e si potevano riscattare venti anni di passività e di ignavia. E fu quella scelta che contribuì a fare del 25 aprile 1945 una data fondamentale della nostra religione civile.” (pag.291)
Vicenzo Guanci
[IF]Sindrome 1933 – GINZBERG (BC)
GINZBERG, Siegmund. Sindrome 1933. Milano: Feltrinelli, 2019. 192p. Resenha de: PILOSU, Mario. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.197-200, giu./nov., 2019.
Siegmund Ginzberg è nato a Istanbul nel 1948. La famiglia è giunta a Milano negli anni Cinquanta e i nonni furono sudditi dell’impero ottomano. Dopo gli studi in filosofia ha intrapreso l’attività giornalistica ed è stato una delle storiche firme dell’Unità, quotidiano per cui ha lavorato a lungo come inviato in Europa, Stati Uniti, Cina, India, Giappone, Corea del Nord e del Sud. Ha più volte girato il mondo portando con sé, nel corso degli innumerevoli traslochi, una biblioteca più adatta alla stanzialità che all’erranza.
Inizia come una cronaca giornalistica della giornata convulsa del 30 gennaio 1933, giorno in cui il capo del NSDAP giurò come cancelliere nelle mani del Presidente della repubblica Paul von Hindenburg, che lo aveva sconfitto al 2° turno nelle elezioni presidenziali del 10 aprile 1932. Da qui inizia il racconto dei 12 mesi successivi, a partire dalle reazioni, a posteriori assolutamente inappropriate, delle opposizioni, degli intellettuali e delle altre nazioni europee, racconto in cui via via si ripercorre, con un continuo ricorso a fonti e documenti, il percorso della giovane democrazia tedesca dopo il Trattato di Versailles.
Ma già nel secondo capitolo l’autore si ferma e offre ai lettori un breve testo in cui utilizzando categorie storiche, giustifica la ragione per cui ha scritto questo libro, proprio mentre si accingeva a scrivere un libro sulla Cina, come ha affermato in occasione della presentazione del volume al Palazzo Ducale di Genova il 18 settembre 2019. Alla base della decisione c’è la sensazione di déjà vu, che l’autore afferma non essere il solo a provare da qualche tempo di fronte alle notizie, ascoltando i discorsi sull’autobus, facendo zapping nei talk-show. Ma se la storia non si ripete mai allo stesso modo, e se non è vera la famosa frase attribuita a Karl Marx «La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa», perché occuparsi di come, 80 anni fa, la Germania precipitò quasi senza accorgersene, ma per molti con entusiasmo, nel Terzo Reich? Una delle ragioni, afferma Ginzberg, è l’ignoranza diffusa su questo periodo della storia. In particolare, fa l’esempio delle risposte date nel corso del programma a quiz L’Eredità [dicembre 2013] sull’anno di nomina di Adolf Hitler a cancelliere del Reich. Solamente la quarta concorrente dice «1933», perché è rimasta una sola scelta, ed è impossibile sbagliare; risposte date da giovani, sicuramente almeno diplomati, se non con una laurea universitaria, che sicuramente hanno affrontato la prova di Storia all’Esame di stato, almeno al colloquio orale.
Analizzando quell’anno, e il prima e il dopo, l’autore afferma di essersi imbattuto in indizi, rassomiglianze, analogie insospettate; l’uso del termine di origine medica sindrome è giustificato proprio dal suo significato letterale di sintomi e segnali concausa di una malattia. Molti di questi sintomi e segnali, afferma Ginzberg, hanno somiglianze con quelli di oggigiorno. Interessante è il ruolo che Ginzberg assegna all’analogia: l’uso dell’analogia non come strumento di polemica e propaganda ma di comprensione; ovviamente le analogie sono per definizione imperfette e ‘superficiali’, ma la mente umana funziona per analogie, che ne fanno uno strumento di comprensione e distinzione, per non ‘fare di ogni erba un fascio’. Ginzberg afferma esplicitamente di aver fatto una scelta ‘faziosa’: fra fatti e argomenti privilegia quel che può richiamare alla mente del lettore vicende, cronache e polemiche della nostra attualità (p.24); è preoccupato da una sorta di coazione a ripetere involontaria, e dal riaffacciarsi di dinamiche e meccanismi che hanno portato al disastro la Germania di Weimar. «[…] temo il presente che imita il passato inconsapevolmente, senza volerlo, magari senza neanche accorgersene».
A differenza di altre crisi, questa sembra di più una catastrofe: tutto cambia in soli 30 giorni: Hitler cancelliere; il mese successivo elezioni politiche e poi (per il partito comunista KPD anche prima) eliminazione delle opposizioni con una raffica di decreti. Uno dei primi decreti riguarda la chiusura delle porte agli immigrati, in gran parte quegli Ost-Juden, gli ebrei orientali, che sono descritti, come ci dice Ginzberg, in maniera molto efficace nel saggio Ebrei erranti, (1927), di Joseph Roth. Fuggivano «guerre e povertà», e spesso consideravano la Germania soltanto come «stazione di transito» verso l’America o la Francia, ma ovviamente, essendo senza documenti (spesso già nel loro paese di origine), hanno la necessità assoluta di procurarseli, anche attraverso mezzi illegali. Da qui, anche prima del 1933, il sillogismo: «L’ebreo è uno straniero, è un immigrato. I migranti sono delinquenti. Quindi gli ebrei, tutti gli ebrei, sono criminali. Questo è il sillogismo che avrebbe portato allo sterminio» (p.38). Qui l’analogia scelta da Ginzberg è assolutamente evidente «Nella versione attuale basta sostituire ad “ebrei” l’espressione “migranti clandestini”, o anche solo “migranti”, per antonomasia indesiderati». E il ‘Decreto immigrazione’ è soltanto il primo degli atti che avranno lo scopo di sbarazzarsi di tutti gli ebrei, anche di quelli che avevano la cittadinanza (oltre l’80% degli ebrei residenti). Quindi chiusura delle porte. Poi l’inizio della repressione contro i comunisti, all’interno di un ‘decreto sicurezza’ che porterà all’allestimento dei primi campi di concentramento affidati alle SS; riservati prima ai comunisti e poi ai criminali, gli immigrati clandestini, poi in un crescendo, agli omosessuali, zingari, rom, sinti. Come scrive Ginzberg, «il catalogo degli indesiderabili è rimasto più o meno lo stesso» (p.43); qui si potrebbe vedere forse un riferimento alla poesia Poi vennero… del pastore Niemöller, talvolta erroneamente attribuita a Bertolt Brecht.
L’intero quinto capitolo è dedicato alle elezioni: «negli otto mesi precedenti la ‘presa del potere’, i tedeschi avevano votato 2 volte per la presidenza della Repubblica, 3 volte per il Reichstag (2 volte nel 1932, a distanza di 4 mesi), più varie elezioni locali. […] le libere elezioni sono il sale della democrazia. Ma troppe elezioni non le fanno per niente bene. Anzi, rischiano di ucciderla». Nella repubblica di Weimar degli anni ’30 votare e rivotare è un sintomo dell’incapacità di risolvere la crisi, perché nessun partito o nessuna possibile coalizione aveva la maggioranza. Dal 1928 al marzo 1933 si ebbero 5 elezioni politiche, in media 1 ogni anno. In questo periodo i voti per il NSDAP salirono da 800.000 a 17,3 milioni, di fronte a un incremento di votanti da 30,4 a 39 milioni. Il NSDAP cattura a poco a poco il voto degli astenuti, di quelli che erano disgustati dalla politica. Si calcola che circa la metà dei 16,5 milioni di voti che il partito guadagnò in quei 5 anni siano di “elettori nuovi”, cioè di giovani che non avevano mai votato o elettori che si erano astenuti nelle elezioni precedenti. Il caso della repubblica di Weimar, dice Ginzberg, è un esempio di come si può giungere alla catastrofe non per una disaffezione al voto, ma al contrario a causa di un più ampio coinvolgimento dell’elettorato. Una Repubblica che si era dovuta difendere, al suo nascere, da violenza rivoluzionaria e controrivoluzionaria, dai putsch (come quello di Monaco), dal timore di un intervento militare, fu invece distrutta da una serie di elezioni a suffragio universale, con una crescente partecipazione degli elettori.
Per analizzare le ragioni del crescente successo elettorale di Hitler, Ginzberg utilizza varie fonti, sia contemporanee (Gramsci), sia analisi successive dei movimenti dell’elettorato. Interessanti la tabella (molto simile a quelle che compaiono su Internet o in TV poco dopo la chiusura dei seggi), che sintetizza i cambiamenti (anche d’umore) del corpo elettorale tedesco dal 1919 al 1933, accompagnata da quella del susseguirsi delle coalizioni fino al 1932. L’autore fa notare, peraltro, che anche dopo le elezioni del 1932, la coalizione su cui poggiava il governo Hitler (nazisti e nazionalisti) non superava il 41,5% dei voti; molti degli oppositori erano convinti che la coalizione non sarebbe durata, come era accaduto in altre occasioni pochi anni prima. Ma non tenevano conto né della capacità di iniziativa politica dei nazisti (i decreti approvati pochi giorni dopo la nascita del governo), né del fatto che c’era un’ampia fascia di popolazione che non vedeva l’ora di trovare uno sbocco politico alle sue aspirazioni.
E’ proprio da qui che si sviluppa la seconda parte del libro, da questa sottovalutazione della situazione, evidenziata da una serie di riferimenti ad articoli di giornale, dichiarazioni di politici e intellettuali, anche ebrei, che non credono possibile l’avvento di un vero e proprio regime, che metta in atto quello che ha promesso durante la campagna elettorale. D’altro canto è molto interessante la parte del quinto capitolo dedicata all’elettorato di Hitler (Chi votava per Hitler?). L’autore cita il romanzo di Hans Fallada E adesso pover’uomo? (1932) in cui i dubbi su cosa votare (spurgati nell’edizione della Medusa del 1933, insieme a varie altre pagine osé, ma presenti nella traduzione italiana del 2009) da parte dei due protagonisti portano a presumere che ambedue abbiano poi votato per i nazisti. Vari studi hanno cercato di spiegare questa crescita esponenziale dei voti per i nazisti; e ultimamente sembra prevalere l’ipotesi che l’elettorato abbia seguito soprattutto i propri interessi economici; ma difficilmente i grandi spostamenti elettorali hanno una sola causa, dice Ginzberg. Qui c’è di nuovo un’analogia con l’attualità: propone un episodio vissuto in treno nel 1976, l’anno della maggiore avanzata elettorale del PCI. Nello scompartimento tutti dichiarano che avrebbero votato per il PCI, ma ognuno per una ragione diversa, talvolta diametralmente opposta; conclude amaramente che se sui treni non fossimo tutti perennemente attaccati allo smartphone capiremmo sicuramente molto di più sui flussi elettorali.
Un capitolo che mi è sembrato molto interessante, anche dal punto di vista della didattica, è quello sul linguaggio. Ginzberg utilizza a piene mani il libro del filologo ebreo Viktor Klemperer LTI (Lingua Tertii Imperii – la Giuntina, 1999), che attraverso l’analisi delle novità linguistiche del Terzo Reich cerca di capire cosa e come è successo. Dal linguaggio si passa all’uso dei mezzi di comunicazione (giornali, radio e poi cinema), che nell’arco di pochi mesi sono oggetto di una vera e propria appropriazione da parte di nazisti. Il ruolo di questi mezzi di comunicazione è importantissimo, sia per le grandi tirature dei giornali già prima dell’avvento di Hitler, sia per la capillare presenza di stretti rapporti tra lettori (e ascoltatori) e giornalisti. Le lettere dei lettori vengono pubblicate, ovviamente quando servono a denunciare le malefatte di un commerciante ebreo o di un impiegato ‘infedele’, e le lamentale degli ascoltatori sugli stessi temi riportate quasi in diretta. Questo argomento ci avvicina a un capitolo-chiave che permette di spiegare il crescente consenso di cui godrà il regime fino ai primi mesi del 1945; Ginzberg titola il nono capitolo Come fu comprato il popolo; e il secondo paragrafo, sempre usando il sistema dell’analogia, Il reddito di cittadinanza. Il riferimento in questo caso è al libro di Götz Aly Lo stato sociale di Hitler (Einaudi, 2007), una miniera di informazioni su come in pratica fu finanziato l’ottenimento e il mantenimento del consenso, anche attraverso una politica assistenziale, attuata con una vera e propria spoliazione, anche fiscale, della comunità ebraica e poi, in guerra, con un saccheggio vero e proprio di tutta l’Europa sottomessa.
Innumerevoli sono gli spunti che il testo, peraltro breve e scritto con un piglio ‘anglosassone’ e ironico (soprattutto nelle analogie ‘suggerite’ ma mai pienamente esplicitate), offre alle attività didattiche con gli studenti. Permette un efficace smontaggio di una serie di stereotipi del passato vicino e anche del presente, attraverso riferimenti e collegamenti che utilizzano sia fonti contemporanee (Gramsci, Klemperer, Fallada, Brecht ecc.), sia studi recenti che forniscono le basi del ragionamento e soprattutto del tentativo, a mio parere riuscito, di spiegazione e di attualizzazione della Sindrome 1933.
Il testo è seguito da un’efficace bibliografia tematica che si rifà, ma non completamente, alla divisione in capitoli e offre esempi sia di romanzi (oltre a quello di Fallada, anche le distopie Il complotto contro l’America di Philip Roth e Qui non è possibile di Sinclair Lewis) sia di fonti documentarie, sia di testi di saggistica.
Mario Pisolu
[IF]Criminali del campo di concentramento di Bolzano – Di SANTE
DI SANTE, Costantino. Criminali del campo di concentramento di Bolzano. Bolzano: Raetia, 2019. 319p. Resenha de: SESSI, Frediano. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.201-203, giu./nov., 2019.
Il campo di concentramento di Bolzano, nel sobborgo di Gries, denominato ufficialmente Polizeilisches Durchgangslager (Campo di transito), istituito dapprima come campo di lavoro (15 maggio 1944) e successivamente come parte dei campi di smistamento italiani degli ebrei e dei prigionieri politici in Germania (probabilmente dai primi giorni di luglio del 1944), sorse lungo l’attuale via Resia, all’interno di un complesso di capannoni già adibiti a deposito dal Genio militare fin dal 1941. Di forma rettangolare, copriva un’area di circa 17.500 metri quadri, dei quali almeno 13.000 erano coperti da baracche. Circondato da un muro di cinta, venne messo in sicurezza anche con rotoli di filo spinato, atti a impedire eventuali fughe. In ciascuno dei quattro angoli, vennero poste delle torrette di guardia, in legno, all’interno delle quali stazionava in permanenza una guardia SS, munita di mitragliatrice.
La guarnigione SS era composta da uomini di diversa nazionalità arruolati nel corpo: sud-tirolesi, italiani, ucraini e tedeschi. Tra le baracche, un’area piuttosto ampia era riservata ai laboratori: falegnameria, sartoria, tipografia e officina meccanica. Oggi si calcola che i deportati nel Lager di Bolzano siano stati circa 11.000, dei quali, fino a 3.500 furono rilasciati il 3 maggio 1945, giorno della chiusura del campo.
I prigionieri erano costituiti da ebrei e politici, uomini e donne, provenienti a partire dall’estate del 1944, dal campo di Fossoli e dalle carceri maggiori dell’Italia del Nord.
Varcata la soglia del Lager, il prigioniero veniva registrato e classificato, come negli altri campi di concentramento tedeschi, con un numero di serie e un triangolo colorato che indicava lo statuto razziale e sociale del detenuto: politico, asociale ecc. Alcune testimonianze raccontano che per gli ebrei e gli zingari (prigionieri razziali) esisteva una serie di numeri a parte, per questo, ancora oggi risulta difficile ipotizzare quanti fossero i detenuti non politici. La stima più credibile è che non abbiano superato il 10% di tutti i deportati. Quanto alle donne, si calcola che non fossero più di 1.200, mentre i bambini che occupavano gli stessi locali baracca delle donne non erano più di venticinque. Tra le donne, numerose partigiane ma anche famigliari di politici ostaggio delle SS, per costringere i partigiani a consegnarsi. Nell’ottobre del 1944, nonostante la guerra per la Germania sia ormai perduta, il campo subisce degli ampliamenti in vista di un aumento del numero degli internati.
La storia del Lager di Bolzano, così brevemente sintetizzata, che viene ricostruita con precisione di particolari nelle prime 143 pagine del nuovo libro di Costantino di Sante, in apparenza sembra simile a quella di altri campi di transito sparsi nell’Europa occupata.
L’autore la arricchisce di documenti, carte geografiche che spiegano i transiti dei prigionieri deportati verso altri Lager, fotografie e storie individuali di prigionieri, la cui testimonianza rende consapevole il lettore della tragedia rappresentata dalla vita quotidiana in questo «piccolo Lager», in una parte d’Italia incorporata al Reich; vita quotidiana assai poco raccontata dai libri di storia italiana, che raccontano qualcosa del Lager, come se la sua breve durata e il suo essere prevalentemente un luogo di transito, fossero sufficienti a trattare con leggerezza questa parentesi violenta dell’occupazione tedesca e del sostegno alla Germania da parte della neonata Repubblica sociale.
La ricerca di Costantino di Sante, abituato a scoprire negli archivi documenti e storie dimenticati dell’Italia e degli italiani nel corso della Seconda guerra mondiale, ha ridato al Lager di Bolzano il posto che gli spetta nella storia e nella memoria nazionali. A contribuire al suo parziale oblio nella memoria collettiva, lo smantellamento del sito e le poche tracce di quella caserma-prigione hanno giocato un ruolo importante. Ma, prima del lavoro di Costantino di Sante sono stati pochi i saggi storici, e i libri di memorialistica che ne hanno reso possibile lo studio e la conoscenza.
La parte più rilevante del libro è costituita dalla ricostruzione meticolosa e documentata delle biografie e spesso delle azioni dei maggiori responsabili del Lager: gli aguzzini, i carnefici. A cominciare da Rudolf Thyrolf, vicecomandante della polizia di sicurezza tedesca, per proseguire con August Schiffer, direttore della Gestapo e tra gli altri Karl Titho, sottotenente SS e comandante del Lager, Hans Haage, responsabile della disciplina, Joseph König, maresciallo SS e responsabile delle squadre di lavoro. I nomi e le vite ricostruite sono molti di più e per ciascuno di loro, per la prima, volta viene raccontata la carriera militare e politica e i comportamenti in Lager, con fotografie, lettere, testimonianze che fanno entrare il lettore nella loro vita sociale e familiare.
Ne emerge, come è accaduto per il campo di Auschwitz, dopo la scoperta dell’Album fotografico di Karl Friedrich Höcker, un racconto grottesco di uomini e donne che mentre torturano, scherniscono e affamano centinaia di detenuti, vivono momenti di serenità con le loro donne e le loro famiglie, o tra commilitoni.
Il capitolo terzo, «Il tempo libero dei carnefici» è allora centrale alla comprensione della moralità dei nazisti e delle trovate psicologiche utili al sostegno del loro lavoro di assassini: anche così e non solo con il supporto dell’ideologia, i nazisti si convincevano che gli ordini che erano chiamati a eseguire non erano da considerarsi criminali, ma una necessità della storia Europea, per la costruzione di un «nuovo ordine europeo». Si capisce assai bene, leggendo queste pagine, come la nuova e vera moralità tedesca fosse nella «legge del sangue», garanzia di tutela del popolo ariano e conforto di verità contro gli inetti, i razzialmente impuri, gli oppositori: tutti esseri inferiori per i quali il diritto alla vita, nella nuova Europa, non era tutelabile e tollerabile, se non nella condizioni di schiavi del lavoro.
Straordinario il ritrovamento di documenti e di molto materiale a stampa, interpretato e organizzato da Costantino di Sante nelle pagine del libro e reso pubblico per la prima volta.
Un saggio storico, dunque, ricco di nuove scoperte d’archivio, sostenute da un racconto di fatti, di uomini e donne che, in questa storia, hanno vissuto nel bene o nel male (dalla parte giusta o dalla parte sbagliata) da protagonisti.
Un saggio da inserire nei programmi di storia contemporanea nei corsi universitari e nei laboratori delle scuole superiori, e non solo per non dimenticare.
Dal racconto delle vite dei carnefici emerge un monito: i peggiori torturatori erano uomini che avevano storie comuni a quelle di tanti altri e che a causa di un’ideologia totalitaria e razziale si sono trasformati in esecutori dei crimini più efferati del nostro recente passato, cancellando in loro ogni residuo di umanità e dignità.
La strada che hanno percorso per arrivare a compiere un simile Male radicale, sappiamo, che non è ancora chiusa.
Frediano Sessi
[IF]Public history: discussioni e pratiche – FARNETTI et al (BC)
FARNETTI, Paolo Bertella; BERTUCELLI, Lorenzo; BOTTI, Alfonso Botti (A cura di). Public history: discussioni e pratiche. Milano – Udine: Mimesis, 2017. 338p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.10, p.105-109, gen., 2019.
La Public History? “Un nuovo contenitore trendy che in sostanza indica una storia spiegata a gente che non la sa da parte di altra gente che non la sa nemmeno lei, un po’ l’imparicchia e un po’ l’inventa”, secondo la definizione dello storico F. Cardini, a proposito della Saga dei Medici prodotto da Rai Fiction-Luz Vide.
Il libro di cui si parla in questa recensione può aiutare a capirci qualcosa di più. Diviso in due parti, il volume raccoglie nella prima il dibattito sulle definizioni della PH, ne ripercorre la storia negli Stati Uniti (sul finire degli anni Settanta del secolo scorso) e in Italia (di PH si è cominciato a parlare dal 2000; l’Associazione italiana di Public History (AIPH) nasce nel 2016), esplorando alcuni dei nodi metodologici più significativi, in particolare i rapporti tra PH, storia accademica, uso pubblico della storia, memoria. Leia Mais
Il divano di Istanbul – BARBERO (BC)
BARBERO, Alessandro. Il divano di Istanbul. Palermo: Sellerio, 2015. 207p. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Il Bollettino di Clio, n.10, p.110-112, gen., 2019.
L’impero ottomano, iniziato nei primi decenni del Trecento da ‛Othman, un capo tribù di una regione dell’Anatolia nord-occidentale, fu portato avanti dai suoi eredi e successori fino a raggiungere la massima espansione nel XV-XVI secolo, dopo la conquista di Costantinopoli, della Grecia, dei Balcani, dell’Ungheria, delle regioni mediorientali, della penisola arabica, della Persia. Fu fermato in Europa occidentale a Lepanto nel 1571, pur continuando a dominare nelle isole mediterranee e nella costa nordafricana. L’impero durò sei secoli. Finì di fatto nel 1918 con la sconfitta nella prima guerra mondiale, e fu sciolto nel 1923 da Kemāl Atatürk, che, nel corso della sua rivoluzione e rifondazione nazionale turca, depose l’ultimo imperatore, Maometto VI, e proclamò la Repubblica di Turchia, attualmente esistente.
Alessandro Barbero racconta in 207 pagine sei secoli di storia, una storia avvincente, che si legge come un romanzo.
Barbero mette a frutto le sue ricerche immergendole nel contesto delle sue immense conoscenze storiche, rappresentando con grandissima sapienza la civiltà ottomana, in uno con la religione musulmana e l’immagine del turco ancor oggi presente nella memoria collettiva italiana ed europea.
L’autore ci presenta l’architettura istituzionale dell’impero nelle prime pagine del libro. L’imperatore è il sultano. Il governo dell’impero si chiama divan, ed è presieduto dal gran visir e composto dai pascià.
“La tradizione dei nomadi delle steppe continua a vivere nell’impero ottomano anche attraverso i simboli del potere. Il principale simbolo del potere nella gerarchia ottomana è una coda di cavallo, come quella che i capitribù nomadi piantavano su un palo davanti alle loro tende per far riconoscere la loro autorità. Davanti al padiglione del sultano, quando è in marcia alla testa dell’esercito, si piantano sette pali con sette code di cavallo, e soltanto il sultano può averne così tante; il gran visir ha diritto a quattro code di cavallo, per marcare bene la differenza; gli altri pascià, membri del governo ma inferiori al gran visir, possono inalberare tre code.” (p. 16)
Come tutte le storie, specialmente quelle di grandi e longevi imperi, anche questa ha i suoi protagonisti. Sono grandi condottieri militari, conquistatori di terre e di popoli, ma anche grandi politici e governanti, come Solimano il Magnifico, che Barbero ci ricorda contemporaneo del Rinascimento italiano, della Riforma protestante e della Controriforma cattolica, di Michelangelo e di Lutero, di Machiavelli e Calvino.
Ecco una caratteristica fondante della scrittura di Barbero: il continuo richiamo alle conoscenze storiche che si presumono nel lettore acculturato dai manuali scolastici; ciò gli consente di situare nel tempo le narrazioni del suo libro cogliendone le contemporaneità. E non si sottrae al confronto, anzi. Sottolinea le differenze tra Roma e Bisanzio-Istanbul al tempo di Solimano.
“Siamo dunque in un’epoca in cui con il senno di poi, pensando alla conquista dell’America, pensando alla diffusione delle armi da fuoco, noi vediamo un’Europa già lanciata alla conquista del mondo, un Occidente straordinariamente vitale, pieno di energie; i contemporanei non ne erano così convinti, loro vedevano le lacerazioni spaventose, le atrocità delle guerre di religione, una cristianità spaccata tra cattolici e protestanti, e perciò orrori, sofferenze, guerre incessanti. E di fronte a questa Europa insanguinata, a questa Cristianità lacerata vedevano un impero ottomano governato da un nuovo Salomone, da un uomo che era al tempo stesso un grande legislatore e un grande guerriero.” (p. 61)
Barbero non si limita al confronto coevo; per farci meglio comprendere le specificità dell’impero ottomano nello svolgersi dei secoli, spesso ci ricorda che gli avvenimenti nel tempo modificano spazi, istituzioni, modi di vivere. Sono frequenti interruzioni della narrazione introdotte da “noi siamo abituati a pensare che…” e via con precisazioni e messe a punto.
Il divano di Istanbul ci consegna un affresco dell’impero e della civiltà ottomana che ci fa capire molto della Turchia e della civiltà islamica odierna, dimostrando, se ce ne fosse ancora bisogno, l’importanza della conoscenza del passato per capire il presente. Gli storici bravi come Barbero ricostruiscono un pezzo di passato che ci fa comprendere il mondo in cui stiamo vivendo e lo raccontano a noi, uomini e donne europee del ventunesimo secolo in modo a noi comprensibile. È la semplicità che, come dice il poeta, è difficile a farsi.
Vicenzo Guanci
[IF]DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica d studi sulla memoria femminile (BC)
DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica d studi sulla memoria femminile. Resenha de: ERMACORA, Matteo. Il Bollettino di Clio, n.9, p.61-62, feb., 2018.
Pubblicata online dal luglio 2004, la rivista “DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile” si è proposta come luogo di analisi scientifica e di riflessione sul tema della memoria femminile nelle situazioni di esilio, deportazione e profuganza, – temi poco indagati dalla storiografia –e darne nel contempo massima visibilitàattraverso ricerche, documenti, scritti inediti etestimonianze orali.
Proprio per favorire la circolazione delle idee, superare la marginalità tematica della questione di genere e raggiungere un pubblico ampio, si è pensato ad una rivista scientifica “leggera”, digitale, indipendente, gratuita (tutti di documenti sono scaricabili e consultabili), aperta alla partecipazione di collaboratori italiani e stranieri mediante meccanismi di peer review. La rivista, inserita nel sito dell’Università degli studi di Venezia Cà Foscari, è strutturata su cinque sezioni: “Ricerche”, “Documenti”, “Interviste”, “Strumenti di ricerca” (bibliografie, sitografie) e “Recensioni”, concepite come “contenitori aperti”, tali da consentire vicendevoli rimandi.
Sin dagli esordi la rivista ha cercato di contraddistinguersi attraverso una marcata dimensione internazionale, l’ampiezza dello spettro geografico e cronologico preso in considerazione, la pluralità degli approcci disciplinari e metodologici, il graduale passaggio da un “tradizionale” orientamento storiografico ad una più ampia riflessione sui nodi teorici della questione femminile nella contemporaneità. In questa direzione la struttura della rivista si è modificata, aggiungendo la rubrica annuale “Una finestra sul presente”, volta ad illustrare una particolare situazione o tematica d’attualità, e le rubriche “donne e terra”, “donne umanitarie”, volte a valorizzare il rapporto delle donne con la natura, la solidarietà e l’attivismo femminile per la giustizia e i diritti umani. Tali rubriche hanno permesso di allargare lo sguardo a tematiche e situazioni extraeuropee e di ospitare studiosi e studiose di altra nazionalità.
Contestualmente anche la periodicità, dapprima basata su due uscite annuali (gennaio/luglio), alternando numeri monografici a miscellanei, si è via via arricchita con la presenza di “numeri speciali” curati da singoli o gruppi di studiosi esterni; la serie è stata inaugurata da Violenza, conflitti e migrazioni in America Latina (n. 11/2009).
L’attività della rivista si è accompagnata ad una serie di presentazioni pubbliche, mostre, seminari, convegni e giornate di studio, i cui materiali sono poi comparsi nella rivista stessa. Tra gli eventi promossi è necessario ricordare la giornata di studio su La lingua della memoria (giugno 2005), la mostra sui disegni dei bambini nei campi di concentramento italiani di Rab e di Arbe, i convegni Donne in esilio. Esperienze, memorie, scritture (ottobre 2006), Genere, nazione, Militarismo (ottobre 2008) e La violenza sugli inermi (maggio 2009), la Giornata della memoria La Shoah in Serbia (gennaio 2010), i seminari dedicati a Lo stato di eccezione (febbraio 2007), Donne e tortura (giugno 2010), lo sradicamento attraverso l’analisi di Hannah Arendt e Simone Weil (2011-2013), Tortura ed infanzia (giugno 2015), i convegni internazionali Vivere la guerra, pensare la pace 1914-1921 (novembre 2014) e Confini: la riflessione femminista (novembre 2017).
Se inizialmente, proprio partendo dal caso paradigmatico della Shoah, la questione posta al centro dell’analisi storiografica era data dalla necessità di ridare una “identità” e una “dignità” alle vittime indistinte della violenza genocidaria, della deportazione, dei sistemi totalitari, dei vari episodi di “infanzia negata” (n.3/2005: I bambini nei conflitti. Traumi, ricordi, immagini), dando valore ai destini individuali di donne e bambini, valorizzando le loro voci, le strategie di sopravvivenza e di reciproco aiuto, nel corso degli anni la rivista, adottando un approccio interdisciplinare, ha progressivamente dilatato i campi di indagine, spostandosi progressivamente su tematiche che riflettevano il rapporto guerra totale e profuganza nelle guerre del Novecento (nn.13-14/2010: La violenza sugli inermi), la privazione dei diritti e la “violenza estrema” dello stupro (n. 10/2009: Genere, nazione, militarismo. Gli stupri di massa), la prostituzione forzata, fino ad arrivare al femminicidio messicano (n. 24/2014). Costante in questo senso è stata l’attenzione alla lingua, alle parole, alla rappresentazione letteraria come strumento per esprimere il trauma ed esorcizzare il dolore (n. 8/2008, Donne in esilio; n. 22/2013, Voci femminili nei lager sovietici; n. 29/2016, Primo Levi e le scritture della salvazione).
Accanto al versante prettamente storiografico l’indagine si è progressivamente estesa all’esplorazione del filone del pensiero femminile e femminista, mettendone in luce complessità, soggettività, aperture critiche e alterità rispetto alle idee dominanti, pubblicando scritti inediti, opuscoli, antologie. Partendo dal tema della cittadinanza, della presenza/assenza delle donne sulla scena pubblica e dei diritti delle donne negati per forza di legge (nn. 5-6/2006), si è articolato il tema dello “sradicamento” – fisico, culturale, territoriale, da “sviluppo” capitalistico – come aspetto cruciale della condizione femminile nel tempo di guerra e di pace e si è cercato di valorizzare la capacità delle donne e del pensiero femminile di cogliere questa condizione e nello stesso tempo di metterla in discussione mediante la proposta di nuovi orizzonti sociali, relazionali, economici. Di qui l’attenzione riservata alla riflessione pacifista e femminista sulla denuncia della natura della guerra (nn. 18-19/2012; n. 31/2016), la ricostruzione di biografie di donne attive sul versante del relief work, l’analisi delle azioni di militanti pacifiste ed ecologiste, la riscoperta del pensiero di attiviste rispetto all’economia, alla pace, all’ambiente e ai diritti umani (Ruth First, n. 26/2014; Rosa Luxemburg, n.28/2015; Rachel Carson, n. 35/2017; lecollaboratrici di Gandhi, n. 37/2018) nonchél’ecofemminismo (n. 20/2012), il femminismo e laquestione animale (n. 23/ 2013). Questetematiche, variamente indagate dal punto vistastorico, filosofico, giuridico e sociologico,consentono di offrire un prisma rappresentativodella ricchezza del pensiero femminista e nelcontempo costituiscono un promettente campo dinuove indagini.
Matteo Ermacora
[IF]L’età del transito e del conflitto. Bambini e adolescenti tra guerre e dopoguerra. 1939-2015 – BACCHI (BC)
BACCHI, Maria; ROVERI, Nella. L’età del transito e del conflitto. Bambini e adolescenti tra guerre e dopoguerra. 1939-2015. Bologna: Il Mulino, 2016. 592p. Resenha de: CITTERIO, Silvana. Il Bollettino di Clio, n.9, p.66-69, feb., 2018.
Il volume: le sue parti e i suoi significati In un ponderoso volume di ben 592 pagine, le curatrici Maria Bacchi e Nella Roveri tengono insieme vicende che hanno come comun denominatore l’esperienza di bambini, bambine, adolescenti in guerra, in fuga dalle stesse e nei vari “dopoguerra”. Dette vicende si collocano nel tempo lungo dalla Seconda guerra mondiale ai giorni nostri e in un contesto globale.
Marcello Flores, nel saggio introduttivo Cartografie del Novecento: luoghi e forme del conflitto, ricostruisce la cornice spazio-temporale del “secolo breve” e ne indica i segni distintivi e contraddittori. Se, infatti, per un verso è il periodo in cui si conclamano i diritti delle persone, nasce l’opinione pubblica e si afferma il valore della libertà e della democrazia, (Flores cita per esempio la campagna di Conan Doyle e Mark Twain contro il dominio personale e feroce di Leopoldo II nel Congo), per l’altro è e sarà ricordato come un secolo di totalitarismi, razzismi e stermini. Flores ricorda: in Africa la distruzione degli Herero in Namibia da parte dell’esercito tedesco, i campi di concentramento inglesi per i boeri e, più recentemente, il Rwanda e il Congo; in Asia la Cambogia di Pol Pot; In America Guatemala e Argentina. In Europa, dopo la Shoah, ex Jugoslavia e Cecenia.
Dopo l’introduzione di Marcello Flores, il volume si articola in tre parti. La prima, Infanzie e guerre del Novecento, raccoglie l’esperienza di solidarietà e salvataggio dei ragazzi di Villa Emma a Nonantola, la testimonianza di intellettuali approdate in Italia dopo la Shoah (Edith Bruck) e dopo il conflitto serbo-bosniaco (Anja Galičić e Elvira Muičić) e la vicenda di Keiji Nakasawa che, sopravvissuto alla bomba di Hiroshima, racconterà la sua storia in un fumetto manga.
La seconda, All’inizio del terzo millennio, tratta dei ‘minori non accompagnati’ in fuga dai loro paesi e in transito o in arrivo in Italia, all’inizio del XXI secolo.
Nella terza, Memorie dell’infanzia in guerra, vengono riesaminate le esperienze dei bambini in guerra narrate nella prima parte e si aggiungono altri racconti, per esempio la vicenda della colonia di Izieu e della sua eroina e testimone, Sabine Zlatin.
Nello spazio temporale coperto dal volume (1939 – 2015), l’esperienza dei ragazzi di Villa Emma a Nonantola (fra il luglio 1942 e l’ottobre 1943) si colloca come esempio positivo di gruppo, che seppe attivare dinamiche di salvezza e di crescita. Nel 2004, la nascita della Fondazione Villa Emma a Nonantola si inserisce come buona pratica di ricostruzione storica e di conservazione dei luoghi della memoria.
Figure e ruoli femminili nel Novecento attraversato dalle guerre Mentre le storie attuali dei minori non accompagnati sono essenzialmente storie al maschile, le vicende della Shoah e quelle relative alla sanguinosa deflagrazione dell’ex Jugoslavia sono popolate da figure femminili. Le donne, si sa, sono “vittime storicamente designate”, ma chi sopravvive assume spesso il ruolo di testimone consapevole. Vediamo di seguito quali storie “al femminile” hanno rilievo nel volume.
Dalle pagine dedicate all’ex-Jugoslavia nell’ultimo decennio del Novecento, possiamo ricavare le testimonianze, analoghe ma differenti, di due scrittrici, Anja Galičić e Elvira Mujčić, preadolescenti al tempo del loro esodo in Italia durante la guerra di Bosnia.
Entrambe provengono da famiglie di intellettuali, musulmane ma profondamente laiche; entrambe trovano rifugio in Italia e vi si laureano con una tesi analoga sul ruolo dei media nella guerra dell’ex Jugoslavia; entrambe useranno l’italiano come lingua della loro produzione letteraria. Tuttavia, mentre Anja arriva 13enne in Italia dalla nativa Sarajevo con l’intera famiglia nell’aprile 1992 e si stabilisce a Gressoney, Elvira vi arriverà nel 1993 a 14 anni, dopo essersi separata dal padre e dallo zio che perderanno la vita e il corpo nel genocidio di Srebrenica, e dopo aver trascorso un anno presso un campo profughi della Caritas in Croazia.
Da queste esperienze emerge, come dato rilevante del vissuto delle bambine e dei bambini in tale contesto, quanto ci ricorda Maria Bacchi “La guerra angoscia i bambini prima e li perseguita dopo, quando gli adulti pensano che i più piccoli non ne siano toccati o ne siano finalmente fuori. Il suo svolgimento li espone a rischi terribili che, sappiamo, genera traumi, ma crea anche, paradossalmente, una sospensione della normalità che offre imprevisti spazi di libertà e di avventura”.1 Dello stesso tono la diretta testimonianza di Elvira Mujčić: “Uno degli aspetti più allucinanti di una guerra è la noia. […] Mentre gli altri bambini in giro per il mondo raccoglievano le figurine, noi raccoglievamo i pezzi di granata e facevamo le nostre collezioni, con tanto di scambi.”2 Si tratta di bambini e bambine che non possono proprio credere all’evidenza della guerra nella multiculturale Sarajevo e nella Bosnia tutta. A conforto si cita anche la testimonianza di Sasa Stanisic, giovane scrittore bosniaco in lingua tedesca.3 Del resto, il nodo della inesplicabilità dell’esplosione nazionalista nell’ex Jugoslavia è il rovello delle vittime (la stessa Mujčić lo tratta nel suo romanzo E se Fuad avesse avuto la dinamite) ed è un tema su cui si va facendo via via maggior chiarezza: con la pubblicizzazione di documenti secretati paiono delinearsi incapacità, incuria e connivenza dell’Occidente.
Un’altra storia d’infanzia in guerra è quella di Edith Bruck. Lo scenario qui è quello della Seconda guerra mondiale. Edith viene deportata a 12 anni dal suo villaggio ungherese nei lager nazisti a cui sopravvive per arrivare, dopo varie peregrinazioni, in Italia, dove comincia, con la sua autobiografia in italiano –Chi ti ama così- un’intensa attività di scrittrice e testimone. Bruck si riconosce nell’ebraismo laico (per lei archetipo di tutte le diversità) e assume la responsabilità di denunciare a quanti non sanno e non conoscono l’orrore indicibile dell’Olocausto. “Dire terrore, orrore, paura, dolore, sofferenza, fame, freddo non esprime quel freddo, quella fame, quel terrore. Anche adesso ho fame e freddo, ma non c’è confronto.”4 Signora Auschwitz verrà rinominata la Bruck da una studentessa che ne ascoltava la testimonianza. E Signora Auschwitz diventerà poi il titolo di una sua opera.
Infine Izieu. La memoria e il luogo di Pierre Jérome Biscarat ricostruisce l’episodio della colonia di Izieu, da cui il 6 aprile 1944 vennero arrestati dalla Gestapo, per ordine di Klaus Barbie, 44 bambini ebrei e 7 educatori. Imprigionati a Lione vennero successivamente internati ad Auschwitz. Sola sopravvissuta Lea Feldblum, un’educatrice di 26 anni. Tra il maggio 1943 e l’aprile 1944 la direzione della colonia era stata affidata a una coppia di ebrei francesi: Sabine e Miron Zlatin. Sabine si salverà perché quel 6 aprile 1944 si trovava a Montpellier e si prodigherà per avere giustizia, salvando la memoria e la storia di Izieu, fino a ottenere l’estradizione dalla Bolivia di Klaus Barbie che, processato nel 1987, sarà condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità.
Nel 1994 il Presidente Mitterand inaugurerà il Museo memoriale dei bambini di Izieu che è oggi accessibile alle scuole e svolge un’importante funzione pedagogica per salvare la memoria e ricostruire la storia della vicenda nell’ambito della Shoah e della Seconda guerra mondiale.
Quali analogie ritroviamo fra le storie di Anja e Elvira, le due adolescenti in fuga dalla guerra di Bosnia che eleggono l’Italia a loro luogo d’asilo, e le vicende di Edith, sopravvissuta al campo di sterminio, o di Sabine che per caso lo evitò? Sicuramente le accomuna una formazione laica, acquisita in ambito familiare – è il caso dichiarato di Anja e Elvira, intellettuali e musulmane – o conquistata successivamente, come Edith Bruck, che si riconosce in un “ebraismo laico”, o Sabine Zatlin, ebrea naturalizzata francese. In secondo luogo la volontà e la necessità di testimoniare sia con i modi della finzione letteraria (Bruck, Mujčić, Galičić) sia attraverso incontri con i giovani (Bruck). Infine l’esigenza profonda di avere giustizia a cui dedicò la sua vita Sabine Zatlin, ricostruendo la memoria di un luogo e la storia di chi altrimenti sarebbe stato cancellato.
Riflessioni e spunti didattici tra storia, memoria, narrazione Il testo offre contributi interessanti per una ricostruzione storiografica che accosta, in una riflessione non convenzionale, le storie della Shoah e il conflitto di fine Novecento nell’ex-Jugoslavia.
Il saggio di Maria Bacchi Elementi essenziali per una cronologia delle guerre jugoslave inquadra sinteticamente la complessità della vicenda. Lo sguardo di lungo periodo coglie, nella battaglia di Kosovo Polije del 1389, uno degli snodi in cui “la storia viene usata come un coltello per smembrare una nazione.”5 Infatti, in tale battaglia, divenuta simbolo della nazione serba, i serbi furono sconfitti dai turchi dell’Impero ottomano. Allo stesso modo, nel conflitto che insanguina i Balcani negli Anni ’90, Seconda guerra mondiale e Resistenza vengono richiamate in modo distorto: “Dove erano i vostri padri, mentre i nostri combattevano i nazisti?” (Detto dai paramilitari serbi ai bosniaci mentre li torturavano). Con tali modalità si sanciva la negazione del principio di Unità e Fraternità su cui si era costruita la Repubblica Jugoslava di Tito fino alla nuova Costituzione del 1974, che, a giudizio di Bacchi, è sintomo e, insieme, fattore di disgregazione.
Il testo di Nella Roveri La memoria e i luoghi. Nonantola, Izieu, Sarajevo. Quadri della memoria Note di lettura6 richiama i concetti fondamentali di memoria individuale e collettiva e il loro ruolo nella ricostruzione storica, avvicinando le vicende della Shoah – Nonantola e Izieu – a quelle del conflitto di Bosnia (Sarajevo). Con l’istituzione dei giorni della memoria e del ricordo, in Italia e in Europa si rende ufficiale la memoria collettiva del gruppo di appartenenza (sia esso l’intera nazione o la comunità religiosa e politica) e se ne rischia, al contempo, la mitizzazione e/o la banalizzazione con pratiche di “uso pubblico della storia”. In proposito Biscarat pone la questione della significatività e dell’efficacia dei “viaggi della memoria”, in particolare ad Auschwitz, in inverno e con studenti fra i 13 e i 15 anni.7 Occorre invece una ricostruzione storiografica che renda ragione dei fatti, onde evitare per le guerre e gli stermini di fine Novecento i silenzi e le negazioni imposti dopo la Seconda guerra mondiale, quando la verità dei vincitori è diventata la storia ufficiale.8 Giulia Levi nella sua intervista del 2011 a Mirsad Tokača, direttore del Centro di Ricerca e Documentazione di Sarajevo – finanziato da enti internazionali e sponsor privati – ne mette in luce la metodologia di ricerca scientifica. Il Centro opera per una ricostruzione storica capace, incrociando fonti d’archivio plurime e di diverso tipo con le testimonianze dei sopravvissuti, sia di informare con dati certi, pur se non definitivi, sia di restituire nome, volto e dignità a ogni vittima. Il lavoro del Centro ha portato alla pubblicazione nel 2013 del volume The Bosnian Book of Death, in cui viene attestato il numero di 97.207 vittime accertato a quella data. Numero che si colloca tra le cifre minime (25/30.000) e massime (300/400.000) utilizzate per una ricostruzione strumentale e di parte dei fatti.
Un altro aspetto interessante del volume dal punto di vista didattico è il rapporto fra Storia e storie personali, in particolare le storie di cui Elvira, Edith e Keiji sono stati protagonisti e vogliono essere testimoni.
Elvira Mujčić e Edith Bruck utilizzano i modi della finzione letteraria e identificano nel romanzo e nella lingua italiana (non materna e, quindi, in grado di offrire più significati e una nuova identità) la forma più adatta a veicolare la propria vicenda, perché è nella trasposizione letteraria e attraverso una lingua acquisita che la propria storia più si avvicina alla verità.
Invece Keiji Nakasawa usa la forza narrativa del manga per raccontare “la sua esperienza di bambino che rimane solo con la madre in un inferno di fuoco, mostri e morte.”9 Il contesto storico e socio-culturale del Giappone nell’estate del 1945 e nel primo dopoguerra è ben descritto nel contributo di Rocco Raspanti, Un sussidiario del dolore. La storia di Gen di Hiroshima.10 Il contributo è completato da alcune strisce del fumetto manga, con traduzione italiana in calce. Strisce, a mio avviso, molto efficaci per una presentazione del tema “Hiroshima e bomba atomica” anche con gli allievi della Scuola Primaria.
In tutti e tre i casi la volontà di narrare si intreccia con il desiderio di collocare la propria storia nella Storia ed è molto evidente l’intento di consegnare alla Storia, con la S maiuscola, dati che le siano utili.
[Notas]1 Cfr. M. Bacchi, Racconti di guerra, di fuga, di esilio.Note di lettura, pag. 187.
2 Cfr. Elvira Mujčić, Scrivere la memoria, p. 227.
3 Cfr. M. Bacchi, cit. pag. 187.
4 Cfr. N. Roveri, L’evento, il silenzio, il racconto.Note di lettura, pag. 254.
5 Cfr. M. Bacchi, cit. pag. 186.
6 Cfr. N. Roveri, pp. 473 – 485.
7 Cfr. P.J. Biscarat, Izieu. La memoria e il luogo, pp. 507-532.
8 Cfr. in N. Roveri, cit., pag. 480; Cfr. Giulia Levi, Intervista a Mirsad Tokača pag. 557 e seg.
9 Cfr. N. Roveri L’evento, il silenzio e il racconto. Note di lettura, pag. 258.
10 Cfr. pp. 287- 322.
Silvana Citterio
[IF]Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo – DAVIS (BC)
DAVIS, Natalie Zemon. Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo. Bari: Laterza, 1996. 372p. Resenha de: COCILOVO, Cristina. Il Bollettino di Clio, n.9, p.70-72, feb., 2018.
Tre donne introdotte da un’intervista impossibile, che le costringe a prender vita in un libro e a confrontarsi, loro così lontane nella religione (rispettivamente ebraica, cattolica, luterana). Ma al dunque, grazie alla caparbietà dell’autrice Natalie Zemon Davis, riescono nella simulazione a trovare il fondamento della loro identità comune: l’affermazione della loro autonomia, del loro talento, della loro intraprendenza. Eccezionale per un’epoca caratterizzata dal “silenzio” delle donne, dall’assenza di loro tracce, nella ricostruzione selettiva della storiografia ufficiale.
Glikl Bas Yehudah Leib, ebrea askenazita cioè di origine tedesca, a differenza delle altre donne del suo tempo non disdegna il lavoro. Nonostante una numerosa famiglia, collabora con l’attività dell’amato marito, commerciante di gioielli e prestatore di denaro, che a seconda del momento può portare a vistosi arricchimenti come a repentine rovine. Glikl non dà al denaro valore in sé. Non desidera vivere nel lusso. Come la maggior parte degli ebrei abita in una casa d’affitto, non potendo per legge possedere proprietà. Per lei il valore assoluto è l’onore, l’essere considerata degna di rispetto, lei come la sua famiglia. Sappiamo tutto questo da una autobiografia articolata in ben sette libri, in cui Glikl alterna la narrazione della sua vita a vere e proprie parabole, che hanno lo scopo di far comprendere i valori positivi della solidarietà, dell’amore, il senso della sofferenza. Una donna di grande cultura teologica e tecnico – commerciale, rispettata per la sua acutezza nel gestire questioni finanziarie e insieme profondamente religiosa e giusta. Sebbene lei e la sua famiglia abbiano talvolta subito le conseguenze di persecuzioni antiebraiche, che li costringono a trasferimenti forzati, accetta la sofferenza, mai si ribella a Dio che muto e immobile non interviene. Semmai lo interroga e con rassegnata accettazione e cerca di ricominciare ex novo.
Marie de l’Incarnation, se si può considerare per il nostro tempo personaggio singolare, per non dire psichicamente disturbato, è invece perfettamente inquadrabile nell’epoca della Controriforma. Ispirata fin da giovane dalla vocazione divina, trascorre la vita secondo due passioni apparentemente poco conciliabili: un forte trasporto per la vita mistica e una spiccata capacità organizzativa del quotidiano. Divenuta vedova precocemente, percepisce il potente richiamo del misticismo come altre “sante” dell’epoca, che trasfigurano in estasi religiosa le pulsioni del proprio corpo, ma nel contempo gestisce con molta maestria, quasi con piglio imprenditoriale, l’azienda commerciale della sorella e del cognato, che la ospitano insieme al figlioletto. Per il resto della sua vita vivrà questa difficile dicotomia. A circa trent’anni decide di prendere i voti come suor Orsolina, separandosi dal figlio adolescente e disperato. Vive in clausura, mortificando con sofferenze fisiche il suo corpo secondo l’esempio di Teresa d’Avila, finché non ha l’occasione di poter educare al pensiero cristiano i “selvaggi” del Nuovo Mondo. Si trasferisce in Canada, dove lavora con efficientismo invidiabile nelle difficili condizioni di una Missione delle suore Orsoline. Qui lei, che rifiutava il suo corpo, si accosta alla corporeità degli altri e tocca, cura, pulisce, insegna, impara le lingue locali, converte indios in un’opera pastorale a tutto campo. Soprattutto ha una ultra decennale corrispondenza con il figlio Claude, che a sua volta aveva preso i voti, e scrive testi religiosi per le genti locali nella loro lingua e scrive anche la sua autobiografia. Il figlio raccoglierà con devozione gli scritti della madre, ma li correggerà adattandone il linguaggio ingenuo allo stile sospettoso della Chiesa dell’epoca, per pubblicarli in un’opera postuma, “Vie”, dove però non inserisce gli scritti teologici di Marie in lingua irochese, algonchina e urone, utilizzati nella sua azione pastorale in Quebec.
Nonostante gli attacchi di misticismo e autoflagellazione, Marie ha un aspetto che la avvicina alla nostra sensibilità, per la relazione che ha creato con i “selvaggi”. Il suo scopo non è quello di emarginarli, ma di includerli nel mondo dei cristiani, in una visione universalistica, secondo cui non esiste differenza fra esseri umani, se questi abbracciano la parola di Cristo. Marie, mentre cerca di convertirli, educa gli indios al rispetto dell’igiene, della lettura e della scrittura. Qualora essi fuggano per l’innato desiderio di libertà di vivere nella natura, lontano da un convento di clausura, Marie li comprende e li perdona, riscoprendo il ruolo di madre generosa, che non aveva saputo assumere con il figlio al momento dell’abbandono.
Maria Sibylla Merian, luterana, originaria di Francoforte, figlia d’arte di un famoso incisore, non visse una vita familiare e borghese, come le sue condizioni le consentivano, allineandosi così alle stranezze delle altre due donne del libro. Si trasferì nel corso della vita in diversi luoghi, in seguito a scelte di vita radicali. La sua vita si potrebbe definire una metamorfosi, mimando il titolo della sua opera più famosa “Metamorfosi degli insetti del Suriname”, una raccolta di incisioni artistico-scientifiche che rappresentano la stupefacente natura tropicale. Acquisita fin da giovane una certa notorietà, grazie al suo talento di incisore1, diventa famosa dopo la pubblicazione nel 1679 del libro in due volumi “I bruchi. Le meravigliose metamorfosi dei bruchi“, in cui affianca a un centinaio di splendide incisioni di bruchi e insetti, descrizioni basate sulle sensazioni soggettive provate nell’osservazione degli aspetti naturali. Nell’organizzazione dei libri, rifiutò ogni criterio classificatorio, ritenendolo inadeguato. Non seleziona i viventi distinguendoli in catalogazioni di piante, bruchi e insetti; la sua osservazione ruota attorno a una foglia di cui si nutrono simultaneamente bruchi ed altri insetti, mentre le crisalidi si trasformano in farfalle. Evidenzia la vitalità delle relazioni fra gli esseri di un medesimo habitat. Tuttavia la sua visione della natura è profondamente religiosa, perché vi individua la straordinaria onnipotenza divina.
Morto il padre, probabilmente in crisi con il marito, si separa e sceglie di andare a vivere con le due figlie in Frisia, presso la comunità luterana dei Labadisti, che praticavano una fratellanza mistica. Qui rinuncia a ogni bene terreno e tronca le relazioni con l’esterno. Dopo pochi anni vissuti come cristallizzati in quella realtà, ecco la metamorfosi di Maria. L’eccessiva mortificazione, il distacco dalle cose del mondo e della natura, persino il ripudio del suo orgoglio di creatrice di oggetti artistici la spingono a un nuovo cambiamento.
Abbandona la comunità e si trasferisce ad Amsterdam per ricostruire la vita sua e delle figlie, ritornando all’arte incisoria, intraprendendo la strada dell’insegnamento e costruendosi una solida vita borghese, in piena autonomia di scelte anche economiche. Grazie poi al genero, che commercia con le colonie del Suriname, incuriosita dalla ricchezza di vita di quei luoghi, vi si trasferisce per due anni con la figlia minore.
In seguito a quella esperienza, pubblicò la sua opera più originale “Metamorfosi”, in cui riaffermò la sua visione della natura come un insieme di relazioni dinamiche tra viventi, che mutano nel tempo e a seconda del luogo in cui si realizzano. Consultò, senza i pregiudizi coloniali del tempo, indios e schiavi neri, che le diedero preziose indicazioni sulle caratteristiche di piante e animali del luogo, oltre alle loro abitudini di vita. Informazioni che riportò nel libro, anticipando aspetti delle attuali ecologia e antropologia. Tornata in patria, ottenne fama e riconoscimenti.
Che cosa hanno in comune queste tre donne così diverse tra loro, vissute in un periodo storico che condannava al silenzio le figure femminili? La cultura innanzitutto. Tutte e tre abitanti di città hanno realizzato importanti opere nel loro campo specifico con una cultura libera da schemi. Tutte e tre hanno superato radicali cambiamenti, hanno impostato un rapporto profondo con la divinità che prospettava una vita migliore, per superarla e trovare riscatto nel lavoro. Tutte e tre erano esperte contabili, avevano indubbio talento per gli aspetti organizzativi del lavoro e non mancavano di spirito d’avventura.
Ma vivevano ai margini. In che senso? Perché lontane dal potere politico ed economico, perché la loro era una cultura da autodidatta, non costruita nelle accademie. Grazie alla loro intraprendenza riuscirono però a dare significato originale alle loro opere.
Cosa ci resta di loro? L’autobiografia di Glikl ebbe diverse edizioni e una certa diffusione nel mondo ebraico, finché non fu dichiarato libro “velenoso” dal nazismo. Fortunatamente l’autrice ne ha ritrovato una copia alla biblioteca di Berlino.
Le opere in lingua algonchina, irochese e urone di Marie forse andarono disperse dai missionari che si avventurarono all’ovest. Invece è rimasto come testo di riferimento per le Orsoline la sua “Vie” curata dal figlio.
Maria Sibylla ebbe più fortuna. Le sue opere vennero utilizzate e citate da Linneo e la sua raccolta postuma di incisioni fu acquistata da Pietro il grande. Oggi fa bella mostra di sé nella Kunstkammer dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo, mentre il suo libro delle Metamorfosi è considerato patrimonio nazionale dal Suriname.
Le storie ritrovate delle tre donne potrebbero rientrare nella storia scolastica per ricostruire quadri d’insieme: la vita di ebrei askenaziti in Germania, il rapporto contorto con la religione controriformista di sante in estasi mistica, le relazioni contraddittorie con le genti del Nuovo Mondo, la faticosa affermazione del metodo d’osservazione scientifica.
Per gli studenti il libro costituisce probabilmente una lettura impegnativa, ma in un laboratorio storico di 17/18enni può essere interessante delineare temi come quelli accennati attraverso la costruzione di tre biografie femminili. Potrebbe diventare un’operazione capace di dare una luce diversa a queste tematiche e insieme di valorizzare i contributi ignorati di tre grandi donne del passato.
[Notas]1 Significativo che in italiano non esista la versione femminile del termine incisore.
Cristina Cocilovo
[IF]La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto – FECI; SCHETTINI (BC)
FECI, Simona; SCHETTINI, Laura Schettini. La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto. (Secoli XV-XXI). Roma: Viella, 2017. 287p. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Il Bollettino di Clio, n.9, p.73-74, feb., 2018.
Le guerre di fine Novecento si sono distinte non solo per il 95% di vittime civili non combattenti ma per l’uso del corpo delle donne come arma. In particolare le guerre etniche nella ex Jugoslavia e in Ruanda hanno messo in evidenza come gli stupri di guerra fossero programmati e usati come un’arma vera e propria. Un’arma particolarmente efficace nelle società patriarcali fondate su una concezione proprietaria del corpo femminile. La guerra non solo rende legittimo infrangere i comandamenti divini del non rubare e non uccidere ma anche quello di non desiderare la “donna d’altri”; lo stupro della “donna del tuo nemico”, infatti, ha la duplice funzione di umiliare nell’immediato il nemico incapace di proteggere la “propria” donna e di garantirsi in aggiunta effetti dirompenti che vanno oltre la fine del conflitto.
Del resto, la retorica nazional-patriottica usa la metafora della nazione-donna da difendere e lo sfondamento dei confini un disonore; proprio questo fece assumere allo stupro un valore chiave nei conflitti tra nazionalismi, rendendolo nel corso del Novecento una tra le più efficaci e ricercate pratiche di guerra.
Ma andiamo per ordine. Il volume curato da S. Feci e L. Schettini affronta il tema della violenza maschile sulle donne nell’Europa degli ultimi cinquecento anni. Le fonti principali sono di tipo giuridico: testi normativi e atti processuali.
Analizzati e interpretati alla luce del contesto storico e sociale nel quale venivano utilizzati e applicati.
Ad esempio, in età moderna (e medievale) le prerogative del capofamiglia di esercitare un diritto di correzione (ius corrigendi) nei confronti della moglie, dei figli, dei domestici era considerato ovvio, riconosciuto ovunque in Europa e nei domini coloniali, qualsiasi fosse la confessione religiosa, la situazione patrimoniale della famiglia, il contesto politico e sociale. Era considerato, altresì, ovvio l’uso della forza per correggere e imporre comportamenti adeguati all’obbedienza e al rispetto che si deve al capofamiglia.
Tuttavia, l’uso della “forza” non doveva eccedere, sconfinando nella “violenza”. In questo caso, la moglie poteva ricorrere a istituzioni e magistrature per denunciare gli abusi. Diventava in quel caso decisiva la testimonianza dei vicini, la percezione che il contesto sociale aveva delle violenze. Va detto che la tendenza naturale di magistrati sia ecclesiastici che laici era quella di salvaguardare l’unità della famiglia limitandosi, nei casi più favorevoli alle donne, ad un ammonimento al maschio violento.
La cosa interessante è che l’esame attento delle carte processuali, pur narrando storie di violenze prolungate nel tempo e di progressiva gravità, consentono di individuare un limite, una “soglia”, pur flessibile, tra l’uso della forza per correggere comportamenti ritenuti inaccettabili e l’abuso violento e ingiustificato.
Oggi la violenza contro le donne, in particolare i tanti femminicidi degli ultimi anni, da qualcuno è stata vista come un ultimo colpo di coda del patriarcato declinante.
Non è detto. La partita è lunga. L’indagine storica può aiutare a capire di più e meglio. Si pensi, per esempio, al rifiuto inflessibile e religiosamente fanatico del “matrimonio affettivo” in molte società, ritenendo un sacro obbligo divino per il pater familias scegliere lo sposo per la “propria” figlia. La storia ci fa capire tanto. Prima di tutto ci rende chiari i tratti costitutivi del patriarcato ancora presente nelle nostre società contemporanee; in secondo luogo, fa piazza pulita di ogni generalizzazione e semplificazione circa i contesti nei quali è presente la violenza maschile contro le donne. Essa non conosce confini geografici né epoche storiche; non ha barriere culturali né di classe né tantomeno religiose.
“D’altronde, scrivono nell’introduzione le curatrici nell’Introduzione, tra uomini e istituzioni era e resta a lungo in atto una partita circa i margini di immunità e impunità spettanti al pater familias, condotta e giocata con variazioni ed esiti difformi nel tempo e nei diversi contesti, ma assai viva.”
Vicenzo Guanci
[IF]Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta – FILIPPINI (BC)
FILIPPINI, Nadia Maria. Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta. Roma: Viella, 2017. 349p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.9, p.75-78, feb., 2018.
Nadia Maria Filippini, già docente di Storia delle donne presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e socia fondatrice della Società Italiana delle Storiche, propone un’articolata analisi diacronica di lunga durata sul tema della maternità nella cultura occidentale, all’insegna della continuità nella trasformazione.
Ne sottolinea la complessità, evidenziandone le molteplici sfaccettature culturali, sociali, scientifiche che stanno alla base di rituali, pratiche terapeutiche, norme civili e religiose, forme di controllo e potere.
La storia del parto è un capitolo fondamentale della storia delle donne, sostiene l’autrice nell’introduzione, ed è strettamente legato alla codificazione del genere dato che, per secoli, l’essere donna ha coinciso con l’essere madre e l’essere madre è stato criterio di misura del valore femminile. “Su questa capacità si concentravano dunque aspettative individuali, familiari, sociali, ma anche forme di tutela, controllo, disciplinamento che avevano il loro epicentro nella famiglia (con le sue interne gerarchie), nell’istituzione ecclesiastica e in quella politica.” Luoghi, figure, rituali e pratiche terapeutiche riguardanti la gravidanza e il parto vengono proposti come osservatorio privilegiato per analizzare sia la storia delle donne che quella sociale e culturale con le sue trasformazioni: dalla progressiva costruzione del discorso medico-scientifico nel mondo antico, alle innovazioni del cristianesimo, all’affermarsi della figura del chirurgo-ostetricante nel Settecento, alla medicalizzazione del parto, fino alla rivoluzione delle tecnologie riproduttive del Novecento.
L’idea presente già nel titolo è quella di mettere a fuoco i vari soggetti coinvolti: alla capacità della donna di partorire è stata opposta per secoli quella maschile di generare, mentre il verbo nascere mette in evidenza il punto di vista del feto/neonato la cui importanza varia in base al modificarsi delle rappresentazioni che lo connotano nel tempo, condizionando di conseguenza pratiche e principi deontologici.
Grande centralità è data alla scena del parto che permette di analizzare i luoghi (la casa e poi l’ospedale), le pratiche adottate, i soggetti coinvolti (la madre, la levatrice, il medico) i cui ruoli cambiano nel tempo in un continuo confronto professionale e di genere fatto di collaborazione, ma anche di contrapposizione.
Il libro è suddiviso in quattro parti. La prima parte (Rappresentazioni culturali) mi sembra particolarmente interessante e spendibile sul piano didattico, nel caso si voglia attivare una riflessione su come sia cambiata nel corso del tempo l’idea di generazione e nascita.
Vi si analizzano le grandi rappresentazioni fondanti la differenza di genere nella cultura occidentale e che si ritrovano nei miti, nel linguaggio con le sue metafore e proverbi, nella filosofia, nelle raffigurazioni artistiche, nella religione pagana e cristiana.
Ci si rende subito conto della dicotomia maschile/femminile; di come esista una continuità di lunghissima durata dell’idea dell’uomo come seminatore, come principio attivo della generazione, e della donna come un campo da seminare, passivo, posseduto da un contadino-padrone che lo rende fertile.
Questa impostazione è alla base di una tradizione di pensiero che attraversa la cultura greca con Ippocrate e Aristotele, quella araba, il pensiero di Tommaso d’Aquino ripreso poi da Dante Alighieri, fino al Settecento.
La superiorità del maschile sul femminile è sottesa anche all’idea del “partorire con la mente” (Platone), appannaggio esclusivo dell’universo maschile. Socrate parla di maieutica e si paragona in quest’arte alla madre ostetrica, con la differenza che, mentre lei fa nascere i bambini, lui aiuta i suoi allievi a partorire i prodotti della mente (arte, letteratura, filosofia) che garantiscono fama immortale.
Il parto di Atena dalla testa di Zeus esemplifica come il mito e la religione abbiano attribuito ad un Dio maschile perfino la capacità di generare e di partorire. Le dee madri di antica tradizione vengono dimenticate e la coppia Zeus-Atena sostituisce quella preindoeuropea di Demetra-Core, provocando una forte rottura di identità e di alleanze nella storia delle donne.
La Medea di Euripide propone una stretta analogia fra parto e guerra, due prove dolorose da superare, ad alto rischio di morte, che si giocano in aree separate: gli uomini vanno in guerra, le donne partoriscono con l’aiuto di altre donne (levatrici, vicine di casa, familiari). Però, mentre la guerra dei maschi ha carattere fondativo di una civiltà, viene raccontata ed esaltata nella figura dell’eroe, la guerra delle donne (il parto) resta confinata nel chiuso delle pareti domestiche ed è esclusa dal racconto pubblico.
A differenza di quanto accadeva nel mondo antico, il cristianesimo pone al centro il momento della nascita, valorizzando il rapporto madre-figlio, ma, nel corso del tempo, priva sempre più la Vergine (anche nelle rappresentazioni artistiche) delle tracce di maternità corporea. La Madonna è una madre spirituale più che fisica, esente non solo dal peccato originale, ma dagli stessi dolori del parto (dogma dell’Immacolata Concezione del 1854).
La corporeità del parto, sinonimo di impurità, viene invece attribuita ad un’altra figura femminile: Eva, responsabile dell’introduzione della morte nel mondo e incaricata di espiare con le doglie il peccato originale.
L’idea cristiana del dolore come espiazione del peccato distoglierà per molto tempo la ricerca medico-scientifica dall’indagine sulle cause del dolore e sui farmaci per contrastarlo.
L’influenza del pensiero cristiano ha determinato nelle donne un vissuto molto contraddittorio in bilico tra orgoglio e vergogna, tra fierezza e silenzio: da un lato la maternità viene esaltata come realizzazione di un dovere e di un comandamento divino (il modello è la Madonna), dall’altra viene mortificata sul versante corporeo (oggetto di scandalo, segregazione in casa ed esonero dalla messa). Il parto è diventato un tabù, cancellato perfino dal linguaggio: si racconta che i bambini nascono sotto ai cavoli o li porta la cicogna.
Nella seconda parte (Partorire e venire al mondo dall’antichità al Settecento), utilizzabile sul piano didattico per ragionare sul potere declinato al femminile (subìto, agito, condiviso, invidiato), si descrive la gravidanza come esperienza peculiare della donna, il cui corpo è sottoposto a forme di controllo sociale con divieti e obblighi rituali, oggetti scaramantici. Interessante la questione introdotta dal cristianesimo relativa al momento in cui Dio infonde l’anima nel feto: il quarantesimo giorno se è maschio, l’ottantesimo se è femmina. Dopo la Controriforma la data si sposta al terzo giorno dal concepimento.
Varie pagine sono dedicate al parto, al puerperio, alla nascita, alle credenze ed ai rituali connessi prima nel mondo antico, poi nel mondo cristiano, quando la Chiesa impone il suo controllo sulla sfera della sessualità e della riproduzione.
Si evidenziano permanenze di lunga durata e rielaborazioni simili in tutta Europa (Francia, Germania e paesi anglosassoni con vari esempi di storia veneziana). A questo discorso si intreccia poi la descrizione della nascita del pensiero medico antico e della sua lunga continuità nell’occidente medievale e moderno.
Attenzione particolare è data alla figura della levatrice, presenza fondamentale sulla scena del parto sia nel mondo antico che nell’Occidente cristiano, ma anche figura di riferimento in caso di problemi legati al ciclo mestruale, all’allattamento, in casi di sterilità o stupro o per indurre un aborto attraverso pozioni particolari, incantesimi e amuleti. Per questa sua partecipazione sia alla sfera della vita che a quella della morte, questa donna appariva ambigua allo sguardo degli uomini, esclusi da quel mondo di conoscenze e pratiche. Alla levatrice si collega anche il concetto di nascita sociale che sancisce, attraverso un rituale, l’ingresso del nuovo nato nella famiglia e nella società. Essa infatti assiste alla nascita naturale, ma consegna poi il neonato al padre e lo affianca, assieme alla madrina, nel rito del battesimo, da cui la madre è esclusa. Talvolta è lei stessa a fare da madrina, diventando la madre spirituale del bimbo, ed è comunque autorizzata ad amministrare il battesimo “sotto condizione” in caso di pericolo di vita del neonato al momento della nascita.
La terza parte (Lo snodo del Settecento) si confronta col XVIII secolo, un periodo di profonda trasformazione nella storia della nascita per i cambiamenti che investono sia la scienza che il contesto socio-politico.
Si impongono nuove teorie sulla fecondazione e sullo sviluppo fetale e si afferma la figura del chirurgo-ostetricante che modifica la secolare tradizione di presenza esclusivamente femminile sulla scena del parto.
Emerge da parte degli Stati un interesse specifico per il controllo della popolazione e nasce il biopotere il cui fine è quello di potenziare e gestire la vita, il corpo stesso delle persone, controllando salute, natalità mortalità.
In linea con questa nuova concezione si colloca il processo di personificazione dell’embrione-feto e l’affermarsi dell’idea del feto-cittadino, che giustifica l’intervento pubblico nel settore della nascita. Vengono istituite le scuole ostetriche, nascono gli ospedali per partorienti.
L’ultima parte (Le molteplici rivoluzioni del Novecento) affronta l’età contemporanea quando il biopotere si afferma sempre di più fino ad arrivare alle politiche eugenetiche e demografiche dei regimi totalitari, in particolare del nazismo, e quando il parto diventa sempre più soggetto alla medicalizzazione e all’ospedalizzazione.
Si affermano nuove tecniche come l’ecografia, definita un “nuovo rito conoscitivo”, la psicoprofilassi e l’analgesia.
Dal punto di vista legale si arriva progressivamente, in un numero crescente di paesi, alla legalizzazione della contraccezione e dell’interruzione volontaria di gravidanza, al varo di leggi a tutela della maternità.
Si fa sempre più strada, sulla spinta delle rivendicazioni femministe, l’idea dell’autodeterminazione della donna e della maternità come libera scelta e viene messo in discussione l’automatismo del legame sessualità-procreazione. Anche la figura del padre acquista un ruolo più partecipe, sia durante la gravidanza che al momento della nascita.
La fecondazione artificiale infine apre nuovi orizzonti coniugando il termine di maternità con quello di diritto, mentre si diffondono nella società nuovi modelli genitoriali e familiari (famiglie arcobaleno).
La crioconservazione di ovuli e spermatozoi sembra assicurare una specie di immortalità biologica all’individuo, non più legata alla filiazione reale, ma già realizzata nell’idea di filiazione possibile.
Alle soglie del terzo millennio, l’autrice sottolinea la presenza di aspetti contraddittori: le gerarchie di genere alla nascita sono state scardinate nei paesi occidentali, ma l’applicazione della tecnologia ha portato all’alterazione del rapporto naturale tra i sessi in molte parti del mondo; l’applicazione di alcune leggi a favore della donna non è sempre praticata, la fecondazione assistita rimane un privilegio per gli alti costi; la maternità è certamente una scelta, non più un obbligo o un destino, ma la crisi economica e la precarietà dei contratti di lavoro compromettono a volte una effettiva libera scelta.
In estrema sintesi si può dire che queste stimolanti pagine evidenziano la continuità nel tempo di quattro nodi fondamentali: l’idea di impurità legata alla sessualità femminile; il carattere ambivalente sul piano sociale e culturale dell’esperienza del parto (sacro, ma anche indicibile); la connotazione culturale di parto e nascita, definiti dall’ambiente in cui avvengono, dai rapporti fra i generi, dalle conoscenze mediche e anatomiche; il corpo femminile al centro di continui scontri di potere.
Il libro, che si conclude con un’ampia bibliografia ragionata in cui si valorizzano gli studi femminili, fornisce agli insegnanti una grande ricchezza di elementi per un approccio didattico ampio e articolato anche sul piano interdisciplinare. Potrebbe essere interessante un percorso sul tema dei diritti umani (acquisiti in alcune parti del mondo, non ancora in altre dove sopravvivono situazioni simili a quelle descritte nel testo e riferite al passato dei paesi occidentali), con collegamento agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU.
Livia Tiazzoldi
[IF]L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea – BELLASSAI (BC)
BELLASSAI, Sandro. L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea. Roma: Carocci, 2012. 181p. Resenha de: DI TONTO, Giuseppe. Il Bollettino di Clio, n.9, p.79-82, feb., 2018.
Che cosa hanno in comune le immagini di Mussolini in posa atletica, proposte dall’Istituto Luce durante la “Battaglia del grano”, con le foto dei corpi maschili dagli addominali perfetti che la pubblicità moderna ci propina? Apparentemente nulla o quasi. Entrambe, comunque, segnalano alcune tappe della rappresentazione dell’identità maschile nella nostra società e con esse il concetto di virilità, che va a pieno titolo inserito nello scaffale tematico della storia di genere letta al maschile.
A questo tema lo storico Sandro Bellassai ha dedicato, alcuni anni fa, esattamente nel 2012, una delle sue ricerche sulla storia di genere al maschile nel libro L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Roma 2012, che a noi pare, se pur a distanza di qualche anno dalla sua uscita, ancora di fondamentale importanza per quanti volessero farsi un’idea più approfondita su questo problema della storiografia di genere.
Il concetto di virilismo, inteso nella definizione del Grande Dizionario della Lingua Italiana di S. Battaglia come “l’esasperazione di qualità, comportamenti virili o tradizionalmente ritenuti tali” viene analizzato da Bellassai nel suo sviluppo storico per periodi a partire dal secolo XIX per arrivare fino ai nostri giorni.
Lo scopo del libro, esplicitamente dichiarato dall’autore, è quello di delineare una cornice interpretativa di “una storia del virilismo come ideale politico (dove questo aggettivo non si riferisce letteralmente solo al sistema politico, ma a dinamiche sociali e culturali che definiscono limiti e possibilità della libertà e del potere nelle relazioni fra uomini e donne). Come ideale politico astratto, in particolare, che ha segnato profondamente per oltre un secolo linguaggi, immagini, comportamenti di soggetti maschili concreti.”(p.9) L’approccio proposto privilegia quindi, in modo particolare, la dimensione simbolica della mascolinità e le rappresentazioni che ad essa possono essere collegate, cercando di mettere in rilievo alcuni aspetti del loro uso politico nella storia italiana contemporanea.
L’analisi prende le mosse dalla società della fine del secolo XIX, con le sue radicali trasformazioni economiche sociali e culturali, quando sembrava “prefigurarsi una decadenza dell’assoluta sicurezza maschile nel pubblico e nel privato” (p.17). La patriarcale centralità della figura maschile che fino ad allora aveva dominato indiscussa, entrava in crisi e con essa le gerarchie di genere. In un‘epoca in cui “le élite e la sempre più rilevante opinione pubblica avevano un carattere prevalentemente maschile, il crescente protagonismo – anche sociale e politico – delle donne venne percepito come una minaccia pericolosissima per gli assetti sociali del potere, dunque della supremazia degli uomini in quanto genere.” (p.17) La risposta a questo indebolimento del ruolo maschile, a livello individuale e collettivo, fu il rilancio della virilità nei suoi caratteri concreti e simbolici in contrapposizione alla modernità dilagante e ai suoi effetti.
Bellassai sottolinea a più riprese come sul piano delle relazioni di genere la prima e più potente incarnazione di questa contrapposizione al tradizionale dominio dell’uomo era la donna, la “donna nuova” che dalla seconda metà dell’Ottocento era entrata nella sfera pubblica con l’accesso all’istruzione universitaria, alle professioni, al mondo della cultura e del lavoro. I tratti misogini della polemica maschile non si limitavano a riproporre “l’antico adagio denigratorio delle donne… (ma rappresentavano) …la reazione maschile alle conseguenze di genere di una modernizzazione che toglieva l’aurea di sacralità agli equilibri di potere consolidati” (p.45). La misoginia si affermava quindi come “strumento retorico mediante il quale si è perseguita per decenni una restaurazione delle identità e dei ruoli di genere tradizionali”(p.45) e trovava spazio “nei più svariati ambiti della cultura, della scienza e dell’opinione pubblica.”(p.46) Interessanti gli esempi riportati dall’autore: dallo stereotipo della femme fatale del Decadentismo alle affermazioni di antropologi e sociologi come Lombroso e Mantegazza sulle degenerazioni femminili e sui rischi di feminilizzazione maschile. Esempi di una misoginia che aveva lo scopo di fissare le differenze naturali in termini gerarchici tra i due sessi e cercare una strada che “esaltasse e rigenerasse i tratti considerati più marcati e specifici dell’identità maschile” (pag.53) esprimendo in questo modo un antimodernismo che sembrava già mostrare le sue debolezze rispetto alle grandi trasformazioni che il nuovo secolo proponeva.
La seconda fase presa in considerazione dall’autore è quella del ventennio fascista considerata “sul piano della storia nazionale, certamente il più organico tentativo di imporre dall’alto del potere statale una via autoritaria alla modernità” (pag.53) ma trattavasi pur sempre di una modernizzazione autoritaria che distingueva tra una buona e una cattiva modernità ed esprimeva un antimodernismo che rappresentava “un setaccio retorico che aveva il compito di purificare il futuro della nazione degli elementi inconciliabili con la riaffermazione di un ordine sociale rigidamente gerarchico.(p.64)” Questo ordine gerarchico avrebbero trovato una sua espressione anche nel virilismo e nei rapporti di genere. Tra le manifestazioni della retorica fascista di questo rinnovato virilismo Bellassai annovera l’esaltazione della popolazione rurale e la celebrazione del contadino “come quintessenza di mascolinità naturale o selvatica” (p.73). A questa retorica si affiancava quella della famiglia patriarcale contadina, esempio di “un ordine sociale e di genere tradizionale, premoderno, rigidamente gerarchico” che doveva difendere la nuova civiltà fascista “dalle degenerazioni della civiltà contemporanea, tra le quali si dovevano di sicuro contare il desiderio delle giovani donne di una vita migliore e di una maggiore cura di sé” e la ricerca “di nuove forme di svago e socializzazione che favorivano la promiscuità fra i sessi e indebolivano il sentimento religioso e, ovviamente, il virus della denatalità che dalle città già infette minacciava costantemente di propagarsi alle virilissime aree rurali” (p.74)
Altro tema di interesse nell’analisi del virilismo era il fascino del rischio e della vita avventurosa riproposti anche dalla letteratura popolare “ispirata alle avventure in mondi selvaggi e misteriosi, compresi i bassifondi urbani, o all’esistenza solitaria di uomini forti a contatto con la natura (dai romanzi coloniali al mito letterario del West, dalla prima science fiction al genere poliziesco” (p.75). Era l’uomo della classe media urbana che si serviva di quel mito come “compensazione fantastica di una condizione esistenziale che egli percepiva deleteria per la propria identità di maschio” (p.75).
Non meno interessanti sono le osservazioni dell’autore a proposito della posizione sull’intellettualismo inteso dal fascismo come una sorta di “malattia dell’intelligenza ed essendo quest’ultima, nella concezione tradizionale, un attributo precipuamente maschile, l’intellettualismo era una malattia della mascolinità. Una ‘intelligenza senza virilità’ appunto” (p.77) alla quale bisognava opporre gli ideali di azione, di impulsività e di giovinezza. Ma è ancora sulla donna e sulla sua subalternità che si concentrava la costruzione dell’immagine maschile in questo periodo. Il problema era la ”trasformazione profonda ed epocale, e non certo trascurabile, dell’identità femminile”. Come scriveva il famoso scrittore Dino Segre, meglio noto con lo pseudonimo di Pitigrilli, in un suo romanzo di quell’epoca “Le signorine di una volta simulavano l’ingenuità e la purezza, la trasparenza spirituale e l’impermeabilità materiale; facevano mostra di non capire mai. Quelle di oggi, invece dell’ingenuità ostentano malizia, mostrando di scoprire intrighi oscuri nelle vicende più limpide, ambiguità misteriose nelle parole più oneste, raffinate impurità nelle pratiche più francescane”. (p.84)
Alla diffusione della cultura di massa americana, considerata dal fascismo responsabile della gran parte delle degenerazioni della “donna moderna”, il regime rispondeva con appelli e campagne contro “la diffusione della moda indecorosa di origine straniera, contro i balli moderni, contro i nuovi modelli di donne magre, disinvolte, decise a conquistare un accesso più ampio al lavoro extra domestico e al tempo libero” e al tempo stesso si varavano misure e iniziative “per sostenere l’esclusiva ‘missione di madre’ di ogni donna” sostenendo la pubblicazione di “romanzi, opere moraleggianti e articoli su ogni tipo di periodici per esaltare la donna moglie e madre e per spegnere sul nascere ogni focolaio della terribile infezione modernista”.(p.84). Di altrettanto interesse i paragrafi dedicati dall’autore alla retorica fascista per combatte i fenomeni di denatalità e propagandare la libertà sessuale lasciata agli uomini “come una delle principali attrattive dello scenario coloniale” (p.91). Nell’analisi della quarta fase di questa storia del virilismo in Italia, l’autore, sottolineando i grandi cambiamenti economici, sociali e culturali degli anni ’50 e ’60 in Italia, pone in relazione tali trasformazioni e le conseguenze che esse ebbero “nell’assetto delle relazioni di genere: sensibili cambiamenti si riscontrano ad esempio, nella rappresentazione dei ruoli femminili anche nell’ambito domestico, nella progressiva affermazione di una morale sessuale e di atteggiamenti meno oppressivi sul piano del senso comune diffuso, nel riconoscimento di nuovi diritti civili e sociali delle donne”. (p.97)
Pur continuando a permanere differenze di genere che fanno parlare Bellassai di un assetto asimmetrico del potere e delle gerarchie di genere, emergevano novità rispetto al recente passato che, tuttavia, non consentivano certo di invocare in tempi brevi “la scomparsa delle disuguaglianze fra uomini e donne” (p.98). Ciò nonostante si chiudeva, secondo l’autore, “definitivamente una pluridecennale fase storica in cui i modelli di mascolinità ispirati al virilismo nella sua declinazione più autoritaria, gerarchica e violenta avevano detenuto una notevole egemonia nell’immaginario collettivo. Ma l’idea che gerarchia, forza e ordine fossero indispensabili alla virilità collettiva, e che quest’ultima fosse a sua volta un pilastro irrinunciabile del naturale equilibrio sociale, certamente non scomparve”. (p.99)
Molti gli esempi prodotti a conferma di questa tesi in particolare nell’ambito della comunicazione pubblicitaria relativa ai nuovi beni di consumo. Il miracolo economico produceva la percezione di essere usciti dalla miseria dopo il secondo conflitto mondiale. Le aree urbane delle città industriali del Nord furono investite da fenomeni di immigrazione dalle campagne e soprattutto dal Sud e nelle città del benessere gli “immigrati potevano accantonare i costumi tradizionali”. (p.105).
Così Giorgio Bocca, riportato da Bellassai, nel suo libro La scoperta dell’Italia del 1963 descriveva il fenomeno che investiva anche le identità di genere “scomparsi o tenuti in sordina i temi maschili, aggressivi e rudi, inizia il declino del gallismo e di quella sua manifestazione che è il pappagallismo [ …] Per effetto della cultura di massa il Bel paese si ingentilisce e si svirilizza” (p. 104). Nuovi modi di comportamento si affermavano tra le donne: con gli acquisti di elettrodomestici per la casa ma anche di prodotti di consumo voluttuario. Bellassai fa ancora parlare Giorgio Bocca dallo stesso volume prima citato “Nella civiltà dei consumi, l’universo del confort appare affidato alle donne, sono esse a decidere gli acquisti e i primi ad esserne persuasi sono i venditori, prova ne sia che la pubblicità va ai giornali femminili nella misura del settanta per cento, più del doppio di quanta ne vada ai giornali maschili-femminili” (p.106). Tuttavia questo fenomeno di svirilizzazione, contrariamente alle epoche passate, non appariva a tutto il mondo maschile come un fenomeno negativo “era l’inizio di un’epoca in cui il tradizionale virilismo si avviava a diventare una delle opzioni in campo, perdendo quindi il monopolio identitario che riteneva spettargli di diritto […] l’inizio della fine del virilismo stesso quale aveva dominato la dimensione dell’identità maschile per quasi un secolo” (p.110). Arrivando a parlare degli ultimi decenni del XX secolo e degli inizi del nuovo secolo il giudizio dell’autore si fa più netto a favore della tesi secondo la quale “la crisi della prospettiva maschile tocca il suo apice nel decennio settanta per lasciare spazio a partire dalla fine del millennio, al tentativo di rilanciare un ordine culturale ispirato alla subordinazione delle donne nel pubblico e nel privato, alla riproposta di una polarizzazione identitaria del maschile e del femminile, al risorgere di pulsioni antiegualitarie, xenofobe o apertamente razziste” (p.123).
I ragionamenti fin qui condotti dall’autore portano alla conclusione che il modello virilista è stato largamente screditato ma non si può abbassare la guardia e considerare la sua storia conclusa. Basta pensare ai numerosissimi episodi di violenza sulle donne di cui veniamo quotidianamente a conoscenza dalle cronache e che riguardano ambienti e classi sociali diverse. E da questa conclusione può partire un’ultima riflessione sulla funzione che la scuola può e deve svolgere. Siamo ancora lontani dall’idea di immaginare rapporti di genere diversi. Il libro di Bellassai ci aiuta a muovere i passi, donne e uomini, in quella direzione, semmai partendo dalla scuola e dall’insegnamento della storia anche nell’ottica della storia di genere.
Giuseppe Di Tonto
[IF]In cammino. Breve storia delle migrazioni – BACCI (BC)
BACCI, Massimo Livi. In cammino. Breve storia delle migrazioni. Bologna: Il Mulino, 2010. 268p. Resenha de: DONDERO, Enrica. Il Bollettino di Clio, n.8, p.71-71, dic., 2017.
Il passato, il presente e il futuro delle migrazioni. Livi Bacci, uno dei massimi esperti italiani di demografia storica, non limita tuttavia il suo studio a una storia dei gruppi migranti nel lungo periodo, ma inserisce le dinamiche demografiche in una complessa rete di relazioni con quelle economiche, sociali, antropologiche, politiche e giuridiche. A partire da un presupposto – il desiderio di spostarsi è prerogativa ed essenziale componente dell’essere umano – il fenomeno migratorio è osservato da una pluralità di punti di vista: correlato nei suoi sviluppi ad atti politici che, di volta in volta, lo hanno favorito, vincolato o negato; strettamente connesso al progresso tecnico nella comunicazione e nei trasporti; fattore di powerful delle relazioni umane e delle interazioni, delle mescolanze bioenergetiche e culturali, della conoscenza, dei tratti culturali, dei linguaggi e dei comportamenti.
L’attenzione verso il solo aspetto demografico, unitamente alle alterazioni date da distorsioni percettive, luoghi comuni e stereotipi, ha prodotto una visione limitata e riduttiva del fenomeno: nel mondo del XXI secolo, le grandi migrazioni non vengono considerate un motore primario delle società, ma piuttosto una componente deformata del cambiamento sociale, un agente ingovernabile, un disturbo di fondo che distorce la regolarità della vita organizzata. In realtà, homo sapiens è homo movens; quasi il 10% della popolazione dei paesi ricchi ha avuto una storia di migrante: condizione esistenziale comune, quindi, non eccezionale.
Il testo di Livi Bacci, nato dalla sistematizzazione di riflessioni, spunti e scritti precedenti, si basa perciò sull’interpretazione delle migrazioni come specificità umana e fenomeno costitutivo delle società. L’ambizione è quella di precisare, provare e sostenere tale convinzione attraverso il metodo di studio del fenomeno e la sua sostanza e la struttura del volume rispecchia puntualmente le intenzioni: i primi tre capitoli fondano alcuni concetti e schemi interpretativi essenziali per uno sguardo ampio sul fenomeno migratorio; i tre successivi analizzano i sistemi migratori attraverso un indicatore diacronico; gli ultimi due capitoli, a partire da raffronti e analisi incrociate a livello mondiale, prefigurano politiche migratorie tendenti a rendere effettivo il diritto allo spostamento e a dare dignità a una popolazione “con diritti dimezzati”. È presente un’appendice che riporta puntuali dati statistici.
L’onda di avanzamento e le migrazioni lente: il paradigma è tipico degli spostamenti delle società agricole in territori spopolati o radamente insediati. Due aspetti sono caratterizzanti: la capacità di adattarsi ad ambienti diversi e la possibilità di generare un surplus demografico sufficiente per operare ulteriori avanzamenti. Sono coerenti con tale modello le forme di migrazioni preistoriche, ad esempio; o la grande colonizzazione medievale (Drang nach Osten) che, tra XI e XIV secolo, spinse l’espansionismo delle popolazioni germaniche a nord dei rilievi centrali della Boemia fino alla costa baltica; nell’area intermedia dai Paesi Bassi alla Turingia, alla Sassonia e alla Slesia; a sud in direzione delle pianure ungheresi lungo la via naturale del Danubio.
Questo processo di insediamento solleva rilevanti spunti di interesse: fu infatti un movimento intenzionale, organizzato e guidato da una vera e propria politica migratoria; ebbe un cospicuo effetto ‘fondatore’ (pochi capostipiti, molti discendenti); fu sostenuto da una notevole disponibilità di capitali. Tratti similari a quell’onda di avanzamento si possono ritrovare nel graduale popolamento del continente nordamericano, nel quale lo spostamento delle frontiere avvenne per fattori di natura politica, di attrazione e tecnologica (il completamento della ferrovia transcontinentale). Anche relativamente allo stanziamento nella Russia asiatica nel periodo precedente la prima guerra mondiale si possono rinvenire tracce di un’onda di avanzamento; ma in quel caso le intrusioni della politica zarista furono più vincolanti.
Il secondo capitolo introduce il concetto di fitness, capacità di adattamento. Il riferimento non va in modo esclusivo agli elementi biologici, ma anche ai tratti sociali, culturali, antropologici. I migranti non sono un campione casuale della popolazione di partenza: sono selezionati per alcuni caratteri, quali l’età, lo stato di salute, la capacità riproduttiva, la resistenza, la forza fisica; ma anche l’inclinazione a sperimentare il nuovo o caratteristiche acquisite, come un mestiere, possono costituire un vantaggio.
D’altra parte, l’ambiente di destinazione svolge una funzione altrettanto decisiva, anche in relazione all’’effetto fondatore’, cioè al processo che determina lo sviluppo di una nuova popolazione a partire da un ridotto numero di individui. Il caso delle migrazioni funzionali allo schiavismo evidenzia come l’insuccesso dipenda da fattori plurimi: le attività pesanti delle donne, la ridotta possibilità di trovare compagni, la bassa proporzione di coppie, la preferenza dei padroni a investire nel lavoro femminile piuttosto che nella nascita di creoli, la mortalità durante il viaggio e nelle piantagioni, la malnutrizione, il difficile acclimatamento, l’alta densità abitativa e la scarsa igiene.
Le politiche migratorie costituiscono un potente fattore facilitante o ostacolante le migrazioni, di cui si avverte il peso con lo svilupparsi delle prime entità statuali: in che modo influenzano gli esiti, le fitness dei migranti e il loro successo sociale ed economico? Un esempio paradigmatico di influenza positiva è individuato da Livi Bacci nel governo degli Inca, che organizzava insediamenti a carattere coloniale con finalità di presidio, di consolidamento della conquista e di specializzazione produttiva, ma con attenzione alla compatibilità ambientale ed ecologica. Impegno che non ebbero gli Spagnoli, i quali causarono conseguenze nefaste sugli altipiani e compromisero la fitness degli abitanti, indebolendone la sopravvivenza.
Un altro caso interessante si rinviene nella migrazione tedesca (Drang nach Osten) di cui si è già riferito, in particolare nel forte ruolo organizzativo dei principi, della Chiesa o degli ordini cavallereschi. Fu decisiva, in quel caso, la capacità di scegliere i terreni incolti, di distribuirli oculatamente ai coloni, di dotare questi ultimi di materie prime e utensili. L’accortezza della politica messa in atto portò, di conseguenza, a un successo demografico.
In epoca moderna, le monarchie assolute d’Europa ricorsero frequentemente a migrazioni organizzate, sulla base di una filosofia mercantilista sostenuta dall’idea che una popolazione numerosa fosse un pilastro del benessere delle nazioni. Due fattori principalmente motivavano le scelte migratorie: il primo, di natura economica, consisteva nel mettere in valore terre ancora incolte o poco coltivate; il secondo, di natura politica e strategica, mirava a rafforzare le aree di confine adiacenti a Stati ostili di cui si temeva l’aggressività.
Il caso della Maremma toscana, nel XVIII secolo, testimonia invece un tentativo finito in disastro. Pochi anni dopo l’insediamento voluto dal granduca lorenese Francesco II, la colonia era già sull’orlo dell’estinzione. Il rapidissimo declino fu dovuto sia all’abbandono, sia all’alta mortalità favorita da pessime condizioni igieniche, inadeguatezza delle abitazioni, abusi nella distribuzione del cibo, febbri malariche.
Le numerose analisi condotte e i confronti anche sul piano mondiale, gli esempi di migrazioni nel lungo e lunghissimo periodo e gli episodi che si esauriscono in pochi anni confermano la complessa struttura metodologica adottata dall’autore e la sua scelta di non limitarsi alla prospettiva demografica: i fenomeni migratori non possono essere ridotti alla contabilità dei flussi che partono o rientrano. Anche il fattore tempo incide sulle caratteristiche delle migrazioni: la periodizzazione adottata da Livi Bacci nei capitoli specificamente dedicati (XVI-XIX secolo; 1800-1913; 1914-2010) permette l’emersione di alcuni elementi significativi per capire come le condizioni interne a un’epoca siano influenti.
La grande rivoluzione geografica di inizio Cinquecento o la Rivoluzione industriale accelerarono i processi migratori interni ed esterni agli Stati perché fattori oggettivi migliorarono le condizioni della mobilità: progresso nella navigazione, aumento delle disponibilità energetiche, potenziamento delle infrastrutture, innovazioni tecnologiche, aumento dei consumi calorici.
La profonda trasformazione del mondo rurale e il dissolversi dell’antico equilibrio conseguenti allo sviluppo industriale determinarono un nuovo modello di migrazione nel XIX secolo. L’emigrazione europea assunse le caratteristiche di un fenomeno di massa: è il tentativo di uscire dalla trappola della povertà, la rottura di uno storico equilibrio tipico delle campagne basato sulla forza di tolleranza a condizioni ritenute immutabili. La migrazione, in questo caso, seleziona chi ha una solida motivazione, chi rifiuta l’adattamento, chi sa sfruttare appieno le opportunità offerte dal dislivello di circostanze economiche tra paesi di origine e paesi di destinazione.
A partire dalla metà del XX secolo e ancor più nel passaggio del millennio, assistiamo a una serie di fenomeni – alcuni congiunturali, altri strutturali – che modificano le caratteristiche delle vicende migratorie: l’inversione del ciclo di crescita economica, il ripiegamento demografico di alcune aree del pianeta, l’allentamento dei legami umani fra Europa e resto del mondo, l’esplosione di conflitti con sconvolgimenti che hanno pochi paragoni nella storia. Tutto ciò implica la necessità di riconsiderare i fenomeni migratori e le condizioni che li generano; si impone, ad esempio, il riconoscimento della differenza concettuale tra migrazione fisiologica e migrazione di rifugiati e profughi. Pezzi di mondo sono crollati, falliti, e la loro fine innesca partenze che portano sulle nostre coste il migrante nigeriano che fugge la fame e quello siriano che abbandona una città bombardata. Il loro arrivo confligge con le difficoltà legate all’assorbimento nell’attuale contesto economico occidentale, contrassegnato da una forte disoccupazione: come affrontare il problema, come valorizzare la possibilità di accoglienza senza che sia stravolta la struttura sociale ed economica del paese? Come conciliare il diritto che gli Stati hanno di governare i flussi migratori con il dovere di accogliere chi ha lo status di rifugiato? D’altra parte, l’attuale Europa a produttività frenata, in cui la popolazione anziana ostacola l’inserimento dei giovani ma determina anche un forte aumento della domanda di servizi personali, in cui si afferma una richiesta di qualificazione ad alto livello ma anche di sostegno a lavoro poco qualificato in settori come l’agricoltura e l’edilizia, apre altri interrogativi e rende problematico ogni tentativo di soluzione: ad esempio, l’idea di armonizzare andamento economico e migrazione e di programmare i flussi, da molti sostenuta, è risultata finora fallimentare.
I costrutti delle scienze economiche e sociali restituiscono la complessità della situazione e la necessità di alcuni radicali cambiamenti di rotta; voce sempre più isolata o almeno in controtendenza, Livi Bacci sostiene l’ipotesi di un governo internazionale del fenomeno, una istituzione sovranazionale alla quale possano essere cedute frazioni, anche minime, della sovranità statuale in ambiti connessi con le migrazioni. Ma suggerisce anche di cambiare la struttura mentale nell’approccio al fenomeno: non considerare il migrante solo nella sua condizione economica di forza lavoro, elemento estraneo alla società che lo accoglie, ma valorizzare la qualità del capitale umano, attivando politiche sociali finalizzate.
Ciò implica integrare i modelli interpretativi usuali con le idee di immigrazione di insediamento e di cittadinanza e affrontare nel dibattito pubblico, e quindi anche a scuola, i temi della crisi della regione di arrivo e di una strategia politica che contempli la volontà di inclusione.
Il libro fornisce agli insegnanti una grande ricchezza di elementi per un approccio ampio e articolato sul piano interdisciplinare, ma non elude un presupposto valoriale. Livi Bacci ricorda, infatti, in conclusione, una lezione fondamentale: “Quanta strada c’è ancora da fare per dare ordine e dignità a una delle prerogative fondamentali dell’individuo: quella di spostarsi nello spazio, senza ledere i diritti altrui e senza il timore che ai propri venga fatta violenza”.
Enrica Dondero
[IF]Exit West – HAMID (BC)
HAMID, Mohsin. Exit West. Torino: Einaudi, 2017. 156p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Il Bollettino di Clio, n.8, p.75-76, dic., 2017.
Una storia d’amore.
“In una città traboccante di rifugiati ma ancora perlopiù in pace, o almeno non del tutto in guerra, un giovane uomo incontrò una giovane donna in un’aula scolastica e non le parlò. Per molti giorni. Lui si chiamava Saeed e lei si chiamava Nadia…”
È l’incipit dell’ultimo romanzo di Mohsin Hamid, lo scrittore pakistano che dopo aver studiato e lavorato molti anni negli USA è tornato a Lahore, dove attualmente vive, muovendosi spesso, tuttavia, tra Londra e New York.
La pubblicazione nel 2007 del suo Il fondamentalista riluttante ci penetrò nelle riflessioni pensierose di un intellettuale di formazione islamica ma in qualche modo integrato nella cultura americana, dopo che l’attentato dell’11 settembre aveva cambiato per sempre il rapporto tra l’Occidente e il Medio Oriente islamico.
Dieci anni dopo questo Exit West vuole introdurci nell’universo della migrazione, di coloro che cercano l’uscita a Ovest.
Come? Raccontando una storia d’amore o, per meglio dire, una normale storia di coppia. La storia di due giovani dei nostri giorni che si conoscono, si amano, si separano, hanno nuovi compagni e nuove compagne. La loro particolarità, però, è quella di essere migranti.
Il racconto di Hamid salta completamente il viaggio. Non gli interessa farci conoscere i viaggi, le traversie, le angherie dei trafficanti, l’alto rischio del trasporto. Possiamo solo immaginarli: alcuni personaggi loschi non meglio descritti aprono ai nostri Saeed e Nadia alcune “porte” dove si può “passare”.
La prima metà del romanzo ci racconta la trasformazione della loro città, dove i giovani studiano, lavorano, si innamorano, ballano, fumano, ascoltano musica, si confrontano con i loro genitori; piano piano tutto questo diventa prima difficile, poi pericoloso, infine impossibile. La città è in guerra. La guerra è arrivata in città.
“Adesso nella città il rapporto con le finestre era cambiato. La finestra era il confine attraverso il quale era più probabile giungesse la morte. Le finestre non costituivano una protezione neanche dai proiettili più fiacchi: qualunque locale con una vista sull’esterno poteva essere preso in mezzo dal fuoco incrociato. Inoltre i vetri di una finestra frantumata da un’esplosione potevano trasformarsi in schegge di granata, e tutti avevano sentito di qualcuno dissanguato dai frammenti di vetro.” (p.46)
Bisogna andarsene. E sarà duro, molto duro, abbandonare la propria casa, i propri affetti. Il padre di Saeed, che aveva accolto Nadia come una figlia, decide di restare. Lui non ce la fa, ma forza i due ragazzi ad andar via, a “passare la porta”
“In quei giorni si diceva che il passaggio era un po’ come una morte e un po’ come una nascita, e in effetti Nadia provò una sensazione di annientamento mentre entrava nell’oscurità e lottò furiosamente per respirare mentre cercava di uscirne, ed era infreddolita, contusa e bagnata quando si ritrovò distesa sul pavimento della stanza dall’altra parte, tremava e sulle prime era così spossata che non riusciva ad alzarsi, e pensò, mentre boccheggiava per riempirsi i polmoni d’aria, che quella sensazione di bagnato doveva essere il suo sudore.” (p. 67)
Saeed e Nadia nascono di nuovo. E crescono tra campi profughi e “porte” e “passaggi” che conducono ad altri campi, altri luoghi, altra gente, in cui “tutti erano stranieri, e quindi in un certo senso nessuno lo era”.
La grandezza di Mohsin Hamid sta qui. Nella seconda metà del romanzo riesce a darci conto dell’odissea di persone normali costrette a fuggire, a “migrare”, da un campo profughi ad un altro. Ci racconta con brevi ma efficacissimi tratti la vita del campo che “ricordava per certi versi una stazione commerciale dei vecchi tempi della corsa all’oro, e vi si vendevano o si scambiavano molte cose, dalle maglie pesanti ai telefoni agli antibiotici a sesso e droghe sottobanco…”. Non solo. In altre occasioni Hamid ci ricorda che “c’erano volontari che distribuivano cibo e medicine, ed enti assistenziali all’opera”. Insomma, quella di Saeed e di Nadia somiglia molto a un’Odissea senza un’Itaca, un posto dove fermarsi per vivere la propria vita. Ma quella di Saeed e Nadia somiglia maledettamente anche all’odissea di ciascuno di noi, perché nell’era della globalizzazione “si stavano aprendo tutte quelle porte da chissà dove, e arrivava ogni sorta di strana gente…”.
Insomma il romanzo dei migranti è, in fondo, al netto di tutte le sofferenze e i patimenti dei trasferimenti sui barconi e sui sentieri di montagna, il romanzo della vita giacché “…tutti emigriamo anche se restiamo nella stessa casa per tutta la vita, perché non possiamo evitarlo.
Siamo tutti migranti attraverso il tempo.
Enzo Guanci
[IF]Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così – CALZOLAIO; PIEVANI (BC)
CALZOLAIO, V. ; PIEVANI, T. Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così. Torino: Einaudi, 2016. 144p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.8, p.77-79, dic., 2017.
Le migrazioni sono processi complessi. La storia e la geografia (assieme ad altre discipline, come ad esempio l’antropologia e la biologia) possono aiutarci a comprenderli, perché tempo e spazio sono parametri utili per mettere in prospettiva un problema, soprattutto se complicato e difficile come questo.
Per capire il presente e i suoi eventi abbiamo bisogno di distanza, di prenderne le distanze. Così come per capire il luogo nel quale ci è capitato di vivere, ce ne dobbiamo allontanare. Da fuori si vedono altre cose e aspetti che prima rimanevano invisibili.
Il saggio di V. Calzolaio e T. Pievani parla di migrazioni nella prospettiva spazio-temporale del tempo profondo dell’evoluzione e della storia di Homo sapiens, su scala planetaria.
Inserire la vicenda umana nel contesto dell’evoluzione ci aiuta a comprendere come il fenomeno migratorio riguardi prima di tutto animali e piante che nel lunghissimo periodo seguono i destini dei territori in cui abitano (che si separano e si uniscono a causa della deriva dei continenti e dei cambiamenti climatici) e abbia un ruolo decisivo nel processo evolutivo, dando origine spesso a nuove specie.
Quella umana è stata condizionata da sempre dal migrare di altre specie e le ha condizionate con i suoi spostamenti che hanno assunto nel tempo una straordinaria funzione evolutiva, non solo per chi si spostava ma anche per gli ecosistemi coinvolti.
I capitoli iniziali del saggio di Calzolaio e Pievani ripercorrono le tappe delle migrazioni umane dagli albori della storia degli ominidi intorno a 6 milioni di anni fa in Africa, che resta il territorio di massima espansione della specie fino a 2 milioni di anni fa, fornendo le premesse per un possibile atlante globale delle migrazioni umane.
Il bipedismo è stato l’innovazione decisiva, con la conseguente liberazione delle mani. Dal cespuglio di forme ominide, una molteplicità di specie distribuite tra l’Etiopia e il Sudafrica, è emerso il genere Homo intorno a 2,5 milioni di anni fa, all’inizio del Pleistocene in concomitanza di continue oscillazioni glaciali. In questo periodo, per la prima volta nella storia, ha luogo un processo di espansione che porterà il genere Homo a oltrepassare i confini dell’Africa, in un arco temporale che abbraccia decine e centinaia di migliaia di anni. “(…) Immaginiamo che un piccolo campo base umano venga spostato lungo certi corridoi geografici di 2 o 3 chilometri per ogni generazione, ogni 25 anni (…) in 100.000 anni dall’Africa si può raggiungere la Cina. Non è necessaria alcuna intenzione di farlo. Se il clima cambia, le fasce di vegetazione lentamente si spostano, e con esse le faune: tutte le vicende di rilievo del nostro genere si svolgono nell’instabilità delle oscillazioni climatiche del Pleistocene”. (pp. 17-18).
In tre ondate migratorie successive (Out of Africa), sostanzialmente attraverso gli stessi corridoi geografici (valle del Nilo e costa del Mar Rosso verso il Mediterraneo; corridoi del Levante e da qui smistamento verso l’Asia e l’Europa), si perfeziona la conquista africana del mondo: e intorno a 50-45000 anni Homo sapiens entra per la prima volta in Europa. Al suo arrivo l’Eurasia era già abitata da altre specie umane. “Quello che oggi ci sembra fuori discussione, cioè essere l’unica specie umana sulla Terra” affermano gli autori “ in realtà è un evento recente frutto di numerose e sovrapposte migrazioni” (p. 27).
In meno di 50 mila anni Homo sapiens arriverà a completare il popolamento dei continenti, imponendosi sulle altre specie umane (almeno tre). Secondo gli autori questo successo è dovuto alla migliore capacità migratoria dei nostri antenati. Alla base, un circolo virtuoso tra comportamenti sociali e culturali più avanzati (in particolare per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio e dell’intelligenza simbolica), la capacità migratoria e l’espansione territoriale.
Il viaggio ormai non è solo costrizione ma intenzione e scelta connessa alla capacità di trasformare le nicchie ecologiche.
Mentre alcuni popoli restarono raccoglitori cacciatori, altri si avviarono verso la domesticazione di piante e animali in un processo di differenziazione dovuto al “variopinto mosaico di fattori ecologici e geografici” (clima, geologia, habitat, epidemie…).
Il cambiamento radicale si ha con la rivoluzione agricola: fino allora (intorno ai 10 mila anni prima di Cristo) gli umani erano quasi tutti raccoglitori cacciatori senza fissa dimora (si è stimata una popolazione mondiale intorno ai 10 milioni); il loro numero progressivamente andrà diminuendo fino allo 0,001 per cento su una popolazione totale di tre miliardi negli anni Settanta del XX secolo.
Inizia una nuova fase: il tempo delle emigrazioni e delle immigrazioni da e verso territori di altri popoli, che dura fino ad oggi.
Si possono individuare 8 ondate migratorie collettive di neocontadini, secondo un processo non lineare (ci furono anche contrazioni demografiche) e con differenze in parte spiegabili con i vincoli ambientali. Le strategie adattive di Homo sapiens migrante globale sono alla base della diversità umana, biologica e culturale, accelerata da spostamenti e rimescolamenti: le culture e le tecnologie sono state gli strumenti delle comunità umane in movimento per vivere in climi e ambienti i più diversi e instabili.
Attorno alle risorse idriche si vanno formando le prime civiltà con la specializzazione e complessità legata alla successiva rivoluzione urbana e della scrittura. Migrare non è ora solo comportamento adattivo legato a criticità climatiche o ecologiche; è in qualche modo un comportamento culturale: accanto alle costrizioni del migrare (ora anche quelle in conseguenza delle guerre umane e dell’aggressione violenta di un gruppo su un altro) si va affermando la libertà di migrare.
Sia forzati che non, gli spostamenti con il neolitico incisero profondamente sulle dinamiche culturali, sociali, linguistiche e genetiche delle popolazioni. Si complicarono e intensificarono i meticciati (basti penare alle tracce di incontri tra migranti presenti in ogni lingua): “Non ci sono un tempo e un luogo ove osservare una comunità di umani in una forma autentica e originaria.” (p. 67).
Ci sono confini naturali (nicchie e corridoi di specie, barriere geografiche, linee di costa, crinali montani…) e confini artificiali, antropici: con la diffusione dell’agricoltura stanziale si vanno consolidando i confini artificiali. E nel progressivo affermarsi della centralizzazione dei poteri decisionali, del controllo della forza e dell’imposizione di gerarchie e dominio si stabilizzano i confini istituzionali che le migrazioni in qualche modo mettono in discussione, contribuendo a configurare l’evoluzione della specie sul pianeta e a determinare processi di differenziazione e trasformazione delle biodiversità e dinamiche che durano ancora oggi.
“Prima dell’età antica, la specie umana non è tutta nomade e seminomade, come si legge da troppe parti. Esiste un antichissimo e complesso fenomeno migratorio, precedente il tradizionale inizio della storia. Poi, dopo la diffusa rivoluzione neolitica, si stagliano probabilmente due lunghi periodi storicamente e geograficamente determinati delle migrazioni umane sulla Terra: il periodo antico della diffusione dell’agricoltura, primo e quasi unico settore produttivo, anche durante i fenomeni medievali (e forse non proprio solo europei latino-germanici) del feudalesimo e dell’assolutismo; il periodo moderno dell’espansione di Stati europei e di confini statuali, subito collegato al periodo contemporaneo delle rivoluzioni industriali, fino alla globalizzazione e ai cambiamenti climatici antropici globali.” (p. 71).
Si rende dunque indispensabile, secondo gli autori, la ricostruzione dell’“impasto migratorio fra mondi separati delle antichissime e antiche comunità” per capire anche gli sviluppi successivi della vicenda umana.
Gli ultimi capitoli del volume sono dedicati alla storia moderna e contemporanea delle migrazioni a cominciare dai due Out of Europa: il primo con la conquista del mondo da parte degli Stati europei a partire dall’inizio del XVI secolo; il secondo dopo la rivoluzione industriale alla fine del XVIII secolo con l’inizio dell’Antropocene.
Alla base delle migrazioni internazionali del primo Out of Europa, tra gli altri fattori, l’affermazione dello Stato moderno e poi di quello nazionale, delle nuove armi e delle nuove navi. Del secondo, l’espansione del capitalismo, l’imperialismo degli Stati europei che nel 1914 controllavano l’81,4 per cento della superficie mondiale, le dinamiche demografiche ed economiche delle madrepatrie: nei primi decenni del Novecento La somma dei migranti era pari a circa il 5 per cento della popolazione mondiale. Emigrazione e immigrazione si formalizzano con gli Stati nazionali: si vanno definendo in questo periodo la condizione di profugo e di rifugiato e si cominciano ad adottare politiche migratorie statali, soprattutto per il controllo degli arrivi e il contingentamento dei flussi.
Venendo all’oggi, gli autori mettono in rielevo il nesso tra clima e migrazioni, documentato anche dai numerosi rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC Intergovernmental Panel on Climate Change http://www.ipcc.ch/index.htm); nesso peraltro già presente nelle migrazioni di massa della specie all’inizio della sua storia. Con una novità decisiva: adesso l’ecosistema globale è messo in discussione dall’azione di Homo sapiens. I profughi ambientali (migranti forzati dall’impatto umano sugli ecosistemi, da disastri e delocalizzazioni) sarebbero nel 1994 circa 25 milioni, cui dobbiamo aggiungere quelli a seguito di guerre, violazione dei diritti, povertà, disuguaglianze multiple: i migranti forzati costretti a fuggire dalle loro case sono stati 59,5 milioni alla fine del 20I4, con una tendenza al rialzo che sembra consolidarsi.
Di fronte a questo quadro, che fare? Gli autori propongono tre percorsi per non subire ma gestire i futuri flussi migratori: – riconoscere i rifugiati climatici; – contrastare le migrazioni forzate; – gestire le migrazioni sostenibili.
Sono migranti contemporanei a noi oltre un miliardo dei sette e mezzo miliardi di donne e uomini che vivono nel pianeta. Accanto alla libertà di migrare (già prevista nella Dichiarazione universale dei diritti umani: art. 13 e 29), va garantito il diritto di poter retare con dignità nel territorio dove si è nati.
Un impegno decisivo per la sopravvivenza, la convivenza, lo sviluppo di Homo sapiens e dell’intero ecosistema: “La virtù necessaria per questa impresa è anche una delle più scarse al momento: la lungimiranza. Verso il passato e verso il futuro”.
Ernesto Perillo
[IF]Storia globale. Un’introduzione – CONRAD (BC)
CONRAD, Sebastian. Storia globale. Un’introduzione. Roma: Carocci, 2015. 210p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.5, p.55-60, giu., 2017.
Non considerata a rigore tra i segnali paratestuali, l’introduzione assolve a diversi compiti importanti: indicare le ragioni della trattazione del tema in oggetto; presentare il tema, esplicitando, se necessario, questioni, genesi, elementi; ricapitolarne riassuntivamente il contenuto.
Posta sulla soglia del testo, l’introduzione ne costituisce, dunque, la necessaria porta di ingresso: una mappa per la comprensione anticipata del territorio che vogliamo esplorare. In questo caso quello della storia globale: il libro di S.Conrad ci consente di averne una visionecomplessiva e articolata, capace di farci conoscereil tema ancora prima di averlo attraversatoconcretamente e utile proprio per esserne unaguida preventivamente efficace.
Un’introduzione, appunto.
Analizziamo la mappa/introduzione alla storia globale: ci mostra sostanzialmente tre luoghi e consente di rispondere a tre domande: La sua genesi: quando e com’ è nata la storia globale? Definizione e contenuti: che cosa è e di cosa si occupa la storia globale? Gli aspetti critici: quali le controversie e le obiezioni più frequenti? Cominciamo allora l’esplorazione, partendo dalla definizione di storia globale : “A un primo approccio, ancora molto generale, la storia globale definisce una forma di analisi storica nella quale fenomeni, eventi e processi vengono inquadrati in contesti globali. Con ciò non si intende necessariamente che l’indagine venga estesa all’intero globo terrestre; per molti temi i punti di riferimento saranno più limitati. Ciò significa anche che la maggior parte degli approcci di storia globale non cerca di sostituire l’affermato paradigma storico-nazionale con un’ astratta totalità del “mondo”, cioè di scrivere una storia totale del globo. Spesso si tratta più facilmente della storiografia di aree limitate, quindi non “globali”, ma piuttosto con una consapevolezza delle relazioni globali”.1 La storia globale è dunque innanzi tutto una prospettiva2, che pone in primo piano altre dimensioni, altre domande attraverso le quali traguardare il passato. Ma è al tempo stesso un tema specifico del discorso storico: per una contestualizzazione globale è spesso importante rendere conto del grado e del carattere dei collegamenti delle reti globali.3
La genesi
Quando si chiede a uno storico/a una definizione, (di solito) la riposta è il racconto di una storia: la comprensione di un fatto è custodita nella sua genesi; nei contesti e/o nei processi dentro i quali esso si è manifestato.
S.Conrad dedica i capitoli iniziali della suaintroduzione alla storia della storia globale, a partire dall’antichità, per mostrare come i concetti di “mondo” e globalità siano storicamente mutevoli e diversi a seconda dell’epoca e dei luoghi. E mette a fuoco un elemento decisivo:
“ Come qualsiasi altra forma di storiografia, anche la storia globale è sempre plasmata dalle sue condizioni di nascita e dal contesto sociale concreto nel quale viene scritta. Una prospettiva di storia globale è, a questo riguardo, prima di tutto una specifica lettura delle relazioni globali, e non significa affatto che questa visione debba anche essere capita o addirittura accettata ovunque nel mondo. Così come i testi scolastici tedeschi, francesi o polacchi si possono differenziare (nei loro interessi tematici, in ciò che omettono, ma anche nelle interpretazioni degli eventi che trattano), altrettanto le rappresentazioni della storia mondiale possono variare talvolta in maniera sostanziale.
(…) Singoli temi, ad esempio lo schiavismo, mutano il loro significato sociale in maniera basilare, a seconda se esso venga preso in considerazione dalla prospettiva dell’Angola o della Nigeria, del Brasile o di Cuba, ma anche della Francia o dell’ Inghilterra. E anche il concetto di mondo rispettivamente rilevante non è affatto omogeneo in differenti società e nazioni.
Poiché la storia globale non è un soggetto naturalmente dato ma rappresenta una prospettiva, è tanto più importante considerare da dove essa viene osservata.” (p. 45)
Tre sono gli approcci che dagli anni Novanta del secolo scorso caratterizzano la storia globale: -l’analisi di connessioni transnazionali(senza un esplicito riferimento al”mondo”): il riferimento è alla storiacomparata (ma non solo) e all’attenzioneprivilegiata alle macroregioni (OceanoIndiano, Oceano Atlantico, il continenteeuropeo nel suo complesso…); -la storia delle civiltà; -la pluralizzazione della storia globale emondiale: “conviene osservare la storia globale in una prospettiva di storia globale, per assicurarsi della relatività e della posizionalità di ogni lettura del passato globale.”(p. 63)
I contenuti
a.Gli ambiti
S.Conrad individua quattro ambiti didiscussione, all’interno dei quali attualmente gli storici riflettono sulla dinamica del mondo moderno: -la teoria del sistema-mondo: dall’approccioteorico elaborato da I. Wallerstein negli anni Settanta alle critiche successive circa la possibilità del suo utilizzo ancora oggi: superamento della cornice analitica dello Stato nazionale, uso del concetto dell’incorporazione graduale in un contesto dominato dall’Europa, attenzione ai cambiamenti strutturali di natura macrostorica; -i postcolonial studies per una lettura noneurocentrica del mondo moderno. Dopo aver messo in luce alcuni elementi critici della prospettiva postcoloniale, l’autore ne sottolinea tre aspetti ancora significativi: l’esistenza di spazi di ibridazione, acquisizioni locali, negoziazioni in condizioni coloniali accanto alla diffusione e all’adattamento come processi di transfer culturali di storia mondiale; l’attenzione alle dipendenze, interferenze, connessioni, superando l’idea che nazione e civilizzazione siano da considerare unità “naturali” della storia, contro una storiografia mondiale eurocentrica che legge lo sviluppo europeo/occidentale slegato dal resto del mondo; la considerazione che i processi di integrazione globale si realizzano entro rapporti e strutture di dominio; -le analisi delle reti: l’epoca degli Statinazionali, basati sul controllo di territori pensati come superfici in relazione tra di loro, è stata sostituita dall’epoca della connessione (merci, informazioni, uomini e donne); -il concetto di multiple modernities: al centrodell’attenzione la pluralizzazione delle linee di sviluppo della modernità e il ridimensionamento dell’assioma della secolarizzazione che avrebbe accompagnato ovunque i processi di modernizzazione.
Diversi, secondo Conrad, sono gli ambiti storiografici rivisitati in prospettiva di storia globale dalla storia economica a quella sociale, da quella geopolitica alla storia culturale e della vita quotidiana, per citarne alcuni. L’autore indica sei campi nei quali oggi la ricerca è particolarmente attiva: merci globali; storia degli oceani; la migrazione; gli imperi; la nazione; la storia dell’ambiente.
b.Le problematiche di riferimento
Quali le principali questioni della storiaglobale? Conrad le individua a partire dalle seguenti domande: “Come si può scrivere una storia del mondo e delle sue connessioni che non sia eurocentrica e la cui logica non sia prestrutturata attraverso l’uso di concetti occidentali? Da quando si può propriamente parlare di un contesto globale, e di una storia della globalizzazione? Ha corso la storia del mondo sempre verso l’egemonia dell”’Occidente”, come essa si è manifestata nel XIX e XX secolo, e quali erano le cause di questa divergenza tra Europa e Asia? Infine, c’è stato un potenziale di modernizzazione anche al di fuori dell”’Occidente”, e quale significato hanno avuto le rispettive risorse culturali di società premoderne per la transizione a un mondo moderno globalizzato? “ (p. 95) Sono questioni importanti: potrebbero (dovrebbero?) essere domande guida anche per la storia generale insegnata. Vediamole nel dettaglio: Eurocentrismo Per molto tempo nella storiografia mondiale l’Europa (e la master narrative eurocentrica) era vista come l’unico soggetto attivo.
Nell’assunzione critica dell’eurocentrismo si tratta di trovare un equilibrio tra il superamento di questa impostazione e la non marginalizzazione dell’Europa, distinguendo tra eurocentrismo come dinamica del processo storico (incomprensibile senza il riferimento all’egemonia dell’Europa occidentale e più tardi degli Stati Uniti, in un processo che non fu lineare e che ebbe inizio solo nel XIX secolo) ed eurocentrismo come prospettiva: presunti concetti analitici come nazione, rivoluzione, società o progresso trasformarono un’esperienza parziale, quella europea, in una lingua teorica universalistica, che prestruttura già l’interpretazione dei rispettivi passati locali.
Periodizzazione
Anche qui ha senso distinguere in modo euristico tra globalizzazione come processo e globalizzazione come prospettiva. In merito al primo punto: la maggior parte degli storici pone l’inizio di una connessione globale al principio del XVI secolo. La seconda possibile cesura di questa storia cade nel XIX secolo: fino ad allora il mondo era ancora un mondo delle regioni, strettamente unito da molteplici reti (reti commerciali e correnti migratorie così come comunanze culturali). Ma solo dalla metà del XIX secolo si giunse a una connessione sistematica, all’integrazione globale delle società, in ragione della sovrapposizione di «due macroprocessi reciprocamente dipendenti» (Charles Tilly) del mondo moderno: la formazione e la diffusione del sistema degli Stati nazionali e la creazione di un meccanismo universale di mercati e di accumulazione di capitale.
Si può parlare di una nuova fase della globalizzazione dal 1990? Conrad mette in discussione questa ipotesi, sottolineando come, in generale, una storia della globalizzazione non dovrebbe essere una narrazione lineare della sempre più grande connessione del mondo.
Altro aspetto fondamentale: la globalizzazione come prospettiva. Nel XIX secolo la globalizzazione ha presupposto la diffusione di norme euro-americane, in condizioni di colonialismo e di estensione universale dello Stato nazionale. All’interno di questo paradigma le differenze culturali erano state gerarchizzate e disposte in scala temporale: la connessione del modernizzazione complessiva e di un’omogeneizzazione graduale. Dal tardo XX secolo, sostiene Dirlik, ciò è mutato: la differenza culturale non appariva più come arretratezza, ma era concepita come alternativa a concetti eurocentrici o, meglio, universali. La globalizzazione e l’insistenza sull’ autonomia culturale andavano di pari passo. E ancora: l’aumento d’interazione globale addirittura rafforzava e produceva specificità culturali. Invece di una temporalizzazione della differenza, nel senso della costruzione di diversi gradi di sviluppo, il mondo globale del XXI secolo ha vissuto addirittura uno spatial turn. Progetti di modernità culturalmente diversi e concorrenti potevano dunque essere pensati come esistenti fianco a fianco contemporaneamente.
Asia e Europa
Perché l’Europa? In che cosa consisteva il Sonderweg (“la via speciale”) europeo? È davvero esistito? Nella lunga discussione su questo tema, si possono distinguere essenzialmente tre posizioni. La prima rimandava a Marx e poneva in primo piano la questione dei modi di produzione. In opposizione a ciò, gli storici che si orientavano all’opera di Weber insistevano sui fattori culturali e istituzionali. Sia l’approccio classicamente marxista che quello weberiano privilegiano, secondo Conrand, modelli esplicativi endogeni e si limitano a una narrativa che spiega l’ascesa dell’Europa da sé stessa, internalisticamente.
A partire dai tardi anni Novanta è stata pubblicata una serie di lavori che hanno spostato il terreno sul quale era stata condotta questa discussione in maniera sostanziale. Conrad passa in rassegna i contributi revisionistici della cosiddetta California School (l’espressione designa storici come Pomeranz, Wong, Frank) che hanno proposto una spiegazione della dinamica dell’economia inglese non più endogena e non basata su lunghe continuità culturali e istituzionali. Al centro di questa lettura la prospettiva comparata, lo sguardo dalla Cina, l’accentuazione di interazioni transregionali, l’attenzione alle origini politiche della rivoluzione industriale e l’enfatizzazione di fattori casualmente coincidenti (conjunctural foctors).
Early modernities
In generale si tratta di capire quale significato possa essere attribuito, nel passaggio al mondo moderno, alle diverse risorse culturali di società non occidentali.
Gli approcci più interessanti della early modernity si riferiscono a un periodo dell’età moderna, che durò all’incirca dal 1450 al 1800, un’epoca durante la quale si costituirono le forze e le strutture che produssero trasformazioni in collegamento tra di loro, ma per nulla identiche, che poi sfociarono nel mondo del XIX secolo: solo nell’ambito dell’integrazione imperialistica e capitalistica del mondo dopo il 1800 esse furono gradualmente incorporate negli ampi processi che plasmarono il mondo moderno.
La più estesa argomentazione della early modernity è stata sinora formulata per la Cina e in generale per altri paesi asiatici (India e Giappone) Le critiche I progetti di storia mondiale e globale non sono stati esenti da critiche e obiezioni, anche se le riserve, in fondo, non hanno messo in discussione in modo radicale tale approccio. Nell’illustrare i principali limiti della ricerca di storia globale, l’autore vuole dare un contributo costruttivo per l’approfondimento di questa prospettiva.
La riserva metodologica
Gli storici globali non si basano su fonti primarie ma sono vincolati del tutto alla letteratura secondaria. Del resto questa è anche la situazione delle opere generali di storia nazionale che si basano su una visione d’insieme dei risultati di ricerche “locali”.
La strumentazione concettuale
Le nozioni/concetti con cui si scrive la storia delle connessioni globali sono quelle/i dela “zavorra” eurocentrica: feudalesimo, nazione, religione…? Non c’è il rischio di omologare concettualmente situazioni diverse, e di appiattire differenze e particolarità? Il concetto di globalizzazione rischia di essere un macroconcetto poco utilizzabile in contesti specifici che presentano dinamiche diverse.
La finalizzazione teleologica Le prospettive storico-globali corrono il rischio di costruire una genealogia dell’attuale processo di globalizzazione come svolgimento quasi inevitabile e naturale.
La storia e la connessione globale limitate alle sole relazioni con l’Europa
L’esempio è quello della storia dell’India che sarebbe stata liberata dalla stagnazione solo con il colonialismo, mentre già in epoca precoloniale intratteneva rapporti economici e culturali importanti con l’Africa, l’area araba e il Sud-Est asiatico.
La ricerca storica globale secondo Conrad deve affrontare una serie di questioni e evitare alcuni pericoli per poter sviluppare un proficuo dialogo critico al suo interno: il rischio di sostituire l’eurocentrismo con il sinocentrismo (come nel libro ReOrient di Frank); la sopravvalutazione dei fattori esterni, assegnando particolare valore al contesto spaziale nella spiegazione di eventi e processi; la sopravvalutazione delle connessioni, dei punti di contatto trascurando le particolarità; la feticizzazione della mobilità; la marginalizzazione degli approcci che soprattutto negli anni Ottanta hanno messo in evidenza l’importanza delle dimensioni storico-culturali e di storia del genere del passato; la tentazione di dimenticare che la storia globale è pur sempre una prospettiva per gettare un nuovo sguardo sul passato, non semplicemente un oggetto che esiste senza problemi.
Conrand insiste, come abbiamo già detto sulla pluralizzazione della storia globale e la “posizionalità” di ogni lettura del passato globale. E cita lo studioso della letteratura S. Krishan che mette in evidenza i meccanismi linguistici e narrativi attraverso i quali il mondo viene creato come unità connessa e interdipendente:
«Nelle discussioni recenti sulla globalizzazione viene tacitamente accettato che l’aggettivo “globale” si rivolga a un processo empirico, che ha luogo “lì fuori” nel mondo. [ … ] Al contrario io parto dal presupposto che “globale” descriva un modo della tematizzazione, o un modo di occuparsi del mondo». La lingua del globale suggerisce una trasparenza, un accesso diretto a un processo da osservare empiricamente: in effetti, però, si tratta di un modo che riassume diversi fenomeni in un comune discorso e così lo rende controllabile. Esso non rimanda al mondo in sé, ma alle condizioni e alle implicazioni dei modi istituzionalizzati per mezzo dei quali i diversi terreni e popoli di questo mondo vengono resi leggibili all’interno di un’unica cornice» (…). Il globale rappresenta la prospettiva dominante dalla quale il mondo viene prodotto come rappresentabile e controllabile». (p. 79).
[Notas]1 S. Conrad, Storia globale. Un’introduzione, Roma, Carocci, 2015, p.18.
2 “Per fare un esempio, si può osservare il Kulturkampf in Baviera nel XIX secolo da un punto di vista di storia locale, con una problematizzazione storico-culturale o di storia di genere, o come parte della storia tedesca. Però lo si può anche collocare in maniera storicoglobale e intendere come espressione dei contrasti tra lo Stato liberale e le Chiese, che furono condotti nel XIX secolo in molte parti del mondo: in tutta Europa, ma anche in America Latina o in Giappone”. Ibidem, p. 20.
3 “Il crash della borsa di Vienna nel 1873 ebbe un’ importanza differente dalle crisi economiche del 1929 e 2008, perché il grado di collegamento dell’economia mondiale, ma anche l’intreccio mediatico degli anni intorno al 1870, non aveva ancora raggiunto la stessa densità che in seguito”. Idem.
Ernesto Pirillo
[IF]Introduzione alla World History – VANHAUTE (BC)
VANHAUTE, Eric. Introduzione alla World History. Bologna: Il Mulino, 2015. 268p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Il Bollettino di Clio, n.5, p.61-63, giu., 2017.
Per segnalare questo bel libro di storia cominceremo dalla fine, dall’ultima pagina. Qui E. Vanhaute conclude la sua chiara illustrazione della world history, affermando che in buona sostanza, con la sua moltitudine di scale e di paradigmi, essa ha l’ambizione di spiegare, dandole un senso, la presenza umana sul pianeta; e lo fa inquadrando la storia dell’umanità in un “contesto sempre più vasto, coordinato e organico”. La parola-chiave è appunto “contesto”. La storia, infatti, viene compresa quando si riesce a coglierne l’essenza e ciò è possibile quando si riesce a guardare gli umani muoversi nel mondo, nel mondo intero. Per secoli così non è stato. Vanhaute, citando Braudel, ricorda che “avendo inventato il mestiere dello storico, l’Europa se n’è avvalsa a proprio vantaggio”, costruendo una storia eurocentrica.
Ancora oggi che disponiamo di un patrimonio di conoscenze sterminato, molto più vasto che nel passato, la storia della non-Europa stenta a farsi, a causa della disparità a favore della civiltà occidentale nella distribuzione di conoscenza.
L’abbandono del modello eurocentrico non significa, però, la ricerca di un altro “centro”. La wh non adotta un’unica scala di spazio e di tempo, da cui far scaturire tutte le altre. Ogni scala ha una sua autonomia, anche se parziale, in quanto interdipendente da tutte le altre. Le società umane, ricorda Vanhaute, sono sempre collegate tra loro per mezzo di una molteplicità di sistemi: sistemi economici, sistemi migratori, sistemi ecologici, sistemi culturali. Mediante analisi comparate dei sistemi e delle loro interconnessioni in un quadro transnazionale si può riuscire a fornire qualche risposta alle domande basilari della wh, che sono: “
In che modo i gruppi delle popolazioni appartenenti a differenti contesti spazio-temporali conseguono obiettivi simili con mezzi diversi (la riproduzione del sé fisico, del lavoro, delle conoscenze e delle scoperte a cui sono giunti, dei modelli sociali e culturali e, infine, della loro società)? Quali fattori (esterni, ossia ecologici; interni, e dunque sociali) producono risultati simili o dissimili? In che modo le popolazioni sviluppano le loro società? E in che modo i sistemi sociali cambiano in seguito al contatto, all’interazione o al conflitto con altre società? Fino a che punto determinati sistemi sociali convivono fianco a fianco o prendono il sopravvento su altri sistemi?” (p.29).
Tre sono le dimensioni in cui si articolano le scienze umani e sociali: quella spaziale, quella temporale e quella tematica. Tutte e tre sono sempre frutto di scelte culturali: le scale spaziali, le periodizzazioni temporali, le unità di analisi tematiche. A tale proposito vale la pena di ricordare cosa non è (o non è soltanto) la wh. Essa non è:
“una storia universale o totalizzante: la storia di «tutto»; una storia internazionale: non è solo la storia dei rapporti tra le «nazioni»; una storia della civiltà (occidentale): è più di una storia dell’ascesa di una civiltà (occidentale);.
la storia del non-Occidente (in precedenza chiamata storia «coloniale» o «d’oltreoceano»: è più di una storia del mondo al di fuori dell’Occidente); una storia sociale comparata: è più di una storia comparata delle società; una storia della globalizzazione: il suo campo d’indagine è ben più vasto rispetto a quello della storia della globalizzazione.” (p. 27)
Vanhaute fa bene a sottolineare che le storie “universali” non costituiscono un’invenzione recente, anzi. Le narrazioni storiche che vanno oltre i confini spaziali del proprio paese hanno una lunga tradizione in Cina, Giappone, Asia sudoccidentale, nel mondo islamico, oltre che nella cultura occidentale. Ma sempre la concezione è teleologica: la propria civiltà costituisce il naturale punto di partenza e di arrivo, a dimostrazione della naturale propria superiorità. Le maggiori religioni monoteiste hanno elaborato un proprio specifico mito della creazione, mescolando predestinazione divina, mito e linguaggio simbolico con eventi realmente accaduti, con l’obiettivo di presentare una “verità generale, universale e spesso eterna”.
Vale la pena di ricordare due tra gli esempi riportati da Vanhaute: il De civitate Dei di sant’Agostino, la cui storia teleologica e senza tempo della città dell’uomo e della città di Dio fonda la tradizione dell’historia universalis del cristianesimo e le Storie nelle quali Erodoto cerca e descrive differenze e somiglianze dei popoli non-greci (barbaroi) con i greci.
Da segnalare, infine, la breve cronologia della storia umana proposta dall’autore all’inizio del volume, dopo aver precisato che il computo del tempo, pur rifacendosi al calendario cristiano, utilizza la dicitura “avanti e dopo era volgare”, «a.e.v.» e «d.e.v.», invece di «a.C.» e «d.C.» in quanto più neutra, così come vengono evitate categorie eurocentriche come «antichità», «Medioevo», «Rinascimento», «età moderna»:
Se questa è la scansione temporale delle principali trasformazioni che segnano i periodi della storia dell’umanità a scala mondiale, i temi presentati e sviluppati sono: la trasformazione demografica (un mondo umano), l’ecologia (un mondo naturale), l’alimentazione (un mondo agrario), le sovranità e i poteri (un mondo politico), le culture e le religioni (un mondo divino), l’Occidente e il resto del mondo (un mondo diviso), globalizzazione o globalizzazioni? (un mondo globale), sviluppo e povertà (un mondo diviso), unità e frammentazione (un mondo frammentato).
Sedici pagine di bibliografia e sitografia forniscono indicazioni di studio generale e tematico per una nuova storia dell’umanità.
Enzo Guanci Acessar publicação original
[IF]Clio | Clio ’92 | 2012
Il Bollettino di Clio (2012-) è il periodico on-line dell’Associazione Clio ‘92: è scaricabile dal sito da parte di tutti i soci, e risponde al desiderio di far circolare informazioni, idee, materiali che possono contribuire a formare la professionalità e la condivisione di prospettive rispetto all’insegnamento della storia.
L’associazione CLIO ’92 è stata costituita da un gruppo di insegnanti di storia nel 1998 con lo scopo di approfondire e dare impulso alla ricerca teorica ed applicata sui problemi dell’insegnamento e dell’apprendimento della storia.
La sua ambizione è di tenere la storia insegnata fortemente collegata alla storia degli esperti. Le sue posizioni sulla didattica della storia sono manifestate nelle tesi pubblicate nel 2000 nel primo numero della rivista “I Quaderni di Clio”, aggiornate nelle assemblee nazionali dei soci che si tengono ogni anno e pubblicate nel sito dell’associazione www.clio92.it.
[Periodicidade semestral]ISSN 2421-3276 (Online)
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